Il Ministero chiude una delle poche carceri in cui si lavora

Sabato 29 settembre il Ministero della Giustizia ha chiuso il carcere di Laureana di Borrello. Una decisione che lascia perplessi. Il carcere di Laureana di Borrello, situato in una delle zone più difficili della Calabria, era una delle poche carceri italiane dove non solo la detenzione era eseguita secondo la legge, ma il lavoro era al centro della pena.

Un trattamento penitenziario che, attraverso il lavoro e l’impegno dei detenuti, raggiungeva un risultato d’eccezione in una regione dove la ‘ndrangheta la fa da padrone. Infatti le persone detenute che scontavano la pena lì raramente tornavano a delinquere. Raramente venivano reclutate dalla criminalità. Il che non è poco. Cifre alla mano, il tasso di recidiva nel carcere di Laureana di Borrello era solo dello 0,5 per cento, mentre sale al 70 per cento nelle altre carceri italiane dove si rimane a oziare in celle sovraffollate per 22 ore al giorno. Insomma, è stato chiuso un carcere dove si rispettava la legge e la Costituzione. Un carcere che, attraverso la pena, produceva sicurezza: restituiva alla società persone detenute migliori e non peggiori.

Se colpisce questa decisione del Ministero della Giustizia, ancora più sorprendente è la motivazione che ha determinato la chiusura del carcere di Laureana di Borrrello. Si legge in una nota del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: «La decisione di chiudere temporaneamente l’istituto di Laureana di Borrello è stata una scelta necessaria per far fronte alla carenza di personale addetto al servizio delle traduzioni». In altre parole: il carcere di Laureana di Borrello, nonostante gli ottimi risultati prodotti, è stato chiuso per recuperare una ventina di agenti della polizia penitenziaria. Agenti che dovranno occuparsi di scortare i detenuti, imputati in alcuni processi in Calabria.

Ora, al di là dello stupore, sorge spontanea una domanda: ma se servivano agenti della Polizia penitenziaria, perché non recuperare quelli imboscati a via Arenula, al Dap e negli uffici del Provveditorato della Calabria? Difficile capire. Come difficile è trovare una minima coerenza tra la chiusura del carcere di Laureana di Borrello e le ripetute dichiarazioni del Ministro della Giustizia, Paola Severino. Ministro che pubblicamente ha solennemente affermato: «il carcere è tortura» ma che poi, chiusa nelle sue stanze, nulla ha fatto per evitare la chiusura di uno tra i pochissimi penitenziari dove la detenzione non è tortura, ma è legalità. Ministro che, all’indomani del terremoto in Emilia, evidenziò la necessità di «far lavorare i detenuti per la ricostruzione in Emilia» e poi è restata inerte (e in silenzio) dinanzi alla chiusura del carcere di Laureana di Borrello, uno delle poche carceri dove il lavoro è al centro dell’esecuzione della pena.

Difficile capire. Difficile sapersi orientare tra dichiarazioni e fatti tanto divergenti. Non ci resta altro che un dato di realtà. Oggi una trentina di giovani detenuti, che stavano cercando di rifarsi una vita onesta, sono stati sbattuti nell’inferno delle carceri calabresi. Giovani detenuti che, attraverso il lavoro, potevano avere un domani migliore e che invece oggi sono a disposizione della criminalità calabrese. Un risultato di cui non si può andar fieri. Anzi.

Riccardo Arena

Riccardo Arena cura la rubrica Radiocarcere in onda il martedì e il giovedì alle 21 su Radio Radicale.