Dov’è la vittoria

Chiudiamo Europa alla vigilia di una notte che ci ricorda quella del 10 aprile 2006, quando un centrosinistra che s’era svegliato sicuro della vittoria tirò tardi contando le schede una a una. Fino a una vittoria che venne proclamata in piazza ma non era tale, anzi si dimostrò l’anticamera della peggiore sconfitta.

Stavolta, se non altro, l’errore non può ripetersi. Il centrosinistra non potrà in alcun modo, neanche prevalendo alla camera (come speriamo), considerare quello odierno un successo.
Dunque sarà senza illusioni che si dovrà affrontare lo stesso identico problema del 2006: evitare di fare del male al paese, evitare di costruire con le proprie mani un’ulteriore peggiore sconfitta.
Stasera nel Pd non è il caso di fare discorsi sulle responsabilità per il risultato mancato. Oltre tutto nessuno potrebbe chiamarsi fuori. Confidiamo che la questione, ineludibile, venga affrontata nei tempi e nei modi giusti.

Molto più urgenti e importanti sono i discorsi sul paese. Su questo paese che ha votato in massa Beppe Grillo e, cosa più sorprendente e più impressionante, è tornato a votare in massa Berlusconi.
Il fatto è che la sconfitta democratica non è neanche tanto elettorale (che pure c’è, se al senato si cedono alla destra Piemonte e Puglia senza conquistare neanche una regione di quelle presunte in bilico), quanto politica.

Nel girare le spalle a un anno di politiche di risanamento che pure avevano fermato l’Italia sul’orlo del baratro finanziario, gli elettori non hanno creduto alla via d’uscita da quelle stesse politiche che pure Bersani aveva indicato.
Molti, tanti di loro, hanno preferito la rottura più radicale di Beppe Grillo.
Oppure sono tornati a fidarsi delle ultime promesse di Berlusconi, non sazi delle delusioni subite, evidentemente desiderosi di rientrare in una bolla di ottimismo, di bagnarsi di nuovo nell’illusione della restituzione delle tasse e della rottura dei vincoli imposti dall’integrazione europea.

Il risultato del Pdl va considerato – come è giusto – in rapporto alle aspettative recenti, che erano disastrose. Certo il trionfalismo dei suoi capetti ieri sera si giustificava solo con il sollievo per un’estinzione mancata, e per il vedere la delusione dei dirimpettai democratici. A mente fredda gli si potrà ricordare che in cinque anni il centrodestra ha perso il 18 per cento dei voti, l’arretramento più colossale e rapido della storia elettorale italiana.

Nessun’altra ipotesi oltre a M5S e a Berlusconi è stata considerata.
Né il rigore (allentato in campagna elettorale) di Mario Monti: una storia che sarà raccontata negli anni come il drammatico sperpero di una autorevole leadership personale.
Né l’estremismo confuso e approssimativo della carovana Ingroia, il cui mancato quorum è però la notizia più annunciata della giornata.

La tripartizione politica e parlamentare che deriva da questo voto è a prima vista del tutto ingestibile. Non esistendo alcuna maggioranza politica coerente al senato, la maggioranza di cui il centrosinistra potrà godere a Montecitorio regala a Bersani solo una rogna: quella di dover prendere un’iniziativa per provare a dare un governo al paese.
Sarà una prova al limite dell’impossibile. E se è vero – come è vero – che tutti pongono la riforma elettorale come minimo comun denominatore di qualsiasi per quanto provvisorio o tecnico accordo di governo, questa emergenza suona come bruciante bocciatura per le velleità di chi non ha voluto modificare il Porcellum, magari sperando sotto sotto che gli sarebbe tornato utile.

Sul tema delle maggioranze da costituire e del governo da inventarsi solo una valutazione viene di fare, a caldo, quando è troppo presto anche solo per conoscere le posizioni ufficiali dei partiti: saranno impossibili le ammucchiate. Non avremmo visto in ogni caso Bersani e Berlusconi appoggiare di nuovo un governo insieme, ma la prospettiva appare oggi pazzesca sotto la pressione potente del 26 per cento di Cinquestelle.

Per dirla tutta: dovendone scrivere alle nove e mezza di sera di lunedì, non appare pensabile alcuna maggioranza parlamentare e alcun governo che non prevedano, in qualche modo certo oggi difficile da immaginare, il sostegno dei parlamentari di Beppe Grillo. S’è sentita aleggiare l’ipotesi di nuove elezioni in tempi rapidi: è un’ipotesi possibile, certo. Bisognerebbe fare di tutto per scongiurarla, perché sarebbero le elezioni del collasso nazionale.

Toccherà a Giorgio Napolitano affrontare questo groviglio pazzesco. Per certi aspetti potremmo dire che un destino un po’ ingeneroso per il capo dello stato, che per tempo, decine di volte e inutilmente aveva chiesto ai partiti di riformare le regole elettorali. D’altra parte, una riflessione obiettiva va compiuta: il voto di ieri, con quel premio diretto a Grillo e indiretto a Berlusconi, suona anche come sconfessione dell’assetto europeista che Napolitano ha cercato di garantire alla pericolante Italia dal novembre 2011.

Sul Pd e contro il Pd si diranno e scriveranno in queste ore tante cose.
L’arretramento rispetto al 2008 è più consistente di quello che ci sarebbe comunque fisiologicamente stato visto che le coalizioni in campo erano più delle due di allora. Ci sono dati territoriali che fanno male. Ci sono situazioni di crisi che letteralmente non sono state viste, il che è grave per un partito che si dava come obiettivo quello di guardare la gente negli occhi, di tornare coi piedi ben piantati per terra e nei problemi degli italiani.

Ma il Pd di Bersani rimane (almeno, a quest’ora della sera) il primo partito d’Italia. Deve mantenere intatto l’orgoglio e, per quanto difficile, la lucidità. La botta ricevuta significa che le novità sicuramente cercate, e apportate, non sono state sufficienti a convincere tanti italiani che sono in rotta col sistema dei partiti.
I democratici sono feriti ma sono in piedi, possono curarsi.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.