Il fallimento dell’università

Il '68 non c'entra, scrive lo storico Guido Crainz su Repubblica: e il 2010 non migliorerà le cose

Nei giorni scorsi ha conosciuto una ripresa la discussione sul presente e il futuro dell’università italiana, e quella sulla proposta del Partito Democratico di anticipare l’età della pensione per i professori a 65 anni. Ci è tornato con un articolo il Corriere della Sera, e l’economista Francesco Giavazzi si diceva d’accordo, mentre oggi sul Foglio Francesco Forte la contesta e propone un piano alternativo.

Invece è possibile mantenere la attuale normativa sul pensionamento a 70 anni, stabilendo che i concorsi si facciano tre anni prima delle vacanze. Se si stabilisce che chi ha avuto l’idoneità in un concorso può essere chiamato per cinque anni dopo che l’ha avuta, e che l’università che lo richiede lo può “prenotare” con un anno di anticipo, si risolvono i quattro quinti del problema giavazziano, senza sconvolgere l’attuale ordinamento sulle età pensionabili. E si attua una soluzione più efficiente.

Intanto, però, visto che il parlamento sta discutendo una riforma universitaria, oggi in prima pagina su Repubblica lo storico Guido Crainz fa una riflessione di più ampio respiro su quelli che con indolenza vengono ormai chiamati “i mali dell’università” e sulla loro storia, smontando un po’ di altri pigri cliché.

Una storia in cui, come in Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie, non vi è un unico colpevole: alla fine tutti i possibili imputati appaiono in varie forme responsabili.
Viene talora evocato il fantasma del ’68, ma la Francia gollista, ad esempio, rispose subito al “maggio” con la legge Faure, che avviò una modernizzazione reale degli atenei. Nulla di tutto ciò avvenne da noi, e la riforma in discussione alla vigilia del ’68 – la inadeguata legge Gui – era stata affossata non tanto dalla protesta studentesca quanto dall´ostruzionismo conservatore dei “deputati-baroni”, fieri oppositori della incompatibilità fra docenza e mandato parlamentare, e dell’introduzione del tempo pieno. Ancora al ’68 viene talora attribuita la liberalizzazione dell’accesso a tutte le Facoltà, sin lì condizionato – in modo talora anacronistico – dalla scuola frequentata in precedenza. Anche questo non è proprio esatto: nel progetto governativo originario la liberalizzazione era prevista come conseguenza della riforma delle scuole superiori. Nella difficoltà di realizzarla la maggioranza introdusse poi senza alcun “filtro” e premessa una liberalizzazione che – così praticata – avrebbe introdotto più di un guasto.

Secondo Crainz, inizia da lì “uno dei dati più negativi del nostro ordinamento”, l’accesso all’università di un numero abnorme di studenti senza alcun filtro che non si laureeranno o lo faranno in tempi molto lunghi.

In tutto questo il ’68 non pare il principale responsabile, e proprio nel periodo immediatamente successivo ad esso il timore di nuove fiammate favorì un progetto governativo realmente innovativo, presentato con competenza e intelligenza dal socialista – di derivazione “azionista”- Tristano Codignola. (…)
In quel progetto, frutto anche di un ampio confronto pedagogico e politico, diventavano centrali i Dipartimenti e i corsi di laurea, scomparivano le Facoltà tradizionali, si delineava la figura del “docente unico”, gli studenti avevano consistenti rappresentanze e spazi di autonomia, e così via. Approvata al Senato ma insabbiata nel 1971-72 alla Camera dalla resistenza di ampi settori della Dc (e naturalmente dei potentati accademici) quella legge venne poi definitivamente affossata, e iniziò allora un lungo sonno.

In quel sonno proliferarono le vaghe “figure intermedie” di docenti, borsisti e assegnisti, racconta Crainz. La legge 382 del 1980 che prometteva di porvi rimedio sostenendo una “unitarietà della figura docente”, si contraddiceva istituendo la distinzione tra ordinari e associati: “e per chi aveva già qualche forma di docenza era previsto un giudizio di idoneità ad associato che rigonfiò immediatamente gli organici”.

