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  • Venerdì 5 novembre 2010

John Boehner, il nuovo speaker della Camera

Time racconta il repubblicano dalle lacrime facili che prenderà il posto di Nancy Pelosi

House Republican leader John Boehner of Ohio arrives for a news conference on Capitol Hill in Washington, Wednesday, Nov. 3, 2010, to discuss the sweeping GOP victory in the 2010 midterm elections. (AP Photo/J. Scott Applewhite)
House Republican leader John Boehner of Ohio arrives for a news conference on Capitol Hill in Washington, Wednesday, Nov. 3, 2010, to discuss the sweeping GOP victory in the 2010 midterm elections. (AP Photo/J. Scott Applewhite)

Chi ha seguito anche superficialmente queste elezioni di metà mandato negli Stati Uniti sa almeno tre cose, di John Boehner. La prima è che era il leader dei repubblicani alla Camera. La seconda è che a seguito della vittoria del suo partito diventerà dal prossimo gennaio il nuovo speaker della Camera, sostituendo Nancy Pelosi. La terza cosa è che la notte delle elezioni, salendo su un palco per commentare la vittoria dei repubblicani, John Boehner si è commosso. Non è una novità, e proprio da lì parte il lungo articolo di copertina dell’edizione di questa settimana di Time, dedicato proprio alla futura terza carica degli Stati Uniti d’America.

Boehner ha pianto alla Camera alla fine del 2008, durante il discorso con cui difese la necessità di far passare il bailout, il piano di salvataggio delle banche. Ha pianto durante un discorso col quale accusava i democratici di voler abbandonare i soldati statunitensi impegnati in Iraq. Finché Ted Kennedy era vivo, ogni anno organizzava con lui una cena di raccolta fondi per le malridotte scuole cattoliche del paese. E ogni anno piangeva. “John ha il cuore più grande della Camera”, ha detto Mike Pence, suo collega repubblicano che gli contese la leadership alla Camera nel 2006.

Non è un personaggio di facile lettura, il prossimo speaker della Camera. Ha guidato i repubblicani a una vittoria storica giocata sull’entusiasmo dei tea party, sulla freschezza degli outsider e sulla protesta contro i veterani di Washington, lui che un veterano di Washington lo è su serio. Ha un seggio al congresso da vent’anni, e da tempo i democratici lo descrivono come un ricco borghese, appassionato di golf, circondato da lobbisti, molto ben vestito e soprattutto con idee di estrema destra: l’incarnazione di quanto di male si possa vedere in un repubblicano. E però Boehner è anche il politico dalla lacrima facile, caratteristica che smonta tutto il cliché da repubblicano duro e puro: i suoi compagni di partito lo descrivono invece come un uomo umile, con profonde radici nella classe media, cresciuto in una casa con undici fratelli e un solo bagno. Un conservatore pragmatico e sensibile, dicono, abile a trattare col potere senza essere schiavo, dal profilo istituzionale e pronto per presiedere la Camera in modo equo e democratico.


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Ora, spiega Time, non è che la caricatura che ne fanno i democratici venga proprio dal nulla. È vero che Boehner è circondato di lobbisti, sono veri i suoi legami con banche e imprese. Ed è vero che è tutt’altro che un repubblicano atipico, visto che negli ultimi anni ha sostenuto praticamente tutte le proposte dell’amministrazione Bush e si è opposto a tutte le proposte dell’amministrazione Obama. In ogni caso, il ruolo di presidente della Camera certamente aiuterà gli Stati Uniti a inquadrarlo meglio. Una cosa la sappiamo già: Boehner non dovrebbe replicare i toni rumorosi e polarizzanti mostrati dallo speaker che guidò un’altra riscossa repubblicana durante una presidenza democratica, il Newt Gingrich del 1994.

Come vice di Gingrich, Boehner ha visto da molto vicino l’ultima rivoluzione repubblicana e chiede continuamente consigli ai suoi colleghi più fidati su cosa fare per evitare gli errori commessi dall’allora speaker della Camera. Il malinterpretato tono del discorso di Boehner nella notte delle elezioni – in cui ha detto per due volte che “non è ora di festeggiare” – non era un caso: era il tentativo determinato di evitare di attrarre tutte le attenzioni su di sé con qualche sparata, atteggiamento che lui associa istintivamente agli anni di Gingrich. Il suo discorso si è concentrato sulla necessità di ascoltare i desideri del popolo americano, non le fantastiche e provocatorie idee di John Boehner.

