È nell’olimpo della hit-parade

Per una generazione o due Lelio Luttazzi fu il primo deejay radiofonico

È morto stanotte a Trieste a 87 anni Lelio Luttazzi, musicista e compositore.

Lelio Luttazzi era nato a Trieste (la “sua” Trieste) il 27 aprile del 1923. E’ stato uno dei personaggi di maggior successo della canzone italiana degli anni ’50 e ’60 ma soprattutto un protagonista della televisione, dell’epoca d’oro di Studio Uno, della radio e del cinema.
Tra i primi ad inserire nella canzone italiana le strutture del jazz, un modo di comporre ‘swingato’ che ha il suo primo esempio in “Muleta mia”, una canzone scritta per Teddy Reno. Ma, rimanendo nell’ambito musicale, i titoli delle composizioni di Luttazzi comprendono “Una zebra a pois”, cantata da Mina, “Il giovanotto matto”, il classico di Ernesto Bonino, “Il favoloso Gershwin”, “Promesse di marinaio” fino a quella che rimane la sua interpretazione più famosa e nostalgica, “El can de Trieste”.

Pubblichiamo, per ricordare invece il ruolo di maggior fama di Lelio Luttazzi – quello che ha consegnato a un paio di generazioni di italiani centinaia di canzonette e colonne sonore della vita – una parte dell’introduzione di Playlist, il libro di Luca Sofri.

L’avevamo voluto moltissimo. Io e mio fratello ricevemmo in regalo il magnetofono Castelli per un natale, o un compleanno: questo non me lo ricordo esattamente. Ma lui, il magnetofono, me lo ricordo benissimo. Per la lingua di allora – la parola è in effetti desueta – un magnetofono era semplicemente un registratore a cassette, che aveva ereditato il suo nome dai precedenti registratori a bobine (mia zia ne aveva uno, a bobine: ma era rotto, e noi bambini l’avevamo sempre guardato desolati, schiacciando i tasti invano ogni volta che gli passavamo vicino, hai visto mai). Cosa fosse un registratore dovreste invece saperlo tutti, almeno ancora per qualche anno. E insomma, l’avevamo voluto moltissimo. L’idea di poter “possedere” la musica che sentivamo alla radio, di poterla ascoltare a nostro piacimento, e gratis, ci sembrava una cosa quasi troppo bella per essere possibile. Un registratore. E invece arrivò. Era nero, grande come una scatola da scarpe – una scatola da mocassini, direi – e aveva i tasti di colori diversi: rosso quello della registrazione, che andava premuto assieme a quello della riproduzione, e grigi gli altri. Naturalmente si chiamavano REC, PLAY, PAUSE, FFWD, REV e STOP. Noi li pronunciavamo esattamente così: “premi rec!”, oppure “premi ffwd!”, che suonava una specie di sputacchio ma dava anche un’idea immediata e onomatopeica dell’avanzamento veloce del nastro.
Eravamo piccoli. Io avevo nove anni e mio fratello otto. Non so come diventammo appassionati di “musica leggera” (allora si chiamava così) così presto. In casa c’erano in effetti alcuni dischi e alcune passioni: ma erano cantanti francesi, vecchi Battisti, Mozart, Donovan. Non le cose che passavano in radio nel 1974.
Invece noi ascoltavamo quelle: e in particolare Alto Gradimento e la hit-parade di Lelio Luttazzi. Andava in onda tutti i venerdì intorno all’una: forse 13 e 20, se la memoria non m’inganna (ma forse mi confondo con Happy Days, che andava alle 19 e 20, qualche anno più tardi). Erano le nostre scadenze fisse della settimana. La Hit-parade, i primi otto in classifica, il venerdì e in replica il lunedì. E i Dischi caldi – la serie B, i secondi otto – la domenica e il giovedì. Presentati da Giancarlo Guardabassi.
Il magnetofono Castelli ci cambiò la vita. Usavamo delle cassette BASF o “Compact Cassette”, vendute senza scatola all’Upim: TDK e Sony sarebbero venute poi. Chiudevamo la porta del soggiorno e ci sdraiavamo sul tappeto con la radiolina portatile e il registratore. Predisponevamo tutto schiacciando il tasto PAUSE, poi REC e PLAY assieme, e dopo il rituale urlo “hiiiit-parèeeeiiiii!”, ci concentravamo sull’operazione: indice pronto sul tasto PAUSE e attesa dell’annuncio del titolo successivo per decidere se ci interessava o no. La cosa era resa più complicata dagli applausi che aprivano e chiudevano la trasmissione della canzone, e che vi si sovrapponevano a metà dell’esecuzione. Quelli a metà erano inestricabili, e ce li tenevamo. Gli altri cercavamo di tagliarli fuori. Il risultato non era sempre soddisfacente: a volte sbagliavamo il tempo, o sbagliavamo il tasto. In altri casi la canzone era trasmessa già molto iniziata. Nel primo caso ci avremmo riprovato qualche giorno dopo, con la replica, stavolta allertati. Nel secondo ci saremmo tenuti quell’esecuzione, salvo sostituirla la settimana successiva, sperando fosse ancora in classifica. Altre volte era reso necessario dai maldestri suoni di risate (nostre), starnuti o inciampi negli oggetti del soggiorno, che finivano sul nastro.
Naturalmente dopo un po’ di tempo possedemmo un discreto repertorio (una compilation, si sarebbe detto, se i tempi fossero stati già così degenerati), e le nostre attese si concentrarono sulla prima parte del programma, dove era più facile apparissero “nuove entrate”. Luttazzi aveva tutto un suo gergo: c’era “l’olimpo della hit-parade”, la “canzone regina”, la “canzone veterana”, la “damigella d’onore”.
Collego a quel tappeto del soggiorno nomi immortali nella mia memoria bambina e giustamente stradefunti in quella della musica mondiale: i Santo California, gli Albatross, Paolo Frescura, Leano Morelli. Malgrado le debolezze del gusto infantile, con mio fratello avevamo già maturato una certa capacità critica, per cui le nostre cassette privilegiavano i titoli internazionali che – era invece ancora scarsa la dimestichezza con l’inglese – scrivevamo sulla custodia così come li sentivamo declamati da Luttazzi: “RICIAU ALBIDÈ”, “DE ASSOL”, “A BLU SCIADO”, “ARRI CHEN”, “DETSUEI”, “NEVER CHEN SEI GUBBAI”.
Mi ricordo di quando il primato di “Pensieri e parole” – canzone avvolta da un alone di grandezza e mistero: non l’avevamo mai sentita, ma Luttazzi la citava sempre – fu infranto da “Ancora tu”, che rimase prima in classifica per dodici settimane (fu rimpiazzata da “Ramaya”, col nostro concorso: sospetto con vergogna possa essere il primo 45 giri che ho comprato in vita mia, in competizione con “All by myself” di Eric Carmen). Mi ricordo che saltavano sempre la trasmissione di “Je t’aime moi non plus”, e si parlava di una a noi misteriosa vicenda di “censura”. E mi ricordo di quando cominciammo – più tardi – ad applicare il procedimento miracoloso della registrazione alle canzoni contenute in alcuni dischi che passavano per casa. In assenza di cavi opportuni per il collegamento diretto, bisognava avvicinare molto il magnetofono Castelli agli altoparlanti di un giradischi Lesa a valigetta, appoggiare la puntina, schiacciare il tasto PAUSE e allontanarsi furtivamente e zittissimi dal soggiorno per i minuti necessari a che niente guastasse la registrazione.