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  • Giovedì 5 novembre 2015

Quanto costano i libri in Italia

Sempre meno: c'entrano la crisi economica, la percezione che siano cari e il calo dei prezzi di stampa

I prezzi dei libri di carta in Italia – sostiene l’Associazione Italiana Editori nel Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia del 2015 – diminuiscono ininterrottamente dal 2011. Nel 2014 il calo rispetto all’anno precedente è stato del 6,4 per cento per i libri di carta e del 6,1 per gli ebook al netto dell’Iva. Anche l’Istat calcola che nel 2013 il prezzo medio dei libri è sceso a 19,59 euro contro i 20,29 medi del 2012, con una differenza tra piccoli editori (22,6 euro medi) e grandi editori (19,37 euro) dovuta al fatto che questi ultimi, grazie all’alto numero di copie stampate e distribuite, possono fare economie di scala e permettersi pezzi più bassi. Sempre secondo l’Istat più della metà dei libri messi in commercio in Italia nel 2013 non superava i 15 euro. La ragione principale del calo del prezzo è sicuramente la crisi economica – quando ci si sente poveri, un euro in meno può cambiare la percezione ed essere determinante – , ma potrebbe essere dovuta anche a una incidenza progressivamente minore dei costi industriali di stampa.

La percezione diffusa è che i libri costino tanto, addirittura troppo secondo un certo luogo comune. La verità è che oggi per un editore medio grande – che sia cioè in grado di stampare un numero sufficiente di copie per spuntare prezzi competitivi – il costo di produzione di 7-8 mila copie di un libro di 250 pagine in brossura (cioè non con la copertina rigida) è di 1,5-1,8 euro a copia. Il prezzo di vendita è circa dieci volte più alto. In libreria, infatti, quel libro costerà tra i 16 e i 19 euro. È un ricarico che appare simile a quello di beni di lusso, quelli dove il marchio risulta determinante rispetto al prodotto. I libri, invece, sono tra le merci che offrono margini di guadagno più bassi. Su un campione di 100 libri pubblicati, la media di margine per l’editore è intorno al 4-5 per cento, che può salire fino al 7-8 quando la casa editrice va molto bene, cioè se in quell’anno imbrocca uno o più bestseller.

Ogni libro ha un “conto economico”, dove sono elencati voce per voce i costi sostenuti dall’editore. Ai costi di produzione industriale – che comprendono lastre, carta e stampa – si devono aggiungere, infatti, l’anticipo all’autore (dal 6 al 15 per cento su ogni copia venduta) che è calcolato sulla base della previsione di vendita e va scalato dai diritti (in pratica, l’autore non prende soldi fino a quando le copie coperte dall’anticipo non siano state vendute tutte), i costi redazionali (la traduzione, se c’è, la redazione, revisione e correzione bozze), i costi aziendali (amministrativi, di gestione, fissi redazionali, pulizia, luce, affitto etc), i costi di magazzino e macero, ma soprattutto – ed è il costo di gran lunga più grosso – quelli della distribuzione che pesa poco meno del 50 per cento sul costo totale di un libro. È un’incidenza altissima – probabilmente non diversa da quella di altri prodotti, dove però il margine è maggiore – che spiega come mai, per un editore, sia molto più conveniente puntare su pochi titoli che vendano moltissimo, piuttosto che su tanti che vadano benino. Il costo della distribuzione spiega anche la potenza editoriale crescente di Amazon, cioè di chi guadagna proprio sulla logistica, ottimizzando i costi di movimentazione e magazzino, distribuendo esattamente le copie vendute, non una di più, senza disperdere risorse e sforzi per raggiungere punti vendita dove la domanda non c’è.

Fino a una quindicina di anni fa, le cose erano più semplici. I prezzi erano più dettati dalla materia, e meno dai marchi e dai movimenti. I prezzi di un libro si decidevano inserendo le varie voci del “conto economico” in un Foglio di calcolo, di norma preparato dal reparto Commerciale in base a una serie di parametri fissi e virtuosi. Date le varie voci di costo, il sistema calcolava e proponeva ai direttori editoriali automaticamente un prezzo ottimale. Naturalmente ogni editore aveva e ha ancora il potere di giocare un po’ con questi parametri, variandoli il più possibile per tenere i prezzi abbastanza bassi rimanendo competitivi, quindi alzando o abbassando le previsioni di vendita oppure la prima tiratura (più copie stampo, meno mi costano in media), o ancora caricando alcuni costi su altri titoli per i quali la variabile prezzo è meno importante (sulle vendite di un libro specialistico o di nicchia, per esempio, un euro in più o in meno non incide) oppure su altri titoli che per varie ragioni – non solo di contenuto ma anche di nome e promozione – hanno meno possibilità di diventare best seller. Al di là di queste libertà, che ci sono ancora, fino a quindici anni fa i parametri erano più fissi, e più determinati soprattutto dai costi industriali di produzione. Chi lavora in editoria dagli anni Ottanta ricorda, per esempio, che una volta per decidere il prezzo di un libro era importante valutare il prezzo della carta, fissato in base a quello del prezzo a cui in quel momento il legname all’ingrosso veniva venduto in Scandinavia.

