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  • Giovedì 3 giugno 2010

La solitudine del raccattapalle

Dalla tribuna non ti accorgi di nulla, ti accorgi solo del raccattapalle che cade sulla fiorera, di quello che inciampa sulla rete, di quello che guarda le tette della Sharapova

di Claudio Cerasa

Ieri il New York Times ha pubblicato un bell’articolo sui raccattapalle del Roland Garros, che cantano “on est les ballos!”. Ma la stessa idea era venuta al Foglio due anni fa, di raccontare gli Internazionali d’Italia visti con gli occhi di un raccattapalle. Erano gli occhi di Claudio Cerasa, oggi giornalista del Foglio, che ha offerto al Post quel suo notevole ricordo.

Sul sei a sei del terzo set, dopo due ore e quindici minuti di gioco, dopo essere usciti e rientrati dal campo, dopo aver raccolto le palline, dopo aver chiesto al giudice di sedia mi scusi ma è proprio sicuro che oggi si rigioca non vede quanto ha piovuto, e dopo aver capito che anche quest’anno gli italiani non arriveranno oltre i quarti di finale, dopo tutto questo il raccattapalle solitamente entra nel panico. Perché dalla tribuna non ti accorgi di nulla, ti accorgi solo del raccattapalle che cade sulla fiorera, di quello che inciampa sulla rete, di quello che guarda le tette della Sharapova, di quello che chiede il polsino a Federer, di quello che ruba la racchetta a Philippouosis dicendo scusa pensavo fosse rotta, di quello che sbaglia il lancio della pallina, di quello che starnutisce, di quello che interrompe uno scambio, di quello che fa cadere sempre la palla accanto alla rete, di quello che si becca in mezzo alla testa l’ace di Ivanisevic e di quello che interrompe la partita per prendersi un Gatorade e che poi viene radiato dall’albo dei raccattapalle che non esiste ma è come se esistesse.

Ci si accorge quasi di tutto in campo ma non di quello che capita quando arriva il primo tie break del primo giorno di Internazionali d’Italia, che inizieranno a Roma la prossima settimana. Ed è lì che il raccattapalle si capisce di che stoffa è fatto. Perché c’è quello esperto che da dodici anni viene ogni anno da fine aprile a metà maggio e ha visto le interminabili qualificazioni maschili, le sconosciute wild card italiane, quello che a casa ha la pallina autografata da Muster, la racchetta di Moya, la canottiera di Sampras, la banana di Rafter, il cappellino di Gaudenzi e il numero di telefono di Nadal. Il raccattapalle super esperto conosce tutti i trucchi del mestiere, è quello che entra nel campo centrale e si mette sempre a sinistra perché sa che i giocatori lì a sinistra non prendono quasi mai le palline perché – per superstizione – alla parte sinistra preferiscono quella destra; è quello che sa che giù a fondocampo puoi fare amicizia con la hostess, puoi essere ripreso dalla telecamera, puoi prendere meglio il sole e puoi soprattutto nasconderti dietro l’orologio alto un metro e mezzo dietro al quale si possono facilmente nascondere anche le patatine di Spizzico.

