Dal meno peggio non c’è scampo

C’è questa idea piuttosto popolare secondo cui, quando in un’elezione tutti i candidati lasciano parecchio a desiderare, ci sono due diversi modi di comportarsi. Il primo è pigro e rassegnato: accontentarsi del meno peggio. Il secondo è nobile, coraggioso, e ispirato: svincolarsi da quel ricatto e astenersi o votare un candidato simbolico con nessuna chance di farcela.

Quest’idea, però, si fonda su un equivoco, e cioè che scegliere “il meno peggio” sia una possibile filosofia del voto (e una piuttosto triste, peraltro) e che ci sia invece un’alternativa da considerare. In realtà, il meno peggio è l’unica scelta possibile. Meno peggio vuol dire semplicemente “meglio, ma insoddisfacente”. Però lo scopo del voto non è trovare soddisfazione, ma contribuire a far prevalere l’opzione migliore. Per quanto il candidato meno peggio possa essere lontano dalle nostre aspirazioni, gli altri lo sono certamente di più. E siccome qualcuno sarà eletto comunque, abbiamo solo due alternative: aiutare il migliore (o meno peggio, che dir si voglia) o aiutare quegli altri.

Ho scritto “lo scopo del voto è”, ma ovviamente intendevo “dovrebbe essere”. Molti di noi votano anche per sentirsi bene con se stessi: per aver fatto il proprio dovere, per aver esercitato un importante diritto politico, e per aver fatto una scelta gradevole. Quando le scelte possibili sono tutte spiacevoli, votare il meno peggio è più un dovere che un piacere. Egoisticamente, ci possiamo anche permettere di rifiutare l’offerta: la probabilità che il singolo voto faccia la differenza è talmente minuscola che, se guardiamo solo al nostro interesse personale, votare (o astenersi) per titillare l’ego è probabilmente una scelta razionale.

Basta però intendersi: Non è il nobile atto politico al servizio dei più alti ideali, ma – assai più banalmente – un calcolo narciso e interessato.

L’obiezione dei più ragionevoli spesso è: Astenersi, o votare il candidato simbolico che non potrà mai farcela, manda un segnale forte. Si vuole, insomma, rifiutare la povertà dell’offerta politica per far sì che si arricchisca; negare la propria la complicità a un sistema mediocre; chiedere ai partiti di selezionare persone migliori e di formulare proposte più degne.

Tutte cose buone. Anche questo, però, ha senso solo se è il meno peggio. Cioè se il risultato che si pensa di poter ottenere per il miglioramento dell’offerta politica sia migliore (o meno peggio, insomma) del risultato elettorale che si contribuisce a causare aiutando la vittoria del peggiore.

In teoria è un ragionamento valido. Il peggior candidato potrebbe essere non così tanto peggio del meno peggio, così che una chance anche modesta di influire sull’offerta politica potrebbe valere il prezzo di un voto (indiretto) a favore dei peggiori.

L’importante però è capirsi sul linguaggio e sul calcolo che c’è dietro: Chi segue quella teoria non si sta liberando dal ricatto del meno peggio ma più semplicemente pensa che il meno peggio sia proprio aiutare il peggiore a vincere oggi per avere – forse – qualcuno molto migliore domani. Dipende da quanto peggio è il peggiore, e da quanto probabile è che i partiti accolgano il messaggio di protesta.

Quando però la differenza tra i candidati, seppur tutti parecchio difettosi, è tanta, questo calcolo a lungo termine diventa impraticabile anche per i più ottimisti. Il rischio concreto è di far vincere il peggiore oggi e non avere granché di meglio domani.

In ogni caso, comunque la si pensi, la scarsa qualità dei candidati credibili non basta a giustificare l’astensione o il voto simbolico. Bisogna sempre considerare se i benefici attesi di quella scelta siano davvero maggiori dei costi. Non si scappa dal calcolo delle conseguenze e dalla filosofia del meno peggio. Quando scegliete l’astensione o il voto simbolico, esattamente come quando scegliete un candidato che può vincere, c’è una sola cosa di cui volete assicurarvi: Che si tratti del meno peggio.

Roberto Tallarita

Studia cose tra diritto e economia, ma ha sempre il cruccio della filosofia. Ha vissuto in Sicilia, a Roma, a New York, a Milano; e ora a Cambridge, Massachusetts. Gli piacciono i libri, i paesaggi americani, e le discussioni sui massimi sistemi. Scrive cose che nessuno gli ha richiesto sin dalla più tenera età. Twitter: @r_tallarita