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  • Mercoledì 23 giugno 2010

L’affare McChrystal

Cosa è successo tra il presidente Obama e il capo dell'esercito americano in Afghanistan

di Francesco Costa

This photo provided by the White House shows President Barack Obama meeting with Gen. Stanley McChrystal, the top commander in Afghanistan, Friday, Oct. 2, 2009, aboard Air Force One in Copenhagen, Denmark. (AP Photo/White House, Pete Souza)
This photo provided by the White House shows President Barack Obama meeting with Gen. Stanley McChrystal, the top commander in Afghanistan, Friday, Oct. 2, 2009, aboard Air Force One in Copenhagen, Denmark. (AP Photo/White House, Pete Souza)

Aggiornamento: all’arrivo al Pentagono, il generale McChrystal in una dichiarazione a NBC News ha negato di aver offerto le proprie dimissioni. Il New York Times invece riferisce che McChrystal ha consegnato alla Casa Bianca le proprie dimissioni, ma non si sa se queste sono state accettate o no. L’incontro tra Obama e il generale si è concluso intorno alle 16,30.

Il generale Stanley McChrystal sta volando da Kabul a Washington, probabilmente portando con sé la lettera con cui annuncia le sue dimissioni dall’incarico di capo delle forze armate statunitensi in Afghanistan. A Washington incontrerà Barack Obama, che soltanto un anno fa, nel giugno del 2009, gli affidò l’incarico militare operativo più importante e delicato che avesse da affidare. Non è ancora chiaro se Obama deciderà o no di accettare le dimissioni di McChrystal: e nonostante il generale sia stato convocato d’urgenza a causa di quanto pubblicato dalla rivista Rolling Stone – ci arriviamo – la decisione di Obama potrebbe dipendere poco sia dal contenuto dell’articolo in questione sia da quello che i due si diranno nello Studio ovale. Per capire perché, però, bisogna ricostruire questa storia dall’inizio.

Questo è quello che è successo negli ultimi due giorni. Un lungo articolo pubblicato sul numero di questo mese della rivista Rolling Stone racconta della vita del generale McChrystal in Afghanistan, degli uomini che compongono il suo staff e dei giudizi sferzanti riguardo altri membri dell’amministrazione ai quali il generale si sarebbe lasciato andare più volte. Il presidente Obama “intimidito e a disagio” nel corso della loro prima riunione; il vicepresidente Joe Biden liquidato con un “bite me” (“fottiti”, più o meno); Jim Jones, consigliere per la sicurezza nazionale, “fermo al 1985”. Sono seguiti grandi imbarazzi, condanne trasversali, una lunga lettera di scuse da parte di McChrystal, il licenziamento del suo addetto stampa e la richiesta di Obama di incontrarlo subito per discutere dell’accaduto. Per quanto sarcastici, irridenti e certamente impropri, però, i giudizi di McChrystal non sono che un pezzo delle ragioni che hanno fatto infuriare Obama e potrebbero costargli il posto.

Già durante la campagna elettorale per le presidenziali, Obama aveva ribadito più volte come l’Afghanistan fosse il teatro fondamentale per la stabilizzazione dell’area e la lotta al terrorismo: molto più dell’Iraq, che anzi aveva distratto forze e attenzioni. A giugno 2009, quindi, Obama solleva il generale McKiernan dal comando dell’esercito americano in Afghanistan e nomina al suo posto Stanley McChrystal. Poco dopo, il segretario della difesa Bob Gates chiede a McChrystal un rapporto sullo stato della missione e sulle sue prospettive, e quel rapporto finisce – secondo molti, grazie allo stesso McChrystal – nelle mani dei giornalisti. Che diffondono quindi, come fosse una sentenza, il giudizio sulla missione in Afghanistan dell’uomo a cui Obama ne ha affidato le sorti: senza l’invio di almeno altri quarantamila soldati, la missione è fallita. Per capire quanto fosse gigantesca la richiesta di McChrystal basta dire che inviare quarantamila soldati avrebbe voluto dire triplicare il contingente americano: e farlo per mano di un presidente che aveva promesso di riportare le truppe a casa in tempi brevi.

Il fatto che il rapporto di McChrystal sia ormai pubblico mette Obama all’angolo, perché finisce per fissare un’asticella e spostare il centro del dibattito. Il tema non è più cosa farà Obama con la guerra in Afghanistan, bensì: Obama darà retta alle richieste dell’esercito? Se Obama accetta, rischia di deludere le aspettative di tanti elettori che con il loro sostegno lo hanno portato alla Casa Bianca. Se Obama rifiuta, non solo rischia di dare di sé un’immagine di disimpegno e debolezza, ma anche di compromettere dopo pochi mesi il rapporto con la persona che ricopre l’incarico operativo più importante del suo esercito. Passa l’estate, e in autunno l’amministrazione inizia un processo di revisione globale della missione in Afghanistan, della durata tre mesi. Tre mesi di incontri e riunioni coi massimi esperti mondiali di geopolitica, con i vertici dell’esercito, con il governo afghano. Alla fine l’amministrazione si trova di fatto divisa in due.