Poi però ci sono anche i raccattapalle che non hanno mai raccattato una pallina, che sono venuti all’incontro con i raccattapalle grandi a metà aprile, dove hanno visto sulla lavagna una serie di schemi, un po’ di disegni, molte spiegazioni, con i superiori che ti dicono dobbiamo essere come quelli di Wimbledon, dobbiamo fare meglio del Roland Garros, qui ci giochiamo la credibilità, avrete tanti buoni pasto, non chiedete i Gatorade, non fatevi accompagnare dai vostri genitori, non venite in campo con i jeans e non rubate le palline; ci sono i super esperti e ci sono poi, i raccattapalle giovani, un po’ troppo giovani, che sono quelli che scendono in campo a sei anni e provano a ricordarsi di dare sempre la pallina rasoterra, di non lanciarla da una parte all’altra del campo come se fosse una palla da baseball, di non interrompere gli scambi, di avere sempre due palline in mano, di essere sempre seri, di dare la pallina lentamente solo se il giocatore ti fa su e giù con la testa e di ricordarsi soprattutto che quando c’è il tie break tutti devono avere una pallina in mano e che nel tie break è tutto più rapido perché la battuta cambia ogni due punti, le palline devono correre, non devono finire sulla rete, devono essere sempre a fondocampo e soprattutto non devono finire in tasca; e non importa se ti arrivano le battute prese con la stecca da Ivanisevic, quelle che non toccano sul terreno e si trasformano in missili aria-aria e che nei campi più piccoli si vanno spesso a stampare sulle teste del giudice di net o su quelle dei raccattapalle più sovrappensiero.

Non importa nulla di tutto questo, conta solo il tie break. Il panico del tie break E sul tie break i raccattapalle entrano nel panico, a volte piangono, non ricordano più quanti punti mancano prima di passare una pallina dall’altra parte del campo e non ricordano più se si cambia il campo ogni punto pari, ogni punto dispari, se si cambia quando uno dei due tennisti raggiunge un punteggio pari o se il pari deve essere la somma dei punti dei due giocatori. E lì è panico totale, nessuno puoi aiutarti, la hostess se ne è andata, il giudice di linea si è già appisolato e soprattutto sai che anche questa volta non avrai il polsino, perché prima del tie break il tennista lo cambia, ne prende uno nuovo e quello vecchio lo mette dentro la borsa. E per un raccattapalle non c’è niente di peggio che non avere quel dannato polsino. Perché si sopporta tutto, si sopportano le escoriazioni sul ginocchio quando ci si mette sotto rete, quando ti sbucci la pelle sopra la rotula, sopporti la Kournikova, la Dokic, la Hingis che non ti guardano mai e che ti chiamano soltanto per farti tenere l’ombrellone sopra di loro, sopporti Andrea Gaudenzi che ti manda a quel paese perché non ti ricordi mai di portare sulla sua seggiolina l’asciugamano san Benedetto che lui lascia sempre a fondocampo, sopporti anche di andare in giro per due settimane con un pass dove tu sei per tutti un “ballboy” e dove non esiste una traduzione esatta perché prima il raccattapalle era un raccattapalle ma da quando sei un ball boy tu diventi solo un bambino palla. E questo non ti aiuta affatto a sentirti integrato o a sentirti accettato come magari lo possono essere le modelline in minigonna della Boss che un anno fa erano state scelte proprio dalla Boss per raccattare a Madrid senza che nessuno si sognasse mai di dargli un accredito con scrittto ball girl, figuriamoci.

E tu invece, che eri un povero ball boy con tutti i pregiudizi che aveva uno che raccattava le palle e che era anche una palla di bambino, tu invece chiedevi davvero poco. Chiedevi di poter far parte della squadra della finale, chiedevi di avere un buono pasto in più, chiedevi di non finire sui vecchi campi “sei” e “sette” dove non c’era nessuno spettatore, dove i raccattapalle, quando andava bene, erano tre, a volte due, dove non c’erano le telecamere e dove l’autorità dei ball boy anziani era di gran lunga superiore a quella di molti giocatori che su quei campi giocavano le qualificazioni (uno dei volti storici delle qualificazioni era uno spagnolo con la bandana blu che si chiamava Alvarez, un pessimo giocatore che vinceva solo con gli italiani e che nell’ambiente dei raccattapalle era famoso per regalare i cappelli della Nike). Perché poi ci sarebbero state le racchette che Tarango ti buttava addosso, gli urli di Thomas Muster (da vicino riuscivi a vedere lì in mezzo alle ginocchia quante cicatrici aveva, il grande Thomas), riuscivi a sopportare anche le partite che finivano sempre al quinto set con molti tie break anche se poi, abbandonato lì sui campi di periferia, l’unico tuo vero sogno – oltre alla finale – era quello di giocare, pardon, di raccattare sul centrale. Sempre che poi non ci fosse Mary Pierce.