Nel lungo termine, l’obiettivo è quello di imporsi come il volto responsabile e ragionevole del partito repubblicano. Il tutto cercando di non inimicarsi i tea party, che da tempo guardano sospettosamente ai suoi legami a Washington e ora alla sua volontà di collaborare con l’amministrazione Obama.

Poi Time ci racconta anche cose più curiose, di Boehner: che al Congresso lo prendono in giro e lo vedono come una specie di dandy, per via della sua attenzione nel vestire. Che si annega nell’acqua di colonia prima di uscire di casa, che non risparmia mai una battutina a chi considera mal vestito o pettinato. E il golf gli piace effettivamente un sacco. Alcune di queste cose avevano portato la scena nazionale a sottovalutare Boehner e le sue possibilità di giocare ad alti livelli. L’essere riuscito a ricompattare i repubblicani dopo il tracollo del 2008 ha fatto cambiare idea a molti.

Il suo piano da leader dei repubblicani non si discosta dalla storica ortodossia del partito. Tagli alle tasse, minor intervento dello stato sull’economia, più trivellazioni in cerca di petrolio, tagli alla spesa (almeno in teoria) e l’abolizione di più o meno tutto quello che ha fatto Obama in due anni. Questo, d’altra parte, era il contenuto della “Promessa all’America”, una specie di rivisitazione del “Contratto con l’America” siglato da Gingrich nel 1994, che arrivò poi qualche anno dopo in Italia sotto forma di “Contratto con gli italiani”.

La storia personale di Boehner, invece, è meno ortodossa. Viene da Reading, in Ohio, ed è cresciuto nella classica famiglia operaia e democratica. Suo papà aveva un piccolo bar, sua madre lavorava come cameriera. Almeno finché non cominciò a fare figli: John fu il secondo, alla fine furono dodici. “Vivere in una famiglia così grande ti insegna a fare dei compromessi”, ha detto a Time un suo amico d’infanzia, “e John è sempre stato molto bravo a convincere le persone”. Boehner ha sempre lavorato. Serviva ai tavoli al bar di suo papà, si svegliava alle tre del mattino per consegnare i giornali, andava a giocare a football. Nessuno avrebbe immaginato che sarebbe finito in politica, e a questi livelli.

La sua esperienza di piccolissimo imprenditore insieme al padre lo portò a interessarsi alla politica: si sentiva oppresso dalle tasse e dall’intervento dello stato, andò con i repubblicani. E quindi cominciò dal piccolissimo, dall’associazione degli imprenditori della sua contea, per diventare poi deputato del suo stato e infine deputato al Congresso. Era il 1990. Si fece un nome come giovane, riformista e modernizzatore del partito. Gingrich lo scelse nel suo giro di fiducia, partecipava settimanalmente a riunioni strategiche, conosceva persone influenti, finanziatori e lobbisti. Si faceva le ossa.

Dopo le elezioni di metà mandato del 1998, però, divenne chiaro che l’estremismo e l’egocentrismo di Gingrich stavano rappresentando per i repubblicani più un problema che una risorsa. Boehner collaborò con alcuni membri del partito repubblicano per farlo dimettere, alla fine gli posero un ultimatum: se non si fosse dimesso, lo avrebbero sfiduciato. Gingrich si dimise, e trascinò inevitabilmente con lui Boehner, che benché alla fine se ne fosse allontanato ne era stato a lungo vicino e alleato. Fu estromesso dagli incarichi di qualche importanza. “Sopravviveremo”, disse al suo staff. È sopravvissuto. Ora che è il leader dei repubblicani, sa che nelle retrovie si scalda chi vorrebbe prendere il suo posto. In primo luogo Eric Cantor, brillante deputato della Virginia da tempo in odore di nomination alla presidenza o alla vice presidenza. “È qualificato e pronto a prendere il mio posto”, ne ha detto Boehner. “Al momento opportuno”.