Oggi i costi industriali incidono sempre meno: “tendono quasi a zero”, direbbero gli economisti. Questa trasformazione ha conseguenze forti sulle politiche e sulle pratiche reali del mondo dell’editoria, per cui è sempre più importante distribuire bene un libro, non sprecarne copie, e decidere il prezzo giusto per il tipo di prodotto per il pubblico a cui si rivolge, piuttosto che indovinare una tiratura abbastanza potente da renderlo visibile in libreria. Un libro di storia da regalare al nonno a Natale, per esempio, non potrà costare meno di 21 euro, altrimenti non sembrerebbe un regalo degno di questo nome neppure al nipote che pure vorrebbe risparmiare. Deve costare almeno 20 euro anche se da un punto di vista economico – date le copie stampate e l’anticipo pagato, cioè dato il “conto economico – l’editore potrebbe metterlo in vendita a 2 euro di meno. Proprio per giustificare il suo prezzo, e la sua collocazione sul mercato, dovrà necessariamente avere alcune caratteristiche – la copertina rigida e, magari, le lettere d’oro in rilievo – tali da collocarlo nell’insieme estetico-ideologico dei “libri da regalo per nonno”. Lo stesso meccanismo vale per tutto, e non da oggi, da sempre, perfino per i libri periodicamente messi in vendita da Vittorio Avanzini per Newton Compton a 9,90 per farsi pubblicità e raggiungere un pubblico generico, o per la Lettera sulla felicità di Epicuro pubblicato da Stampa Alternativa, che nel 1991 vendette un milione di copie grazie al colpo di genio di Marcello Baraghini che la mise in vendita a «Millelire» (ora costa 0,49 centesimi).

In Italia nel 2013, secondo Istat (ultimo censimento disponibile) c’erano 1.658 editori attivi, 61.966 novità pubblicate (cioè 170 libri nuovi ogni giorno) per un totale di 181.964 copie e una tiratura media di 2.932 copie. Un numero abnorme anche se gli atomi – cellulosa, piombo, cartonato, brossura, peso della carta – pesano sempre di meno. A pesare sempre di più, invece, relativamente parlando, sono distribuzione, promozione e “processo” perché saranno possibili risparmi quanto più il procedimento sarà standardizzato. Se, invece, il libro uscirà dagli schemi o richiederà lavorazioni grafiche o industriali particolari, tanto più tenderà a essere espulso dal mercato editoriale, non tanto per i costi singoli effettivi richiesti all’editore, quando per le deviazioni imposte a un processo anche burocratico e a una catena decisionale che deve tendere, necessariamente, allo standard. Le conseguenze, da un punto di vista pratico, ci sono, e stanno cambiando il mercato dei libri anche da un punto di vista contenutistico, privilegiando lo standard all’originalità, imponendo di replicare copertine, titoli, parole o tipi di libro che hanno avuto successo. Perché se la “messa in macchina”, cioè l’avvio di una nuova ristampa di un libro, costa sempre di meno, per un editore non sarà più necessario intuire il giusto numero di copie da stampare affinché quel libro in libreria sia visibile e vendibile, senza eccedere in modo che non torni invenduto come costo sul magazzino. Quello che conviene all’editore è stampare meno copie, correndo il rischio di non essere visibili, e poi, nel caso in cui quel libro venga notato, ristamparlo, magari investire in pubblicità, tanto bastano tirature minime, anche da 200 o 300 copie, perché tanto l’avvio costa poco, e il magazzino costa molto. Siccome a pesare (per quasi il 50%) è la distribuzione, siccome la velocità di consegna richiesta è sempre maggiore, siccome annunciare nuove ristampe simula successo ed è un fattore di emulazione, agli editori spesso, in generale, conviene mandare al macero le copie già stampate e intanto ristamparne di nuove, piuttosto che movimentare quelle esistenti.