Il campo centrale nella prima partita del serale è sempre pieno. Il biglietto costa un po’ di meno, c’è sempre il collega che ti passa il suo accredito, il raccattapalle che ti dà la sua felpa con lo sponsor e che poi ti dice vai dall’amico a cui ho offerto le patatine al Bar del tennis che lui ti fa entrare sicuro. E tu, allora, entri sicuro. Quella sera sul campo centrale del Foro Italico Mary Pierce era già parecchio incazzata e se chiedeva una pallina la voleva subito e non voleva rumori, non voleva telefonini che squillavano, non voleva che la pallina arrivasse all’altezza dello stomaco e non voleva che la pallina fosse quella usata qualche istante prima, nello scambio precedente. Sennò, Mary, si incazzava davvero. E quando si incazzava, Mary era davvero bella. O almeno tutti dicevano così quando sotto il gazebo di fronte al campo uno le due coordinatrici dei ball boy con il foglio bianco in mano selezionavano te, te, te, te, te e poi te per il campo centrale e per la partita più attesa del serale, cioè quella con Mary Pierce; dove a raccattare la Mary c’erano sempre e solo ragazzi come quando alle partite di Rafter o a quelle di Gaudenzi o a quelle di Rios o a quelle di Moya c’erano sempre e solo ragazze.

Quel giorno capisci che Mary stava proprio guardando te. Mary voleva battere, le serviva una pallina. Si avvicina, muove la mano, muove la racchetta e fa su e giù con la testa e il campo centrale capisce che tu non hai nemmeno una pallina, capisce che tu stai guardando la Pierce, capisce che non la stai guardando negli occhi e soprattutto capisce che quando Mary Pierce ti si avvicina e ti apre la mano per vedere se hai ancora palline in mano e tu non ne hai neanche una e quando tutto lo stadio inizia a mettere in sequenza le vocali aaaaaaaa accompagnate da una c a cui segue immediatamente un’altra vocale (la o) scandita assieme a uno ione, capisci che tu ormai sei fottuto.
Mary Pierce viene da te, tu sei distratto dalla sua gonna bianca, ti viene ad aprire la mano e non hai nemmeno una pallina e per giunta ti dicono che sei un coglione e allora è tutto finito, ti manderanno per due anni a raccattare soltanto Alvarez vietandoti di chiedere i polsini e facendoti perdere a volte anche la premiazione dell’ultimo giorno quando hai l’unico momento di gloria delle due settimane di raccattapallaggio e quando la presentatrice della finale dice “salutiamo i raccattapalle” e tu pensi, e lo pensi davvero, che in fondo quegli applausi siano davvero per te e per come hai raccattato, cioè giocato, nonostante i tuoi errori, nonostante in pochi sanno che l’ultimo giorno al foro Italico c’è soprattutto chi pensa come andare dal custode Gaspare e farsi dare le palline che sono rimaste, o magari andare nei campi abbandonati a prendersi qualche asciugamano per poi spacciarlo come quello della finale, o magari per prendere i simbolini della Mercedes appesi alla rete o per andare in campo e prendersi un po’ di terra rossa.

