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  • Martedì 27 luglio 2010

Raccontare la Love Parade

Meglio dei giorni scorsi, meglio degli altri giornali, oggi ci prova Repubblica

Teilnehmer feiern am Samstag, 24. Juli 2010, in Duisburg, Nordrhein-Westfalen, das Techno-Musikfestival Loveparade 2010. Unter dem Motto "The Art of Love" fahren sechzehn Musikwagen, sogenannte Floats, auf einem ehemaligen Bahngelaende durch die Menschenmenge. (apn Photo/Hermann J. Knippertz) --- People celebrate this year's techno-music festival "Loveparade 2010" in Duisburg, Germany, on Saturday, July 24, 2010. (apn Photo/Hermann J. Knippertz)
Teilnehmer feiern am Samstag, 24. Juli 2010, in Duisburg, Nordrhein-Westfalen, das Techno-Musikfestival Loveparade 2010. Unter dem Motto "The Art of Love" fahren sechzehn Musikwagen, sogenannte Floats, auf einem ehemaligen Bahngelaende durch die Menschenmenge. (apn Photo/Hermann J. Knippertz) --- People celebrate this year's techno-music festival "Loveparade 2010" in Duisburg, Germany, on Saturday, July 24, 2010. (apn Photo/Hermann J. Knippertz)

Gli improvvisati e precipitosi tentativi di spiegare ai propri lettori cosa sia la Love Parade e perché tanta gente ci vada da parte dei quotidiani italiani, nei giorni scorsi, rivelavano più dell’estraneità dei suddetti quotidiani alla conoscenza del fenomeno che del fenomeno stesso. Palesi – e in parte giustificati – fastidi e incredulità per una manifestazione così evidentemente spaventosa per numeri e sovreccitazione limitavano la capacità di cronisti e commentatori di offrire un racconto esauriente ai lettori, che finivano per riceverne più una condivisa impressione di follia che informazioni maggiori delle poche di cui disponevano. C’erano sporadiche belle riflessioni, come quella di Mauro Covacich, ma poca analisi e racconto della famigeratas Love Parade.

Oggi, se il Corriere si limita ad affidare a Isabella Bossi Fedrigotti un distante ed estraneo commento sui volti dei ragazzi morti nel tunnel, Repubblica fa uno sforzo più esteso affidando tre pagine di racconto a Gabriele Romagnoli e Paolo Berizzi. E sono tre pagine che non citano mai la strage nel tunnel, implicitamente affermando che quella è un’altra storia: che ha a che fare con la follia delle folle e l’imperizia delle organizzazioni, come alla Mecca, come a Roskilde, come all’Heysel.
Berizzi ha provato a capire una parte della Love Parade (tutti tentativi di comprensione di una cosa da un milione di persone sono solo una parte di comprensione), quella dei “raver” più assidui, incontrandone uno e cercando di allontanarsi dai cliché.

«Mi dispiace per i morti, però è stato tutto stupendo». Il patto con Davide è questo: «Parliamo ma solo se non viene fuori la solita cosa raver uguale drogato uguale troglodita. Perché poi adesso è facile… diciannove morti, no, quanti sono?». Diciannove. «… ecco, e la ragazza italiana, e tutto il casino, e la Love Parade. Meno male che non sono morti per una cala o per un kate, altrimenti ciao». Alt, un attimo. «La cala è la pasticca, l’ecstasy. Il kate è la ketamina (anestetico utilizzato soprattutto per scopi veterinari, agisce deprimendo il sistema nervoso centrale). Così facciamo fuori subito l’argomento droga. Inutile girarci intorno: ai rave, alle street, alla Love, sta roba te la tirano praticamente addosso. Non devi nemmeno chiedere. Una cala 10 euro, una busta di kate 20. Poi ci sono i cartoni (Lsd). Agli after, che sarebbero i proseguimenti dei rave e di tutte le feste, legali e non, li trovi a due lire».

«La prima volta tre anni fa a Bologna: alla street parade. Mi porta un amico che girava per i vari teknival europei. La street è una cosa tranquilla. Arrivo e rimango a bocca aperta: i carri, tanti, bellissimi, pieni di gente e colorati, come un carnevale, le casse enormi che sparano la musica. Dopo un’ora ero già sotto con il primo giro di cassone. Il cassone è l’esperienza più forte che puoi fare a un rave: stai più vicino possibile alle casse, una mitragliata per le orecchie. Un gran godimento. Balli, ti lasci trasportare dall´energia, non pensi più a niente, ti svuoti, senti addosso tutta l’adrenalina del mondo. Però sei leggero. C’è un mio amico che fa paracadutismo. Siamo andati insieme al Traffic di Torino, (festival techno). Ha provato il cassone e m’ha detto “oh, è meglio che lanciarsi col paracadute”. Hai capito? Per fare il cassone la gente sta in fila a aspettare. Perché ce ne sono pochi. Sono delle torrette, degli altari. Per un raver fare il cassone è come fare la comunione in chiesa durante la messa. Però questo è proprio un piacere fisico».