Gli aspetti più innovativi avrebbero dovuto riguardare il reclutamento dei giovani ed avere come cardini i dottorati di ricerca e l’istituzione del ruolo di ricercatore, destinato a sostituire la precedente pletora di figure sottoposte all’arbitrio del “barone”. Figure che entrarono però tutte o quasi nel nuovo ruolo – anche qui con un giudizio di idoneità molto simile ad un’ope legis -, e anche questo frenò per molti anni il ricambio.

Crainz passa quindi ad analizzare la riforma in discussione oggi, sottolineando come essa attacchi proprio uno dei risultati soddisfacenti dei cambiamenti di trent’anni fa: l’autonomia del ricercatore

I nuovi ricercatori saranno assunti a tempo determinato e potranno rimanere nell’Università solo vincendo un concorso da associato entro 6 anni (termine poco credibile, nel panorama attuale: è il preannuncio di future ope legis?).
L'”innovazione” rischia così di reintrodurre o favorire nuove forme di subalternità e vecchi difetti senza alcuna motivazione reale. Oggi si diventa ricercatori dopo un percorso difficile e segnato da una dura concorrenza, anche se condizionato sin qui dalle dinamiche dei concorsi locali: non vi è comunque un grandissimo rischio che un giovane giunto in questo modo all’Università si trasformi nel “fannullone” paventato da Brunetta o dal rettore Frati. Permangono semmai gli ultimi residui di una situazione precedente, ed anche per scongiurare il suo ripresentarsi è necessaria invece una idoneità nazionale, così come lo è per le altre fasce (con modalità volte a ridurre, perlomeno, l’influenza delle “cordate” o lobby). Ed è necessario favorire la progressione dei ricercatori – su cui grava oggi molta parte della didattica – con la via maestra di concorsi nazionali regolari e seri.

La riflessione di Crainz tocca poi la tanto discussa questione del prepensionamento dei baroni, appoggiando la proposta del PD: “nella situazione concreta il pensionamento dei docenti a 65 anni è la premessa quasi obbligatoria – anche se certo discutibile e non sufficiente – di un ricambio reale”. Ma il problema è un altro, posto che c’è anche una priorità di “investimenti significativi”. Il problema è la totale mancanza di visione che si registra in ogni aspetto del progetto pubblico italiano, e anche in quello che riguarda l’università. E hai voglia a fare riforme.

Vi è però qualcosa che manca, nella discussione di oggi: manca una idea, una prospettiva di fondo che riguardi, insieme, l’Università e la società. Eppure un’idea generale era riconoscibile anche nel “progetto Berlinguer” che portò all’ordinamento attuale, il “3+2”. Vi era l’esigenza di una formazione che ponesse attenzione ai livelli conoscitivi di partenza e al tempo stesso prevedesse incentivi alla specializzazione e all’approfondimento. E vi era il bisogno di superare un’organizzazione didattica ormai sclerotizzata. I guasti principali indotti da quella legge non erano in realtà inscritti in essa ma sono stati il frutto del malgoverno, dell’inadeguatezza e dell’insensibilità ai nodi della didattica di larga parte del corpo docente: di qui la frantumazione e la moltiplicazione delle materie e dei corsi, lo svuotamento della tesi di laurea, l’assenza di una riflessione su nuove modalità di insegnamento e sul profilo del nuovo biennio specialistico, e così via. Per questo, anche, sono mancati quei sostegni e quegli orientamenti didattici – all’ingresso sia della laurea triennale che di quella specialistica – che pure erano considerati essenziali nell’ispirazione della legge. Ancora alla concreta realtà accademica rimandano infine i fallimenti dei tentativi sin qui fatti di riformare i concorsi (i concorsi locali erano nati come rimedio, che si è rivelato pessimo, ai riconosciuti difetti dei concorsi nazionali). E ad essa rimanda, anche, la sostanziale indifferenza con cui vengono normalmente accolte denunce pur documentatissime e pesanti. In altri termini, l’urgenza di un ricambio radicale nasce in primo luogo dal fatto che una parte consistente dell’attuale corpo accademico ha dimostrato di non essere facilmente “riformabile”.

È l’Italia, baby.