Senza sapere poi che c’è gente come Jim Courier che i raccattapalle non li salutava più tanto volentieri, per colpa di quella pallina. Le tasche vuote e la fidanzata di Rios Courier non sopportava che la pallina gli arrivasse vicina ai piedi. Si voltava, si avvicinava, si girava e ti guardava. Aveva il cappellino bianco con la visiera piegata a V. Sotto la fronte non passava la luce, gli occhi restavano in penombra e lo sguardo non era proprio chiaro se si rivolgesse a te, al pubblico, al giudice di linea che gli aveva appena chiamato una palla uscita tanto così ma che lui invece aveva visto dentro così. Courier però ti guardava e si incazzava. La pallina doveva partire dalla tua mano in maniera precisa, limpida, tratteggiando una parabola attraverso la quale la pallina, una volta poggiata sulla terra rossa (di quel campo adiacente all’ingresso dello stadio Olimpico che una volta era il centralino e che ora è stato trasformato in un incastro di gambe, giocatori, palline volanti, segnalinee ululanti, punteggi, borracce), doveva arrivare sulla sua mano immobile. Courier le palline le voleva precise. Le sue gli giravano spesso e quando l’avversario prendeva il net e non chiedeva sorry lui non la prendeva bene. E quando non la prendeva bene, la pallina doveva arrivargli nella mano, precisa precisa sulla mano.

Non è uno scherzo, perché quando giocava Courier era davvero bello poter essere lì dietro di lui a cercare di capire come facesse con quell’impugnatura improponibile a fare quel dritto pazzesco, a giocare di panza, un po’ come Sergi Bruguera un po’ come gli spagnoli che sono i veri re delle qualificazioni maschili. Ma negli ultimi tempi sapevi che Courier era diventato un po’ nervoso e tu sapevi che se non eri in giornata era meglio nascondersi dietro un angolino mimetizzato tra un braccio alzato di un giudice di linea e il telone anti pioggia. Perché quando Jim era incazzato tutti sapevano che con lui non si doveva sbagliare e soprattutto tutti sapevano che mangiare un panino con le patatine fritte e tredici polletti del McDonald’s prima di scendere in campo non era mai una grande idea. E non importa che quella partita te l’avevano assegnata all’improvviso. Non importa che tu non avevi detto nulla della raccattapalle che si era fidanzata con Marcelo Rios, di quello che si metteva sempre la felpa perché in televisione non poteva permettersi di farsi vedere con le ascelle pezzate, non importava che tu non avevi detto nulla dei tuoi colleghi che dicevano mi dispiace non ho palline e che invece tu vedevi perfettamente che quei duei bozzi che aveva dietro la schiena a metà tra i pantaloncini e la maglietta erano le palline che si era già nascosto e che erano pronte per essere messe accanto sul suo schifosissimo comodino. Jim aveva perso il punto, il raccattapalle a sinistra era nascosto ancora meglio di te, perché oltre al telone, oltre al braccio del giudice di linea c’era anche l’ombra del tabellone luminoso e chi finiva lì sotto nel vecchio centralino non lo vedevi più. Come gli occhi di Jim.

La pallina era proprio lì dietro ed era vicino a te, dovevi muoverti, scattare, scavalcare i fiori, passare sotto il braccio del giudice di linea, sopra il telone bagnato, accanto ai rastrelli del giardinieri e arrivare a raccoglierla, non pensare alle patatine, tornare a posto, sorridere perché il raccattapalle deve sempre sorridere, metterti dritto con la schiena e disegnare una parabola armonica con la pallina che lentamente viene rilasciata dalla tua mano e che dovrebbe toccare terra, rallentare e finire sulla racchetta di Jim e che invece quel giorno, tra i vasi, le patatine e i polli da dodici, prese una strana velocità e senza disegnare grandi parabole andò dritta a infilarsi tra le palle di Courier, il quale, accusando il colpo, scoprì che lì in fondo a sinistra quella sagoma nascosta sotto l’ombrellone non era uno scopettone ma un altro raccattapalle e allora, ringraziando, da te aveva deciso di non venire mai più.
E tu sei finito, perché tu rimarrai per sempre quello che ha preso nelle palle Courier, quello che non ha portato a casa nemmeno il polsino di Alvarez e quello che diceva sempre che per te aver raccattato gente come Jim, come Thomas, come Pit, come André, come Martina, come Andrea era davvero un po’ come averci giocato insieme.