«Vi prego, non mollate»

Bernard Henry-Lévy sul Corriere della Sera intervista il figlio di Sakineh, la donna iraniana condannata alla lapidazione

Bernard Henry-Lévy sul Corriere della Sera intervista il figlio di Sakineh, la donna iraniana condannata alla lapidazione.

Caro Sajjad, mi emoziona molto parlarle. Armin Arefi, di La Règle du Jeu, è qui con me e tradurrà la nostra conversazione. Innanzitutto, dove si trova lei, in questo momento?
«A Tabriz, la città in cui mia madre è detenuta. Sono per la strada. E la chiamo da un cellulare».

Pensa che potremo parlare tranquillamente?
«Credo di sì. Cambio spessissimo numero di telefono per sfuggire agli ascolti telefonici. Tentiamo».

Come sono le autorità nei suoi confronti? Subisce pressioni? Tentativi di intimidazione?
«Sì, certo. Ho ricevuto due chiamate dai servizi segreti. In realtà, due convocazioni. Ma ho rifiutato di andarci. Per ora, non sono stato arrestato».

Non sappiamo niente di lei, caro Sajjad. Chi è? Cosa fa?
«Ho 22 anni. Sono il figlio maggiore di Sakineh. Lavoro dalle 6 del mattino alle 11 di sera come controllore sugli autobus della città. Per il resto… Tutti i miei pensieri, tutta la mia volontà tendono a un solo scopo: salvare mia madre».

A che punto siamo? Come vede oggi le cose?
«Ho attraversato momenti di disperazione. Ho scritto alle autorità. Spesso. Mi hanno risposto con un silenzio totale. Da qualche giorno, con la mobilitazione che lei ha lanciato, ritrovo un po’ di speranza».

Sua mamma, nella sua cella, sa di questa ondata mondiale di solidarietà e amicizia?
«Sì. È stata informata nelle rare visite cui ha avuto diritto. Ne è stata felice. E l’ha ringraziata».

Perché parla al passato? A quando risale la sua ultima visita?
«A poco prima della sua cosiddetta “confessione” televisiva. Fino ad allora, la vedevamo una volta alla settimana, tutti i giovedì. Dopo, niente. Né mia sorella né io. Né gli avvocati. Ancora stamattina, visto che è giovedì, mi sono recato alla prigione. Ma il guardiano mi ha detto: “Alla signora Mohammadi Ashtiani è vietato qualsiasi contatto per decisione del potere”».

Cosa ci può dire delle condizioni di carcerazione di sua madre?
«Sono durissime. Subisce incessanti interrogatori da parte dei Servizi iraniani. Le chiedono, per esempio, come mai il suo ritratto è affisso dappertutto nel mondo e chi, secondo lei, ha lanciato questa mobilitazione internazionale».

Qual è il suo stato psicologico?
«Prende molti farmaci. Antidepressivi. E prega».

Si trova in una cella individuale o con altre donne?
«Tutte le donne condannate della città di Tabriz sono nello stesso quartiere della prigione. Sono piccole celle con talvolta quindici o venti donne accalcate. Ma è possibile che, dopo la sua apparizione alla televisione, l’abbiano messa in una cella individuale. Le ripeto: non so più nulla, non ho più alcuna notizia».

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