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  • Giovedì 5 gennaio 2017

Due storie attorno a una richiesta di asilo

Quella di un ragazzo bengalese arrivato in Italia su una nave e quella di un funzionario del ministero degli Interni che ne ha deciso il futuro

Alcuni migranti sotto un graffito in via Cupa a Roma, fuori dall'ex sede del centro di prima accoglienza per migranti Baobab, nell'estate 2016 (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)
Alcuni migranti sotto un graffito in via Cupa a Roma, fuori dall'ex sede del centro di prima accoglienza per migranti Baobab, nell'estate 2016 (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Nanue Matabor è un ragazzo di 19 anni arrivato in Italia dal Bangladesh, il suo paese d’origine. La storia di Matabor è una delle tante storie di persone migranti che sono riuscite a raggiungere il territorio italiano nella speranza di ottenere una qualche forma di protezione internazionale, come il diritto di asilo: ma è in qualche modo esemplare, perché permette di mostrare e capire anche la burocrazia dietro questi tentativi, e le vite delle persone che devono decidere se i loro tentativi vadano accolti o no.

La scorsa primavera Matabor si è presentato di fronte a una delle 48 commissioni territoriali create dal ministero degli Interni italiano per valutare le singole domande di asilo e altri tipi di protezione internazionale. Il suo caso è stato esaminato da Giorgio De Francesco, 52 anni, originario di Roma, un avvocato con esperienza nel ministero degli Interni che tempo fa aveva chiesto di poter lavorare nella commissione della sua città. La storia di Matabor e De Francesco è stata raccontata da Jim Yardley, giornalista del New York Times, che in primavera ha avuto la possibilità di assistere a diversi colloqui tra membri delle commissioni e alcuni richiedenti protezione internazionale. La storia raccontata da Yardley riguarda solo un pezzo del complesso e articolato sistema di accoglienza in Italia: parla soprattutto dell’attesa di quelle settimane, a volte mesi, che precedono un sì o un no che può cambiare la vita di un migrante e della sua famiglia.

Matabor è arrivato in Italia lo scorso anno a bordo di una nave, come migliaia di altri migranti prima di lui, e ha alle spalle una storia familiare molto complicata. È cresciuto in un orfanotrofio ed è stato di fatto adottato quando ancora era piccolo da una famiglia bengalese, senza però passare per le procedure ufficiali. Alla morte dei suoi genitori adottivi, ha continuato a vivere insieme al fratello acquisito, impegnato nell’attività politica di opposizione. È scappato dal suo paese dopo essere stato aggredito da alcuni agenti di polizia che lo hanno picchiato e minacciato di morte, scambiandolo per suo fratello; è andato in Libia, dove ha lavorato per un po’ in un hotel prima che venisse distrutto, e poi si è messo di nuovo in viaggio verso l’Italia entrando in contatto con dei trafficanti di essere umani. Durante il periodo lontano da casa, la moglie di Matabor, rimasta in Bangladesh, ha partorito il loro figlio, che Matabor non ha mai visto.

Matabor ha raccontato la sua storia a Giorgio De Francesco, membro di una delle commissioni territoriali istituite in Italia dal governo per valutare tutte le richieste di protezione internazionale. I colloqui di fronte alle commissioni territoriali sono il momento più importante per i richiedenti asilo, perché qui si decide se il governo italiano garantirà al migrante la protezione internazionale richiesta oppure lo rimanderà nel suo paese d’origine. In Italia le commissioni territoriali sono formate da quattro funzionari: ciascuno di loro intervista singolarmente i richiedenti, ma la decisione viene presa in un secondo momento durante una riunione collegiale. Nell’ultimo anno sono state presentate più di 83 mila richieste di asilo, il numero più alto mai registrato nel nostro paese. Per far fronte a questa emergenza le commissioni sono raddoppiate, passando dalle 20 del 2014 alle 48 del 2016. Il lavoro delle commissioni consiste nel raccogliere più informazioni possibili sulla storia del richiedente, fare ricerche sulla veridicità di quanto affermato e valutare attraverso parametri prestabiliti se la richiesta può essere accettata o meno. Il processo è molto lungo e tra il primo colloquio e la comunicazione della risposta passano diversi mesi.

Al colloquio tra Matabor e De Francesco, durato poco più di 45 minuti, ha assistito anche Jim Yardley del New York Times. A Matabor è stato messo a disposizione un interprete e gli sono stati spiegati tutti i possibili esiti della sua richiesta, tra cui il rifiuto. Tra le altre cose Matabor ha sostenuto che se tornasse in Bangladesh rischierebbe di morire, visto che la polizia potrebbe volersi vendicare per la sua fuga. De Francesco ha ascoltato, preso appunti e scritto tre pagine di resoconto, e le sue valutazioni sono andate ad aggiungersi al fascicolo di Matabor: decidere in merito a una domanda e rifiutarla è «la cosa più difficile» del suo lavoro, ha raccontato De Francesco. In Italia, così come in altri paesi europei, la burocrazia legata alle richieste di protezione internazionale è da tempo sotto pressione e i criteri per l’accettazione di una richiesta sono diventati sempre più stringenti. In molti paesi europei si è creato di fatto un meccanismo per cui la protezione internazionale viene garantita quasi automaticamente alle persone che provengono da determinati paesi in guerra, come la Siria, ma quasi mai a coloro che arrivano da paesi dove il conflitto è già finito, o dove l’immigrazione è spiegata soprattutto da ragioni economiche: una specie di «gerarchia della miseria», l’ha definita il New York Times, che penalizza anche chi ha storie familiari particolari e complicate come quella di Matabor. Il New York Times ha riportato il racconto di uno degli episodi più difficili che De Francesco ha dovuto affrontare durante gli anni passati alla commissione territoriale:

«Durante uno dei suoi giorni peggiori, De Francesco camminò fino a Piazza della Minerva. Lì, circondato dalla grandiosità decadente della città antica, ebbe quasi un crollo emotivo dopo avere ascoltato il caso di una donna nigeriana. «Aveva sofferto molto. Aveva perso i suoi genitori. La sua famiglia la maltrattava». De Francesco si era dovuto allontanare per ricomporsi, perché sapeva che avrebbe dovuto votare contro di lei e che la sua richiesta sarebbe stata rifiutata»

Matabor ha ricevuto la risposta alla sua richiesta a ottobre, circa sei mesi dopo avere sostenuto il colloquio. In quel periodo di tempo era rimasto in un centro di accoglienza a Calenzano, non lontano da Firenze, diretto dalla Caritas, mentre De Francesco aveva ascoltato più di 1.200 altri casi, prendendo decisioni spesso molto difficili e sofferte: «Il giorno in cui non proverò più niente, chiederò di smettere. Avrò perso la mia umanità», ha raccontato. A Matabor non è andata bene: la sua richiesta è stata rifiutata. Un interprete gli ha spiegato come fare a presentare un ricorso, in alternativa il governo avrebbe potuto comprargli un biglietto aereo per tornare in Bangladesh: «Matabor è rimasto in piedi, da solo, di spalle, e ha cominciato a piangere piano».