Un paese in cerca di guru

Le storie dei successi di di Saviano, Petrini, Camillleri, Mauro Corona, Allevi e Grillo nel libro di Alessandro Trocino

di alessandro trocino

I primi gruppi di visione collettiva della televisione, allora scatola magica e misteriosa, nascono ai tempi di Mike Bongiorno, come testimonia lo sfortunato professor Palumbo, alias Stefano Satta Flores in C’eravamo tanto amati. Da quel lontano 1955, il piccolo schermo è diventato un oggetto consueto e individuale, da godersi tra le quattro mura di casa, nella quiete solitaria o familiare. Negli ultimi anni soltanto due eccezioni hanno rotto questo isolazionismo televisivo: X Factor e Vieni via con me. Improvvisamente si riscopre il piacere antico e démodé dello stare insieme. Ci si ritrova in compagnia a guardare il giurato Morgan e la discografica Mara Maionchi. Ma se per X Factor il motore è il divertimento, per Vieni via con me si crea un clima diverso, incoraggiato dal format della trasmissione e dai conduttori. Ci sono il volto e la parola di Roberto Saviano, l’emblema della voglia di riscatto di una parte d’Italia.

E c’è Fabio Fazio, gran sacerdote della bontà di sinistra. Di fronte al vuoto e all’orrore di un ventennio berlusconiano, di fronte al dilagare di una società becera, volgare, retriva, il popolo della sinistra è scosso, ha bisogno di vedere volti amici, di sentire parole incoraggianti. Ha bisogno di riscattarsi da una minorità politica e culturale frustrante. E se i partiti non hanno gli strumenti per raccogliere il grido di dolore di quella parte del paese che vuole cambiare la realtà, il compito tocca ai nuovi intellettuali pop. Fazio e Saviano, con un blitz, invadono le frequenze normalizzate della RAI e recitano il nuovo vangelo dell’Italia indignata, indecisa tra la fuga all’estero, verso lidi più democratici e moderni, e la resistenza in patria. Di fronte al clamoroso successo della trasmissione si avverte una reazione di sollievo. Una nuova Italia è possibile, un nuovo modello di cultura e di informazione è possibile. C’è un nuovo paradigma, si dice, che sostituisce l’incultura reazionaria e pubblicitaria del centrodestra. Eppure c’è qualcosa che non quadra. Sfilano sulla passerella televisiva gli eroi dell’antiberlusconismo, gli aedi dell’intellighenzia di sinistra. È confortante rivedere Dario Fo, Roberto Benigni, Paolo Rossi fondersi insieme in un abbraccio collettivo con Corrado Guzzanti e Milena Gabanelli. In fondo, è una preghiera laica quella che per quattro lunedì consecutivi si recita sugli schermi di Raitre. Il format prevede l’elenco, recitato come un rosario. Qualcuno comincia a instillare un dubbio. Che sia davvero una specie di messa, come scrive Aldo Grasso sul «Corriere della Sera»: «Vieni via con me è il calco di una cerimonia religiosa, di una messa, di una funzione liturgica. La proposta degli elenchi, di ogni tipo, su ogni argomento, assomiglia molto alle litanie: più che alla vertigine della lista, lo spettatore cede volentieri al fascino della supplica accorata, alla de-vozione popolare, alla lamentazione come unica fonte di speranza e di conforto, al mantra».

Grasso coglie nel segno. La funzione consolatoria del rito è evidente. Come tutti i riti, prevede una massa di fedeli, un insieme di atti codificati, qualche figura santificata, un’aria penitenziale, ravvivata in questo caso dall’orgoglio degli autoproclamati giusti. Che la definizione non sia solo una perfidia del critico lo chiarisce lo stesso Fazio: «Con gli autori abbiamo pensato a una cerimonia. Una cosa certo poco televisiva, semmai teatrale. Fondata sul valore della parola nuda. Un format post o preberlusconiano, va’ a sapere. L’unico precedente linguistico era Celentano, i suoi silenzi, la rottura del rito attraverso un altro rito».

