Perché Scaglia è ancora in carcere?

L'ex amministratore delegato di Fastweb è in carcere dal 26 febbraio

Silvio Scaglia, ex amministratore delegato e fondatore di Fastweb, è stato arrestato lo scorso 26 febbraio nell’ambito di un’inchiesta su una rete di riciclaggio legata alla ‘ndrangheta (la stessa che coinvolse l’ormai ex senatore Nicola Di Girolamo). Secondo l’accusa, il piano prevedeva l’emissione di “false fatturazioni di servizi telefonici e telematici inesistenti, venduti mediante due successive operazioni commerciali a Fastweb e Telecom Italia Sparkle dalle società italiane Cmc, Web Wizzard, I-Globe e Planetarium (poi volatilizzate), che evadevano il pagamento dell’Iva trasferendoli poi all’estero”. Il tutto con la compiacenza degli ex vertici di Fastweb e Telecom Sparkle, da cui le accuse a Scaglia.

Al momento dei primi arresti Scaglia risultava latitante, ma in realtà si trovava semplicemente all’estero per lavoro. Tornò dopo qualche giorno e si consegnò alla polizia. Da quel momento è in carcere, e oggi il Foglio si chiede – giustamente – quali ragioni giustificano la sua detenzione, che appare del tutto immotivata.

L’accusa rivolta a Scaglia riguarda un reato associativo, un concetto che ha subìto negli anni un ampliamento talmente generico da consentire oggi il suo uso contro persone sulle quali non esistono prove che abbiano commesso direttamente reati. Scaglia ha fornito la sua versione dei fatti, che risalgono al periodo che va dal 2003 al 2007. A quel punto, se si fosse applicato correttamente l’articolo 274 del codice di procedura penale, Scaglia avrebbe dovuto essere scarcerato. Non può inquinare prove su atti compiuti (o meno) anni fa, non può reiterare il reato, perché non ne esistono le condizioni materiali, non può essere sospettato di voler fuggire, visto che è rientrato spontaneamente per chiarire la sua posizione.

Scaglia, si è detto in un primo tempo, non si è “ravveduto”, il che non può certo essere richiesto a un inquisito che si proclama innocente. Poi il Tribunale del riesame presieduto da Giuseppe D’Arma ha rigettato la richiesta di scarcerazione con l’argomento specioso dello stile di direzione di Scaglia, che secondo il giudice “aveva una visione aziendale assolutamente accentratrice, quasi al limite del dispotico”. E allora? Questa circostanza può tutt’al più essere impiegata per avvalorare l’accusa, in base al discutibile principio del “non poteva non sapere”, che può essere usato in un dibattimento, ma non costituisce motivo valido di detenzione preventiva.

L’ultima giustificazione addotta dalla procura appare particolarmente inquietante. Scaglia non ha “patteggiato” il suo rientro, quindi non ha diritto che di questo si tenga conto per la scarcerazione. Questo del patteggiamento obbligatorio è l’indizio di una volontà di onnipotenza della procura, che naturalmente non ha riscontro nella legge. Poi è calato il silenzio su Scaglia, che resta dimenticato in galera da presunto innocente, solo perché non accetta di “patteggiare”, cioè di rinunciare al suo inalienabile diritto alla difesa. In uno stato di diritto questo comportamento inquisitorio della magistratura, che utilizza la detenzione preventiva per estorcere confessioni e ammissioni, dovrebbe essere considerato per quel che è: una tortura. Sarebbe ora che le voci dei garantisti di ogni parte si facessero sentire, forti e chiare, in difesa di un principio oltre che di una persona.