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Raccontare la Love Parade

Meglio dei giorni scorsi, meglio degli altri giornali, oggi ci prova Repubblica

"Tutta la musica del mondo ridotta a un comune denominatore, un battito in due fasi: sono-qui, sono-qui. Nient'altro. Un milione e uno che trasformano la solitudine in comunicazione"

Gli improvvisati e precipitosi tentativi di spiegare ai propri lettori cosa sia la Love Parade e perché tanta gente ci vada da parte dei quotidiani italiani, nei giorni scorsi, rivelavano più dell’estraneità dei suddetti quotidiani alla conoscenza del fenomeno che del fenomeno stesso. Palesi – e in parte giustificati – fastidi e incredulità per una manifestazione così evidentemente spaventosa per numeri e sovreccitazione limitavano la capacità di cronisti e commentatori di offrire un racconto esauriente ai lettori, che finivano per riceverne più una condivisa impressione di follia che informazioni maggiori delle poche di cui disponevano. C’erano sporadiche belle riflessioni, come quella di Mauro Covacich, ma poca analisi e racconto della famigeratas Love Parade.

Oggi, se il Corriere si limita ad affidare a Isabella Bossi Fedrigotti un distante ed estraneo commento sui volti dei ragazzi morti nel tunnel, Repubblica fa uno sforzo più esteso affidando tre pagine di racconto a Gabriele Romagnoli e Paolo Berizzi. E sono tre pagine che non citano mai la strage nel tunnel, implicitamente affermando che quella è un’altra storia: che ha a che fare con la follia delle folle e l’imperizia delle organizzazioni, come alla Mecca, come a Roskilde, come all’Heysel.
Berizzi ha provato a capire una parte della Love Parade (tutti tentativi di comprensione di una cosa da un milione di persone sono solo una parte di comprensione), quella dei “raver” più assidui, incontrandone uno e cercando di allontanarsi dai cliché.

«Mi dispiace per i morti, però è stato tutto stupendo». Il patto con Davide è questo: «Parliamo ma solo se non viene fuori la solita cosa raver uguale drogato uguale troglodita. Perché poi adesso è facile… diciannove morti, no, quanti sono?». Diciannove. «… ecco, e la ragazza italiana, e tutto il casino, e la Love Parade. Meno male che non sono morti per una cala o per un kate, altrimenti ciao». Alt, un attimo. «La cala è la pasticca, l’ecstasy. Il kate è la ketamina (anestetico utilizzato soprattutto per scopi veterinari, agisce deprimendo il sistema nervoso centrale). Così facciamo fuori subito l’argomento droga. Inutile girarci intorno: ai rave, alle street, alla Love, sta roba te la tirano praticamente addosso. Non devi nemmeno chiedere. Una cala 10 euro, una busta di kate 20. Poi ci sono i cartoni (Lsd). Agli after, che sarebbero i proseguimenti dei rave e di tutte le feste, legali e non, li trovi a due lire».

«La prima volta tre anni fa a Bologna: alla street parade. Mi porta un amico che girava per i vari teknival europei. La street è una cosa tranquilla. Arrivo e rimango a bocca aperta: i carri, tanti, bellissimi, pieni di gente e colorati, come un carnevale, le casse enormi che sparano la musica. Dopo un’ora ero già sotto con il primo giro di cassone. Il cassone è l’esperienza più forte che puoi fare a un rave: stai più vicino possibile alle casse, una mitragliata per le orecchie. Un gran godimento. Balli, ti lasci trasportare dall´energia, non pensi più a niente, ti svuoti, senti addosso tutta l’adrenalina del mondo. Però sei leggero. C’è un mio amico che fa paracadutismo. Siamo andati insieme al Traffic di Torino, (festival techno). Ha provato il cassone e m’ha detto “oh, è meglio che lanciarsi col paracadute”. Hai capito? Per fare il cassone la gente sta in fila a aspettare. Perché ce ne sono pochi. Sono delle torrette, degli altari. Per un raver fare il cassone è come fare la comunione in chiesa durante la messa. Però questo è proprio un piacere fisico».

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E quanto a Duisburg, sempre tenendo a mente che il racconto di Davide è uno dei molti diversi racconti di un frequentatore della Love Parade, la sua giornata è andata così.

«Ogni mese ne faccio uno. Per Duisburg siamo partiti da Parma alle 4 di sabato. Albergo, panino. Alle quattro del pomeriggio eravamo là in mezzo. La chiamano la fabbrica dello sballo, invece è un gran bel ballo. E becchi anche le tipe. Di solito – sorride, si alza in piedi – le ragazze che incontri ai rave e ai festival sono molto euforiche. Quando sei lì vai subito al sodo: non si parla, sei uno addosso all’altro e la musica ti travolge, è un linguaggio dei corpi. Si combina subito, credimi».

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