Il trucco del Quirinale
Francesco Verderami del Corriere ha una affascinante spiegazione per l'idea da "analfabeti" di chiedere a Napolitano le dimissioni di Fini
L’iniziativa di Berlusconi e Bossi di “salire al Colle” per chiedere al presidente della Repubblica Napolitano di intervenire per le dimissioni di Fini è suonata così implausibile e priva di senso anche all’ultimo bambino all’asilo da ritorcersi in una figuraccia per i promotori, che si sono sentiti dare degli “analfabeti” da Fini stesso in diretta televisiva e hanno incassato due giorni di ramanzine istituzionali da chiunque.
In un paese normale, i critici avrebbero dovuto cercare qualche spiegazione razionale all’annuncio, a fronte della sua palese assurdità. In Italia, dove ormai ci si aspetta di tutto dai massimi leader istituzionali e le figuracce non rappresentano più un problema per nessuno, si è invece messo tranquillamente in conto che solo di questo si trattasse: un ingenuo analfabetismo politico, una fesseria detta oggi e affondata domani, e continuiamo come se niente fosse.
L’analista politico del Corriere della Sera Francesco Verderami annuncia invece oggi una ricostruzione che è insieme più logica e al tempo stesso più spiazzante ancora, quella di un creativo “stratagemma” di Berlusconi per mettere una pezza sul cambio di programma nei confronti delle elezioni. Fosse fondata, la spiegazione di Verderami (contenuta dentro a un’intera pagina di punto della situazione) eleva il PresdelCons al titolo di supremo acrobata politico e di elettrauto delle istituzioni assieme.
Niente urne, dunque. Così si è aperta una faglia nel rapporto con Bossi, che ieri ha minacciato pubblicamente di votare «contro il governo» pur di tornare al corpo elettorale già a novembre. Il Cavaliere ritiene che quella del leader leghista sia «una delle sue solite tirate, per dare un segnale di forza al suo popolo e mobilitarlo», siccome per il fine settimana è prevista la manifestazione dell’ampolla sul Po. In parte Berlusconi dice il vero, d’altronde il capo del Carroccio sa che non è più possibile andare alle urne a novembre. È stato Maroni a spiegarlo l’altra sera al vertice di Arcore: «Per riuscirci, il governo si dovrebbe dimettere entro la prossima settimana. Altrimenti non ci sarebbero i tempi tecnici».
Insomma, Bossi è consapevole che quella data è sfumata, che è costretto a sfruttare solo mediaticamente il 15% di cui lo accreditano oggi i sondaggi: magari se ne servirà per ottenere altro, «la candidatura di un leghista a sindaco di Milano», sussurra andreottianamente un autorevole ministro del Pdl. Sarà, ma c’è dell’altro. Perché il capo del Carroccio aveva fatto più di un pensierino alle elezioni in autunno, al punto che tre giorni fa ha rimproverato il premier di non aver fatto precipitare la crisi a fine luglio, nei giorni dello strappo con il presidente della Camera: «Così saremmo andati al voto a ottobre, prendendo Fini e l’opposizione di sorpresa. E avremmo vinto, Silvio».
«Silvio» però non si è fidato (e non si fida) di tornare così davanti al Paese. È «il mio sesto senso», cioè i sondaggi, che l’hanno trattenuto, facendogli tornare alla memoria come «nel ’96 fui costretto da Fini alle elezioni, mentre io dicevo che avremmo perso. Infatti…». Il Cavaliere non vuole commettere lo stesso errore, perché «è vero che la sinistra non potrà mai battermi», ma è altrettanto vero che al Senato potrebbe non ottenere la maggioranza: «Non è in questo modo che voglio giocarmi la mia ultima partita». Perciò ha fatto resistenza passiva alle pressioni di Bossi: a luglio come adesso. E se in piena estate gli bastò spiegare al Senatùr che non c’erano ancora le «condizioni politiche» per ripresentarsi alle urne, ora ha dovuto escogitare altri stratagemmi.
È stato Berlusconi infatti, dinnanzi alle insistenze del leader del Carroccio, a proporgli di salire al Colle per parlare con il capo dello Stato. Il Senatùr, e con lui i suoi uomini, pensavano che l’appuntamento sarebbe servito per concordare con Napolitano una sorta di road map di fine legislatura, cioè tempi e modi per andare alle elezioni. Peccato che il Cavaliere li abbia spiazzati, annunciando che al Quirinale sarebbe stata sollevata la questione dell’inquilino di Montecitorio e della sua «incompatibilità istituzionale»: «Umberto, sei stato tu a dirmi che Fini può restare nella maggioranza con il suo partito solo se lascia prima la Camera. E con chi ne possiamo parlare se non con il presidente della Repubblica?». Il diversivo ha funzionato, nonostante sia costata al premier una figuraccia e un’ulcera perforante a Gianni Letta. E giusto per evitare sorprese, ha deciso di andare in Parlamento a fine mese, ben oltre il tempo massimo per le elezioni in autunno.