Il nodo su cui ci si divide è quello probabilmente più importante: l’obiettivo finale della missione. Cosa si può considerare una vittoria? L’esercito americano deve sconfiggere soltanto Al Qaida o anche i talebani? Sintetizzando brutalmente, infatti, i talebani e Al Qaida sono due entità diverse: i loro confini sono fumosi, spesso finiscono per sovrapporsi, ma in definitiva sono due cose distinte. I talebani sono la comunità islamica estremista che vive tra Afghanistan e Pakistan e aveva il controllo del paese fino al 2001. Al Qaida è un’organizzazione terroristica che ha cellule in moltissimi paesi diversi, priva di un vero e proprio quartier generale e probabilmente priva anche di una scala gerarchica verticale e ortodossa. La distinzione è fondamentale. Sconfiggere Al Qaida è la cosa più importante ai fini della sicurezza degli Stati Uniti e del mondo, ma è una battaglia che non è confinata all’Afghanistan e riguarda tutto il Medioriente. E non è una guerra convenzionale: si combatte con l’intelligence più che con i grandi battaglioni. Dall’altra parte, sconfiggere i talebani è più importante ai fini della stabilità del governo afgano – e quindi, indirettamente, anche della penetrazione di Al Qaida nel paese – ma è un’impresa impegnativa e colossale, considerata la vastità della comunità talebana e della loro rete di sostegno, nonché la loro capacità di destabilizzare il paese e delegittimare il suo governo con pochi ma letali atti di guerriglia e terrorismo.

Inoltre, la scelta tra i due obiettivi comporta anche il ricorso a soluzioni diverse, ed è qui che l’amministrazione si spacca. Da una parte ci sono il vice presidente Joe Biden, il consigliere per la sicurezza nazionale Jim Jones, l’inviato dell’amministrazione Richard Holbrooke e l’ambasciatore americano in Afghanistan Karl Eikenberry: propongono di lavorare sulla lotta ad Al Qaida, reputano inutile l’aumento delle truppe e chiedono di concentrarsi sulle azioni anti terrorismo. Dall’altra parte ci sono il ministro della difesa Bob Gates, il segretario di stato Hillary Clinton, il capo di stato maggiore ammiraglio Mike Mullen e il generale David Petraeus, capo delle forze armate statunitensi in Medioriente e autore della strategia di controinsurrezione che ha avuto successo in Iraq. E il generale McChrystal, ovviamente, che proprio durante il processo di revisione combina un altro guaio, anche questo tutt’altro che involontario. Durante un discorso pubblico a Londra, il generale afferma che il punto di vista del vice presidente Biden sulla guerra in Afghanistan è “miope” e finirebbe per trasformare l’Afghanistan nel “Caos-istan”. Scoppia un altro gran casino. In mezzo a questi episodi, i più noti e rumorosi, diverse altre volte McChrystal ha fattro trapelare critiche al comportamento dell’amministrazione e alla leadership del presidente.

Finisce però che la soluzione di McChrystal convince Obama, che a novembre all’accademia di West Point annuncia l’invio in Afghanistan di altri trenta mila soldati americani: non sono i quaranta mila che chiedeva il generale ma poco ci manca. McChrystal ha gli uomini di cui ha bisogno e inizia a mettere in campo il suo piano. Fino a questo momento non sono arrivati grandi risultati, ma non è questa la preoccupazione più grande di Obama in questo momento: la strategia della controinsurrezione prevede un iniziale periodo di fatica e assestamento e anche in Iraq la cosiddetta “dottrina Petraeus” ci mise un po’ a ingranare. La preoccupazione di Obama riguarda invece il ruolo e il potere che McChrystal è riuscito ad accentrare su di sé, in Afghanistan, ed è questa la parte più esplosiva dell’articolo pubblicato da Rolling Stone: molto più delle prese in giro a Joe Biden. L’articolo descrive McChrystal come l’uomo che non è soltanto al comando delle operazioni sul campo di battaglia ma anche dei rapporti diplomatici con il governo afgano, l’americano che vanta il rapporto più stretto e solido col presidente Karzai, sul cui governo esercita un’influenza paragonabile a quella di nessun altro esponente dell’amministrazione. E infatti Karzai ha già preso la parola su quanto sta accadendo in questi giorni, affermando che sostituire il generale McChrystal “non aiuta a raggiungere la via della pace”. Insomma, McChrystal sarebbe riuscito ad accentrare su di sé un potere e un influenza che vanno ben oltre quelli richiesti dal suo incarico, e non è chiaro se questo rappresenta un bene per gli Stati Uniti e l’Afghanistan.

Questa mattina, a rendere la vicenda ancora più delicata e complicata, è arrivato un articolo del New York Times che racconta di come le truppe dietro McChrystal siano meno compatte di quello che sembrano. “Vorrei che i nostri generali si ricordassero di come si sta sul campo di battaglia”, avrebbe detto un soldato dietro garanzia dell’anonimato. “Invece a volte non ci sono mai stati, oppure se lo sono dimenticato”. Anche per questa ragione il presidente Obama è chiamato a una decisione che va oltre la semplice reazione alle dichiarazioni improvvide di McChrystal, che comunque più volte hanno messo a rischio la sua credibilità: una decisione che può modificare gli equilibri all’interno della sua amministrazione e potrebbe apportare alcune correzioni – non più di questo, però – alla strategia statunitense in Afghanistan. Anche su questo tema, come fa notare il New Yorker, l’articolo di Rolling Stone contiene una frase di un soldato americano che a Obama avrà fatto più male di qualsiasi insulto. “Ho capito la nuova strategia, è buona, è convincente. Ma stiamo ancora fottutamente perdendo”.