Fatela questa rivoluzione

La lettera di Giorgio Napolitano a Reset su Luigi Einaudi – di cui parla oggi con cognizione di causa Federico Orlando – offre alla discussione interna al Pd una elevata cornice, ideologica nel senso migliore del termine. Da oggi, chi sta nel Pd con idee liberali può sentirsi meno solo. E lo sguardo retrospettivo dell’attuale capo dello stato verso i decenni del rigetto del liberalismo da parte della sinistra italiana non può che incoraggiare a lasciar cadere le ultime timidezze: l’interpretazione del nuovo partito come incontro finale dei cattolici democratici e dei post-marxisti è davvero troppo poco, e non produce una vera cultura riformista moderna.

Ci sono state reazioni negative alla lettera, alcune argomentate e altre frutto di pura e semplice stizza. Se ne capisce bene il motivo. Nessuno si accalorerebbe per la riapertura dell’ennesima disputa storiografica o per un astratto conflitto sulle radici ideali del centrosinistra. Il punto è terribilmente concreto, riguarda l’oggi e il domani della politica italiana, come certo Napolitano aveva ben presente mentre scriveva a Reset (peraltro diversi mesi dopo la sollecitazione ricevuta dal direttore Bosetti). In questo senso, buttarla sulla storia delle idee può essere insidioso.

Dietro una certa opinione corrente nel Pd sul governo Monti (lo appoggiamo, ma noi siamo un’altra cosa e quando governeremo faremo altre cose) c’è infatti un corposo pregiudizio ideologico. Pregiudizio che ha cominciato a sollevarsi anche prima dell’apparire di Monti, non appena s’è capito che dal berlusconismo si rischiava di uscire non “da sinistra” (nella versione tradizionale del termine) bensì con svariate soluzioni più o meno moderate, tecnocratiche, “liberiste” nell’interpretazione più negativa del concetto.

Con queste premesse, sarebbe fin troppo facile vincere la partita interna al Pd richiamando la base a suggestioni di appartenenza e identità: “loro”, i liberali, sono una cosa, “noi” ex socialisti e cattolici democratici siamo un’altra. Dunque le cose che vogliono fare “loro” sono accettabili soltanto in una logica d’emergenza, in attesa di riprendere la giusta via, la “nostra” via verso la giustizia sociale (in genere un sincretismo fra Keynes, encicliche papali e testi sacri del marxismo).

Napolitano conosce bene l’argomento, dunque nella lettera a Reset mette in guardia dall’errore già compiuto di fissare questa alterità fra “noi” e “loro”. Conosce bene però anche i suoi polli (con rispetto parlando) e sa che a buttarla sulle idee generali si facilita il compito di chi preferisce arroccarsi, come infatti puntualmente successo: «Stava nel Pci e pensava che fosse il Pli», gli ha replicato sulla rete Massimo D’Antoni, un economista che scrive sull’Unità.

Allora la lettera a Reset va messa insieme agli altri interventi recenti del presidente della repubblica, che tutti contengono almeno un messaggio diretto al mondo della sinistra sindacale e politica dal quale proviene, e dal quale fatica tanto a farsi capire. Si scopre così che per affrontare l’emergenza italiana, secondo Napolitano, non è neanche necessario spingersi fino alle antiche buone ricette dei liberali alla Einaudi (lotta ai monopoli, minima invadenza dello stato nell’economia, pari opportunità in partenza per chiunque), perché anche chi volesse restare con i piedi e la testa piantati nel proprio percorso identitario dovrebbe riconoscersi fino in fondo nella sfida di questi mesi.

Ecco perché dai discorsi presidenziali spuntano Di Vittorio e il Pci degli anni Settanta, politiche di austerità e di crescita elaborate a sinistra, dalla parte del mondo del lavoro. Grandi leadership politiche e sindacali che non si limitarono a trattare con “gli altri” ma condussero la propria gente fuori dai recinti della tradizione, per proporsi come motori e non freni dell’apertura della società italiana alle nuove stagioni.

Abbiamo letto in più occasioni di un Napolitano stupito delle resistenze democratiche a entrare pienamente nella partita della transizione italiana, con i prezzi che questa partita richiede ma anche il ruolo centrale che garantisce a chi saprà giocarla al meglio. Pare di capire che il vecchio dirigente riformista del Pci, dato atto al Pd di grande senso di responsabilità e generosità, si sarebbe però aspettato maggiore capacità di visione da parte degli eredi della sua stessa storia.

Con l’ottimismo dei primi giorni di un anno nuovo, penso che alla fine il capo dello stato avrà almeno in parte soddisfazione. Non ci si arriverà attraverso revisioni ideologiche (che pure sono importanti per far capire che davvero siamo a un tornante storico), ma nel duro quotidiano confronto con la realtà, che è poi il terreno che un pragmatico come Pier Luigi Bersani pratica meglio.

Avessimo dovuto prestar fede alle apodittiche affermazioni di principio e di teoria economica, non saremmo dove siamo adesso. Muri che sembravano insormontabili e come tali venivano presentati, come il rapido completo passaggio al metodo contributivo per le pensioni, sono stati scavalcati in meno di un mese. Con sofferenze e correzioni, certo, ma oggi nessuno si azzarderebbe a proporre di tornare indietro: il che vorrà dire qualcosa, si dovrà trarre qualche lezione da questo bagno di realtà. Così potrà andare sulla rottura delle incrostazioni corporative e monopolistiche che alterano il mercato; sulla nascita di un contratto di lavoro giusto per tutti e non solo per alcuni; sull’estensione di tutele fuori dalla cerchia dei garantiti di sempre; sulla riscrittura di quel welfare nel quale Napolitano vede tante «degenerazioni parassitarie»; sulla sburocratizzazione della macchina pubblica.

Non sappiamo se alla fine la chiameremo liberale, socialista o semplicemente democratica. È chiaro però che, almeno potenzialmente, quella che abbiamo di fronte è una rivoluzione. E le rivoluzioni è sempre meglio farle che subirle.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.