La nuova coscienza sociale e intellettuale della sinistra italiana passa attraverso il rito degli elenchi, momento apicale di una rivolta che non sembra trovare sbocchi. Un fallimento, in un certo senso. La resa mimetica al berlusconismo dominante, una consegna alla logica bellica degli schieramenti. La nascita di un’ideologia che trae forza e giustificazione in chiave di contrapposizione a un’altra ideologia, quella del centrodestra. Se il regime, come viene chiamato a sinistra, ha appannato le menti, riempiendole di un immaginario catodico superficiale, arruolando il gregge degli italiani nella logica etica ed estetica del successo, della bellezza esteriore, del populismo mediatico, il fior fiore della sinistra italiana non trova di meglio che squadernare elenchi. Dove la forma iterativa, la successione di frasi e slogan non svolge una funzione informativa, critica, ma soprattutto emotiva. Nella coazione a ripetere non c’èspazio per la riflessione. Nel format “religioso” non sono previsti il contraddittorio, il dialogo, il dubbio, la sfumatura, l’incertezza, l’ambivalenza. La cultura militarizzata non li contempla, anzi li esclude come un cedimento vile al nemico. I dieci milioni di spettatori di Vieni via con me bastano a loro stessi. Sono autosufficienti, procedono su un’autostrada virtuale che non incontra il “paese reale”, il solito neghittoso e disastroso paese reale che non ne vuole sapere di farsi guidare da Fazio, Saviano, Benigni.

Ma non è un problema per le popstar della cultura. Invece di provare ad aprire una breccia nel muro di indifferenza e ottusità che le circonda, invece di marciare con la forza della loro intelligenza e l’audacia del loro pensiero sulle spoglie del paese reale, invece di contaminarsi con l’altro, negano l’esistenza del resto del mondo, si rinserrano nella ridotta televisiva e da lì proclamano vinta la battaglia, tra lacrime di commozione e grida di giubilo. Sazi e ancora irrimediabilmente minoranza, gli intellettuali pop della sinistra tornano a casa felici e con l’autostima alle stelle. Il programma di Fazio e Saviano può essere visto anche come il punto culminante di un percorso che comincia molti anni prima. Negli anni Ottanta nel mondo si verifica una mutazione antropologica, per dirla con Pier Paolo Pasolini, che anticipa e prepara la fine dei due blocchi politici e culturali. Si avvia una modernizzazione reazionaria, dominata dalla logica dell’edonismo reaganiano, dal darwinismo sociale e dal consumismo televisivo.

In Italia sono gli anni di Bettino Craxi, che si libera di ogni scrupolo. Insulta gli «intellettuali dei miei stivali», riecheggia gli strali di Mario Scelba contro il «culturame». È un mondo che finisce per travasarsi nella nuova linfa berlusconiana, nata sulle macerie di Tangentopoli. L’antintellettualismo, già appannaggio della destra nazifascista – gente che metteva mano alla fondina quando sentiva la parola cultura –, diventa però anche patrimonio comune a certa sinistra.

Di fronte a un mondo che non si può più spiegare con le comode lenti dell’ideologia, viene più facile sbarazzarsi delle domande e di chi le pone. È quello che avviene con il riflusso in una dimensione prepolitica, con ampio e scellerato ricorso a esotismi new age e all’irrazionalità emotiva. C’è la fuga verso una dimensione antipolitica, di neoqualunquismo, che si rafforza con il crollo dei partiti storici seguito a Mani Pulite. C’è il ricorso crescente al populismo, allo slogan semplificatorio, all’afflato nostalgico, tutti sintomi della patologia della democrazia. Nel 2001, lo scontro tra Oriana Fallaci e Tiziano Terzani, consumato sulle colonne del «Corriere della Sera», sarà un’altra tappa del medesimo percorso. La giornalista e inviata di guerra, gloria delle donne impegnate e di sinistra, è trasfigurata dalla rabbia contro gli stranieri e contro i musulmani che invadono l’Occidente e minacciano di contaminare il suo piccolo mondo antico. All’invettiva della Fallaci, gonfia di emotività, si contrappone la calma ieratica di Terzani, anche lui inviato di guerra e diventato, a suo modo, una popstar della cultura. Di quella cultura che a sinistra cerca di opporsi all’isteria fallaciana, offrendo un’alternativa alla reazione e alla paura. Terzani fu certamente un grande uomo e un grande giornalista. Ma la sua trasformazione in una sorta di santone, adorato da una vasta comunità di adepti, fu un segnale, un sintomo della direzione che stava imboccando la cultura di massa italiana. La massa più avanzata, certo, quella mediamente colta, che guardava con qualche sospetto l’edonismo berlusconiano e cercava un’alternativa, possibilmente a sinistra.

