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  • Martedì 17 agosto 2010

Prigioni senza sbarre

Un nuovo dispositivo per tracciare gli spostamenti dei detenuti in libertà vigilata potrebbe risolvere il problema di sovraffollamento delle carceri statunitensi

Negli Stati Uniti si discute ciclicamente del problema delle carceri, stracolme di detenuti, invivibili, costose e inadeguate nel perseguire l’obiettivo della rieducazione. La buona notizia è che però, con l’aiuto della tecnologia, qualcuno sta sperimentando qualche soluzione al problema. La BI Incorporated, azienda americana che si occupa di sviluppare tecnologie usate dal governo per la detenzione dei carcerati, ha sviluppato nel 2002 un nuovo tipo di cavigliera per monitorare i movimenti di chi si trova in libertà vigilata: si chiama ExecuTrack ed è stata adottata da alcune carceri restituendo risultati eccellenti.

Graeme Wood, giornalista dell’Atlantic, l’ha indossata per qualche giorno mettendosi nei panni di un detenuto in libertà vigilata, verificandone il funzionamento e l’impatto sulle altre persone. Il risultato è che nessuno si è accorto del dispositivo, e lui ha potuto seguire i percorsi e i ritmi descritti dal suo programma senza sentirsi alienato rispetto al resto della società. E ora racconta la sua esperienza, spiegando perché il carcere tradizionale è diventato sinonimo di fallimento.

Sotto qualsiasi punto di vista, l’idea di rinchiudere un grosso numero di persone dietro le sbarre si è dimostrata nel migliore dei casi inefficace e, nel peggiore, una vergogna di proporzioni nazionali. Secondo un recente rapporto 2.3 milioni di statunitensi sono attualmente in carcere, l’equivalente degli abitanti di Huston. Dal 1983 il numero di detenuti è più che triplicato, mentre il costo totale del sistema carcerario è passato da 10 a 64 miliardi di dollari. In California il mantenimento di un carcerato arriva a costare quasi 50.000 dollari l’anno, quanto la retta di un’università della Ivy League (le otto più prestigiose, ndr).

La situazione non è dovuta a un esponenziale aumento della criminalità ma a un inasprimento delle pene, promesso per fini politici durante le campagne elettorali ma inefficace come deterrente. L’unico risultato sembra essere il sovraffollamento delle carceri e l’emissione di condanne sproporzionate rispetto alla gravità del reato. L’inasprimento è altrettanto inutile da un punto di vista rieducativo: una ricerca condotta da Jesse Shapiro della University of Chicago e M. Keith Chen di Yale dimostra come questo sistema punitivo, che vorrebbe traumatizzare i detenuti dissuadendoli dal commettere ulteriori reati, sia in realtà controproducente. Le stesse terribili condizioni di detenzione che dovrebbero correggerli in realtà peggiorano la situazione, rendendoli spesso al rilascio individui più pericolosi di quanto fossero prima.

Sistemi come quello sperimentato dal giornalista suggeriscono possibilità rivoluzionarie per monitorare i movimenti dei detenuti, abbattendo le spese e creando un sistema intelligente, convertendo la tradizionale carcerazione in una forma tecnologicamente avanzata di libertà vigilata. Composto da una scatoletta nera attaccata a una cavigliera e da un secondo dispositivo leggermente più grande appeso alla cintura, il sistema è progettato in modo da rendere impossibile la manomissione. Solitamente l’apparecchio viene imposto ai colpevoli di molestie: grazie al sistema GPS le autorità possono monitorare i loro movimenti e rilevare se si avvicinano a zone “sensibili”, come le scuole nel caso dei pedofili o le zone dello spaccio per i tossicodipendenti, e in ogni caso se apportano variazioni al percorso stabilito per loro dalla direzione del carcere.

