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Asino chi legge

È uscito per Guanda il nuovo libro di Antonella Cilento sulla sua esperienza di insegnante di scrittura nelle scuole del sud

di Antonella Cilento

È il mese di marzo.
C’è sole e non so bene che strada fare per arrivare alla scuola dove ho, nel primo pomeriggio, lezione di scrittura creativa. È una scuola media, la preside è una professoressa sveglia e piena di iniziative.
Il quartiere è uno di quei quartieri di Napoli che, se non ci si abita o si ha una ragione specifica per andarci, è solo un nome, un’immagine degradata che si guarda prendendo la tangenziale o l’autostrada, dai ponti. In verità, ci passo assai spesso andando ad Avellino in autobus (sempre per via del mio lavoro di scrittrice in trasferta, in qualità di Esperto Esterno di scrittura creativa): l’autobus fa un lungo giro per imboccare l’ingresso dell’autostrada più lontano da via Marina, l’arteria che collega Napoli ai paesi vesuviani, e di conseguenza costeggia il rione Luzzatti.

Il rione Luzzatti porta il nome del primo ministro che emanò in Italia una legge sull’edilizia popolare nel 1903, che prevedeva la costruzione di nuclei abitativi vicino alle zone industriali. La zona industriale di Napoli, tuttavia, non contiene più alcuna vera industria, solo fantasmi di capannoni, e non c’è più traccia di case del primo Novecento: il rione Luzzatti, edificato alle spalle della Stazione Centrale e, a seguito della costruzione del Centro Direzionale, ancora più arretrato rispetto alla città, ha l’aspetto di un quartiere povero degli anni Settanta. Dai caseggiati di cemento alti sette o otto piani si vedono le torri giapponesi del Centro Direzionale; fra la sterpaglia e le gomme abbandonate che circondano le palazzine si può godere di una spettacolare vista della collina del Vomero, della Certosa di San Martino e di Castel Sant’Elmo.

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In altre parole, non siamo ancora nell’hinterland, ma non siamo più a Napoli, benché prossimi a quei cartelli da Far West che con una striscia obliqua cancellano il confine di giurisdizione della città. Scendo alla fermata della metropolitana di Gianturco, che è tutta nuova, ben restaurata, ricca di spazi per negozi che nessuno vuole affittare e che forse, di questo passo, non si affitteranno mai. I negozianti hanno paura ad aprire rivendite in quella fermata, nonostante le telecamere, nonostante la sorveglianza giorno e notte.

Intorno crescono ponti, concessionarie d’auto di lusso, grossisti di ceramica e linee bagno, qualche bar, qualche tabaccaio con ricevitoria del lotto, i supermercati cinesi. Ogni cosa è molto distante dalle altre. Il tunnel che separa la fermata della metropolitana dalla strada che mi porterà dentro il rione Luzzatti è largo e basso e si attraversa sia in auto sia a piedi. Anche stamane, che c’è sole e alle due del pomeriggio si direbbe che la situazione sia tranquilla, traversare il lungo tunnel mette un po’ d’agitazione. Un cane mi corre incontro. Un tizio allampanato e curvo con la tuta da idraulico scompare nell’ombra. Se subisci un’aggressione qui nessuno ti vedrà e, se anche ti vedessero, nessuno ti verrà, in ogni caso, in aiuto.
È come il tunnel di Sogni di Kurosawa, da cui escono fantasmi di battaglioni che credono di essere ancora vivi e rincorrono il loro tenente. Nel film c’è anche un cane, uguale a quello che mi corre incontro, un cane che ringhia con le bombe attaccate alla schiena. Mi passa accanto, poi procedo.
Nel rione Luzzatti ci sono grandi vasche pensate come aiuole fiorite in cui crescono erbe male alte almeno un metro. Nel dedalo di caseggiati e erbe male si passa come attraverso una jungla salgariana, anche se il Sandokan che qui potrebbe apparire non è certo Kabir Bedi.
Non si vede un’anima. Chi sta nelle case, dietro le finestre o al riparo delle tende a strisce arancio e blu dei balconi di cemento spellato, si guarda bene dal farsi vedere. C’è e mi osserva, lo so, e posso anche immaginare facce e vestiti: donne sformate, giovani con la faccia da lupo, bambinetti attaccati alla PlayStation.
Echeggiano, nel silenzio irreale, improvvisi allucchi sedati con paccheri a mano piena, la voce del tg regionale, Gigi D’Alessio che canta a squarciagola da una finestra. Devo chiedere a qualcuno dov’è la scuola ma non c’è nessuno. Le traverse si somigliano, un paio di strade hanno anche lo stesso nome.

E poi, di colpo, il caseggiato, in tutto identico agli altri, si lascia distinguere: ha le sbarre alle finestre, è malridotto e circondato da una cancellata carceraria, che dovrebbe contenere alberi e invece racchiude un’indistinta massa verde e gialla. Ecco la mia scuola media.
La preside mi ha avvisato: qui non sarà facile. Le ho risposto: in nessuna scuola italiana è mai facile. Sono diciassette anni che entro nelle scuole come Esperto Esterno e, se conto anche gli anni in cui lo facevo non per insegnare scrittura creativa ma per fare laboratori di teatro, in effetti, sono più di venti anni che mi inserisco fra insegnanti e studenti. Sono un cuscinetto, sono la realtà che entra nella scuola, sono l’Autore che improvvisamente si manifesta come Vivo e non come morta biografia di un’antologia. E faccio tante diverse cose insegnando scrittura: mostro tecniche che la scuola non insegna, risolvo problemi di relazione, riporto i ragazzi alla lettura, suggerisco letture a insegnanti che non leggono o non sanno bene come orizzontarsi fra i libri; a volte, riporto anche ragazzi che hanno abbandonato l’obbligo a scuola. Dalla letteratura alla mediazione, dal laboratorio al problem solving. Una sola cosa di sicuro non faccio: entrare in classe, fare lezione e andarmene.
Quasi sempre il laboratorio produce effetti: sui ragazzi o sui bambini, sugli insegnanti, su di me che partecipo e insieme li guardo.
Nell’aula la prof che mi aspetta, la tutor, è molto giovane, bionda, gentile. I ragazzini sono pochi, non più di quindici. Nel corso delle trenta ore diminuiranno e bisognerà redarguire le famiglie per farli venire, bisognerà farli firmare anche se non c’erano, non in ottemperanza agli obblighi di legge, ma per evitare che lo svuotamento dell’au la faccia saltare il PON, ovvero il progetto europeo che finanzia nel Sud Italia, fino al 2013, i laboratori come il mio.

Ci salutiamo, creiamo un’atmosfera informale, le faccette fetentelle sono simpatiche, sono vispe. Ma si vede subito che non sarà facile tenerle ferme in un banco. Che avete letto, che vi piace leggere? Prufissuré, ma qua’ leggere, che palle.
Andate al cinema?
Eh…!
Ma vi piacciono i film?
Sì, i film gli piacciono ma li vedono a casa, sul pc o in televisione. Non sono mai entrati in una sala cinematografica.


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