Il figlio Folco provò a dare una spiegazione del fascino che ebbe per molti “terzanisti”: «Credo che, senza volerlo, il babbo abbia intercettato qualcosa di cui si sente il bisogno. Lui è diventato un grande minestrone di culture e idee diverse e le ha rielaborate con un linguaggio occidentale, le ha semplificate. Sono idee antiche che tutti conosciamo ma che abbiamo perso: la vita, la paura della morte, le domande che un uomo si pone e alle quali cerca una risposta senza ricorrere alla religione tradizionale. Parla di queste grandi domande rimaste coperte dal rumore di questi tempi». La cultura della sinistra in questi anni ha ormai cambiato pelle. Dall’egemonia culturale di impronta gramsciana all’industria culturale di Horkheimer e Adorno, fino all’attuale strapotere del marketing editoriale, il salto è stato lungo. In mezzo si è costituito un universo contaminato e franto, nel quale destra e sinistra si sono spesso confuse in un abbraccio poco virtuoso. Si sono fatti strada in questi anni alcuni personaggi che nella letteratura, nella musica e nella politica raggiungono una popolarità di massa, godendo dei favori di lettori orientati per lo più a sinistra, ma non solo.

Qui analizziamo Roberto Saviano, Giovanni Allevi, Carlo Petrini, Beppe Grillo, Mauro Corona e AndreaCamilleri. Soltanto un campione, perché l’elenco poteva continuare e le popstar non mancano: dallo stessoTerzani a Benigni, dai fratelli Muccino a Maurizio Cattelan, da Fabio Fazio a Massimiliano Fuksas, da Alessandro Baricco fino a Nichi Vendola6. È una galleria di casi individuali, ma attraversati da uno o più fili comuni. Cornici cognitive ed emotive condivise che ne fanno facce diverse di un’unica medaglia. Medaglia, va detto, non sempre di metallo pregiato. Ad alcuni si potrebbe applicare la celebre definizione di Dwight MacDonald sulle opere midcult7. Opere, per dirla con Umberto Eco, «che paiono possedere tutti i requisiti di una cultura aggiornata e che, invece, di fatto, della cultura costituiscono una parodia, una depauperazione, una falsificazione attuata a fini commerciali». In definitiva, un compromesso al ribasso. Il consumatore viene illuso di avere a portata di mano l’arte e la cultura “alta” che cerca di incontrare il gusto medio.

O, più correttamente, il gusto medio che viene lusingato da una cultura promessa come alta e che alta non è. I nuovi eroi midcult, rappresentanti del ceto medio riflessivo, borghese e di sinistra, prodotti elitari ma su larga scala, si spartiscono la torta di un mercato perfettamente segmentato per gruppi sociali e per orientamento culturale e politico. Non si discute qui il valore degli autori, peraltro molto diverso e ovviamente opinabile. Saviano è autore di un libro importante, Allevi un pianista mediamente dotato. Petrini è autore di una grande battaglia per il cibo di qualità, Corona uno scrittore un po’ grezzo che non resterà nella storia. È in discussione la modalità con laquale sono arrivati al successo, le ragioni che hanno contribuito a farne delle popstar, il paradigma che hanno creato o al quale si sono adattati. Delle vite parallele di questi personaggi, e ancor di più della massa che li adora, si vogliono mettere in luce alcuni tratti ricorrenti. Elementi che contribuiscono a fornire un quadro poco rassicurante dello stato della cultura italiana e in particolare proprio di quella che si vorrebbe più avanzata, progressista, alternativa al vuoto della destra e del berlusconismo. A metterli in fila, i peccati capitali degli intellettuali nostrani fanno impressione: inclinazione al

conformismo, propensione all’emotività e al sentimentalismo, diffidenza per il razionalismo, predilezione per l’indignazione fine a stessa, ricorso al manicheismo, tendenza alla semplificazione di problemi complessi, inclinazione al sapere nostalgico e al passatismo, profusione di retorica apocalittica, cedimento alla cialtroneria, abuso di facili artifici, antimodernismo e antiscientismo, esaltazione dell’uomo forte, affidamento all’esoterismo new age, delega delle responsabilità, ricerca del guru o del maestro di turno, servilismo. Il tutto condito con una mediatizzazione diffusa e con un narcisismo estremo nutrito di presenzialismo e populismo. Vizi diffusi in dosi molto diverse tra i personaggi di cui ci occupiamo.