Un vero criminale – di qualsiasi tipo: assassini, truffatori, ladri, molestatori, drogati – potrebbe indossare questo apparecchio per anni, o addirittura decenni. Notte e giorno, sotto la doccia e mentre dorme […], l’apparecchio permetterà a una società appositamente incaricata di monitorare ogni movimento del detenuto, dalla casa al lavoro al supermercato, e, grazie a una mappa tracciata con la collaborazione della polizia carceraria responsabile, di tenerlo lontano da asili, parchi giochi, concerti dei Jonas Brothers o altri posti dove i ragazzini (nel caso di un pedofilo, ndr) passano abitualmente del tempo. Se il detenuto dovesse decidere di liberarsi della cavigliera (è fatta di gomma, cederebbe facilmente a un paio di cesoie), un segnale avvertirebbe la polizia che, a meno di un’ottima scusa, lo rimetterebbe dietro le sbarre.

Se si decidesse di adottare metodicamente il sistema, il cambiamento sarebbe meno rivoluzionario di quanto possa sembrare: da sempre, infatti, i condannati che non scontano la propria pena in prigione sono più numerosi dei detenuti, tra sconti sulla pena, permessi e libertà vigilata. I dispositivi GPS renderebbero semplicemente più gestibile una situazione che esiste già, permettendo di puntare più sulla reintegrazione nella società piuttosto che su una punitiva alienazione dalla stessa. La tecnologia permette un tale dettaglio nel determinare la posizione di chi indossa il dispositivo da rendere impossibile il minimo sgarro: è possibile, ad esempio, verificare che la persona che lo indossa stia rispettando la routine impostagli, monitorando quante ore passa al lavoro e quante a casa e che percorsi segue quando è in giro. Associando questo metodo a controlli periodici a sorpresa, come analisi del sangue o delle urine per i tossicodipendenti, è possibile tenere perfettamente sotto controllo il detenuto senza doverlo mettere dietro le sbarre. E abbattendo drasticamente i costi: bastano pochi dollari al giorno per finanziare la sorveglianza GPS, contro i quasi 150 dollari al giorno di una detenzione in carcere.

A ogni detenuto in libertà vigilata corrispondono, a seconda del crimine commesso, zone di esclusione (come le scuole per i pedofili o i bar per gli alcolisti), zone di inclusione (la casa, il posto di lavoro, il supermercato…) e un rigido programma quotidiano che determina in che luogo deve essere in ogni momento della giornata. E, sempre più nel dettaglio: è possibile determinare il percorso che il detenuto può fare ogni mattina per una mezz’ora di jogging, o verificare che prenda sempre lo stesso mezzo nello stesso luogo e alla stessa ora per spostarsi da un punto a un altro. Alla prima violazione di questa routine si torna in carcere, e rintracciare una persona che indossa un dispositivo GPS non è affatto difficile.

Ma i sistemi di sorveglianza tecnologica non sono l’unica alternativa al carcere che ha dimostrato di funzionare: Steven Alm, un giudice delle Hawaii, sostiene che il maggiore deterrente non è l’asprezza della pena ma la sua certezza e immediatezza, ed è riuscito a redimere parecchi spacciatori recidivi con una sorveglianza costante, test delle urine quotidiani e una breve detenzione dopo ogni violazione delle regole.

Alm era decisamente scettico sulla prigione come rimedio appropriato per molti reati: «Non ha senso mandare in prigione un ventenne che sta guidando una macchina rubata e ha con sé della droga, quando viene preso. Non ne uscirà una persona migliore. Appartengo alla scuola di pensiero che dice che dovremmo mettere in prigione solo le persone che ci spaventano, o che comunque non smetterebbero di rubare»

Ovviamente il futuro prospetta l’integrazione di sistemi tecnologici sempre più avanzati per monitorare un detenuto in libertà vigilata. Esistono già cavigliere che monitorano il livello di alcol nel sangue, e possono essere integrate con i dispositivi GPS che tracciano gli spostamenti, rendendo meno gravoso l’obbligo di effettuare costantemente analisi delle urine.