E quanto a Duisburg, sempre tenendo a mente che il racconto di Davide è uno dei molti diversi racconti di un frequentatore della Love Parade, la sua giornata è andata così.

«Ogni mese ne faccio uno. Per Duisburg siamo partiti da Parma alle 4 di sabato. Albergo, panino. Alle quattro del pomeriggio eravamo là in mezzo. La chiamano la fabbrica dello sballo, invece è un gran bel ballo. E becchi anche le tipe. Di solito – sorride, si alza in piedi – le ragazze che incontri ai rave e ai festival sono molto euforiche. Quando sei lì vai subito al sodo: non si parla, sei uno addosso all’altro e la musica ti travolge, è un linguaggio dei corpi. Si combina subito, credimi».


Alla pagina successiva di Repubblica c’è il racconto di Gabriele Romagnoli – scrittore, narratore di posti e di viaggi – che a una Love Parade è stato, già piuttosto adulto.

Molti anni fa quando già non ero più giovane e la manifestazione invece era agli esordi, ancora in cerca di identità, ancora nella grande Berlino. Non ci andai seguendo il percorso di figli che non ho, né per fare della sociologia spicciola, capire i “gggiovani”. Lo feci per me stesso, perché le estati tornano sempre e a un certo punto non si sa più con chi giocare e neppure con che cosa, allora si prova quel che si vede intorno. Mai stato a un rave party in precedenza, mai apprezzato la musica techno che usciva da un qualsiasi diffusore e neppure mai condivisa la pulsione di massa: un milione di persone che accorrono nello stesso posto di solito mi danno una ragione per andare altrove. Per una volta, invece: un milione e uno in un afoso pomeriggio tedesco.
L’impatto era impressionante, perfino difficile da cogliere. Se guardate le foto del corteo e della folla che lo segue non trovate un fuoco dell´obbiettivo, tutto sfuma, si frantuma e moltiplica. Non si proclama un’identità come al Gay Pride, non la si occulta come a un carnevale, si viene come si è e quel che si è non ha nessuna importanza. Non singolarmente, il singolo è lì per essere annullato, per diventare una delle ultime forme possibili di collettivo, la grande massa in marcia non verso la rivoluzione, ma verso un punto lontano da cui giunge, sempre più forte, un messaggio indecifrabile.

La parte migliore e benvenuta del racconto di Romagnoli è però quella utile ai lettori per capire cosa succede a una cosa come la Love Parade, come funziona, com’è vista da dentro. Capire il senso è difficile, capire i fatti aiuta.

L’inizio della manifestazione era la parte senza fascino: i carri, la folla assiepata e plaudente come a una qualsiasi parata, gli sponsor, il sovrapporsi dei ritmi, i prati invasi, le toilette a cielo aperto, le t-shirt che cominciavano a sparire, i loro messaggi rinnegati in favore della netta dichiarazione della pelle. Il senso di tutto questo, ancora un enigma. Bisogna dare tempo alle situazioni, come alle persone, per esprimersi. Alle persone in una situazione particolare come questa, occorre concederne il doppio. Tutta quella strada, tutto quell’agitarsi, per una processione profana e l’occupazione del verde pubblico di una capitale che, viva lei, ne ha tanto?
La chiarezza è spesso nell’oscurità: ho aspettato il calar della sera. La massa si è dispersa, particelle atomiche scagliate negli angoli dalla stessa energia continuavano a pulsare. Tutte le musiche si riducevano a una stessa breve sequenza di note, tutte le possibili danze a un limitato insieme di gesti, da un milione in marcia verso l’uno. Che cosa significava? Era contagioso, era ineluttabile, ma era anche incomprensibile.

Romagnoli dice di aver trovato una traccia di spiegazione nel libro che stava leggendo quando ha saputo di Duisburg, “Homer & Langley“, dove un personaggio spiega come molta storia dell’umanità sia attraversata dalla necessità di dire “Sono qui, sono qui!”.

Ecco. Persino la miriade di dj dispersi nelle consolle planetarie, persino Tiesto superstar, e tutti quei ragazzi venuti sui treni argentei dell’Europa, i tagger usciti imbrattati dal Tacheles, le natalizie prostitute della Oranienburger, i batteristi senza variazione sul tema, i rinnegati del rock, del jazz, del blues e di tutta quel che era sembrato semplice fino alla notte prima, le studentesse timide tuttavia sciolte dal gruppo, quelli troppo piccoli per essere lì e quei pochi troppo grandi per poterci tornare, i figli legittimamente impossibili di Freddie Mercury, Frank Zappa e tutti gli altri che ci hanno provato e poi hanno detto basta, addio. Tutta la musica del mondo ridotta a un comune denominatore, un battito in due fasi: sono-qui, sono-qui. Nient’altro. Un milione e uno che trasformano la solitudine in comunicazione.

Ricordo ancora la spianata davanti alla porta di Brandeburgo all’alba, l’oceano di cartacce e rifiuti e i panzer della teutonica nettezza urbana che avanzavano per ripulire la superficie da ogni ricordo. Nella musica tutto e tutti restano vivi per sempre: anche quelli travolti nella calca. Sono qui, sono qui.