Vizi che corrispondono in definitiva ai difetti degli italiani, dei quali si nutre come un saprofita l’industria culturale italiana, abile a incoraggiarli e a sfruttarli. Se è la domanda che regola l’offerta, il panorama culturale non può essere che questo. Se il presente è oscuro e il futuro incerto, non resta che affidarsi al passato, rimpiangendolo e idealizzandolo. Come fa CarloPetrini, straordinario inventore di un sogno, Slow Food, diventato impero e ideologia. Dell’elogio della lentezza Petrini ha fatto il suo marchio. L’anelito all’armonia di una natura inesistente, la diffidenza per la tecnologia e il mito del sapere nostalgico sono moneta corrente nel mondo bucolico di Slow Food. Non è un caso che tra i punti di riferimento di Petrini ci siano sia l’ambientalismo retrò e naïf di Adriano Celentano, sia l’equivalente più intellettuale di Ermanno Olmi, con il suo cinema arcaico e rurale. La sfiducia verso il progresso e l’antimodernismo, del resto, sono caratteristiche diffuse tra gli italiani. Quegli italiani che eleggono Andrea Camilleri a loro idolo letterario, con la sua Sicilia tipizzata, folcloristica, immobilizzata in un’istantanea che sa di morte e che non consente cambiamenti. Camilleri, con la sua letteratura seriale, la parola mutata in ingranaggio di una catena di montaggio, la sovraesposizione mediatica e politica, è il precipitato della nuova editoria subalterna al marketing. Gli sceneggiati TV, dai quali cominciò molti anni prima la sua carriera, amplificano il successo e diventano il vero strumento della notorietà di massa.

Del resto un poeta riesce ad assurgere alla fama solo se accede al piccolo schermo: per un’Alda Merini idolatrata e adorata, soprattutto dopo l’apparizione al Maurizio Costanzo Show e post mortem, ci sono decine di Elio Pagliarani che, non baciati dalla dea del tubo catodico, restano sconosciuti e negletti, pur avendo prodotto capolavori come La ragazza Carla. Se Antonio Gramsci aveva compreso la necessità da parte delle élite di orientare la Weltanschauung dellemasse, nella sinistra c’è stata una lunga coazione a ripetersi di pensosi snob e radical chic, troppo impegnati a disprezzare il popolo per capirlo, figuriamoci per servirlo. L’intellettuale moderno non è più da tempo la cinghia di trasmissione tra il partito e le masse. All’egemonia culturale della sinistra è subentrata, silenziosa ma devastante, una nuova egemonia “sottoculturale”, per usare un’espressione di Massimiliano Panarari, che ha soppiantato la prima, inoculando nella società il pericoloso e pandemico germe del populismo mediatico.

Sedici anni di dominio berlusconiano hanno impresso un segno indelebile nel carattere nazionale. Per uscire dalle strettoie della sottocultura berlusconicentrica e per sfuggire al gorgo mefitico dell’autoreferenzialità, l’intellettuale ha ceduto di schianto. Succube da decenni di dibattiti autopoietici e di soporiferi cineclub, ormai ebbro e nauseato dalla propria presunta superiorità morale, da tempo degradata in un indifendibile moralismo da casta protetta, la sinistra culturale ha rotto le righe e, muovendosi in ordine sparso, si è buttata nello stesso circuito di populismo della destra, innervato da robuste iniezioni di moderni steroidi catodici. Quel che rimane dell’industria culturale in mano alla sinistra scimmiotta il baudesco nazionalpopolare, utilizzando le antiche corde dell’emozione, del sentimento, dell’anima, dell’antirazionalismo, dell’antimodernismo e della cialtroneria, che da sempre costituiscono il nerbo della melodrammatica e furbesca indole italica. Così nasce e prospera Giovanni Allevi, adorato da schiere di fan ai quali propina un pentagramma che fa leva sull’universo olistico dell’era emozionale, di cui il Maestro disserta nei suoi instant book. Accolto con tutti gli onori in Parlamento, il novello Rossini in pochi anni ha edificato, mattone su mattone, una carriera straordinaria.

Miracolato da un ottimo ufficio stampa, è volato sulle ali del marketing, non senza qualche invocazione propiziatoria rivolta all’Altissimo. Il tutto a piedi nudi, naturalmente, perché natura e sentimento, emozione e godimento lento, vanno di pari passo. Paulo Coelho con la sua cianfrusaglia alchemica non è vissuto invano e i lucchetti di Ponte Milvio non sono stati inventati inutilmente dal giovane-vecchio Federico Moccia. Campione del neopopulismo catodico, nel combinato disposto di neoqualunquismo e retorica apocalittica, ecco avanzare Beppe Grillo. Una carriera da comico, sciaguratamente buttata via per vestire i panni del Savonarola, tanto intriso di giustizialismo à la page da condividere con Marco Travaglio ed Emilio Fede il vezzo, un po’ fascista, di deridere l’avversario. Avversario derubricato in nemico, con epiteti offensivi. Oppure per le vie brevi, con insulti diretti a base di “vaffanculo”.

Moderno Lenny Bruce, con minor tasso di esistenzialismo disperato, Grillo fa il pifferaio magico per un popolo di indignati. Indignazione comprensibile, visto lo stato della politica e della società, che finisce però per irreggimentarsi in una protesta che rifugge la complessità, per calarsi nella consueta retorica consolatoria dello sdegno fine a se stesso. Le popstar sono lo specchio di un paese malato di retorica, sentimentale, massimalista, finto rivoluzionario, antilluminista. E quel che è peggio è che gli italiani sonom come i loro divi: la loro mediocrità è nella mediocri tà della loro cultura. Del resto il nostro è pur sempre uno dei paesi europei con il più basso consumo culturale. Alto, invece, è il tasso di conformismo. Gli italiani adulano con la stessa superficiale ipocrisia con la quale provvedono a scavare fosse, dimenticando in fretta sia il delitto sia il cadavere. Con la stessa rapidità con la quale erigono monumenti, li demoliscono con sbadata ferocia. C’è una continuità storica, culturale e morale nel fascismo e in piazzale Loreto, nel Craxi della Milano da bere e nel lancio delle monetine all’Hotel Raphaël. E naturalmente nella parabola berlusconiana.

È l’Italia dei furbi e dei finti cascatori. L’Italia che non ha mai conosciuto Cartesio e Voltaire. L’Italia delle grida manzoniane, che ha rinnegato le leggi “armate” di Beccaria e le ha sostituite con la retorica delle orazioni civili, dell’impegno da salotto. L’Italia intellettualmente disonesta, che fa la rivoluzione in terrazza, che festeggia a Fregene con Moravia e Schifano l’assoluzione dell’assassino di Primavalle e non sta «né con lo Stato né con le BR». L’Italia che scende in piazza e sfila compiaciuta. L’Italia degli oratori vibranti e magniloquenti. L’Italia dell’elzeviro, del giornalismo malato, passata dalla pomposità letteraria delle terze pagine alla volgarità pecoreccia dei fogli di regime. L’Italia dell’intellighenzia di sinistra, che per anni ha flirtato con ex terroristi-intellettuali come Cesare Battisti, ignorando l’eroe borghese Giorgio Ambrosoli. L’Italia della casta, della cricca, del familismo amorale, del “teniamo famiglia”, della raccomandazione, delle affettuosità di potere, della romanità avvolgente, del pizzino. Un paese che sente il bisogno di inserire Allevi nel comitato dei garanti dell’Unità d’Italia, proprio mentre smantella l’unità a colpi di leghismo, di corruzione e di ignavia politica. Un paese che compra i libri-feticcio di Saviano per combattere la camorra e poi pippa la cocaina dei camorristi nei cessi dell’Hollywood a Milano. Il paese degli abusi edilizi, dei condoni, dei furbetti del quartierino. Il paese del catastrofismo apocalittico, dell’iperbole emotiva, del populismo tecnocratico, del vaffanculo catartico. Il paese midcult che confida nei miracoli dell’autoculturalizzazione istantanea di massa. Il paese che trasforma lo scrittore engagé in icona da scaffale. Che cerca disperatamente un guru qualsiasi che gli indichi la strada e lo trova in comici che predicano l’anacoretismo e praticano il business. Un paese che preferisce nutrirsi di uno stato di indignazione permanente, piuttosto che provare a cambiare lo stato delle cose.

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Alessandro Trocino scrive per il Corriere della Sera, dove si occupa di politica; oltre a Popstar della cultura, di cui pubblichiamo l’introduzione, ha scritto, insieme ad Adalberto Signore, Razza padana, edito da Bur. Dal 2009 cura il blog di cibo e cucina Puntarella Rossa. Dal 19 gennaio Popstar della cultura è anche un blog.