L’ultimo rifugio di Alberto Sordi

Fa ancora uno strano effetto ritrovarsi lì davanti. Oggi. Una volta quando si superava piazzale Numa Pompilio, magari provenendo dall’inferno della Colombo, prima o poi si veniva sfiorati da un pensiero (s)fuggente come il nostro passaggio: “Chissà cosa starà facendo”. Da quando la storia di un italiano si è chiusa tra quelle mura, per qualunque romano la villa che accarezza il declivio di via Druso ha il sapore di un mausoleo. E forse lo diventerà. In ogni caso (ormai) è un monumento. Quello di e per Alberto Sordi.

Non ho amato il regista ma ho venerato l’attore, quello dei tempi del “boom”, quando la commedia italiana odorava di perfezione. E i suoi film erano vestiti in un bianco e nero più luminoso del colore. Di quel periodo d’oro lui fu il re. Tutto era suo. E tutto si prese. Tredici pellicole nel solo 1954 (tra le quali c’erano “L’arte di arrangiarsi” e “Un americano a Roma”). Fu in quegli anni che riuscì a interpretare ritratti virili (“Lo scapolo”, “Il seduttore”, “Il marito, “Il vedovo”), storie vacanziere (“Il conte Max”, “Vacanze d’inverno”, “Costa azzurra”) e insieme capolavori immortali (“I vitelloni”, La grande guerra”, “Tutti a casa”, “Una vita difficile”).

La prima volta che lo vidi avevo vent’anni. Era la mattina di Natale e stavo uscendo di casa con la macchina piena di regali. Lui passeggiava da solo lungo via Denza, a due passi da Villa Glori, nel cuore silenzioso del quartiere Parioli, con il suo cappotto beige, l’aria assorta, lo sguardo fisso, le sopracciglia severe, la bocca buona. C’era il sole quel giorno, l’aria era tiepida e per strada non c’era un’anima. Volevo fermarmi per dirgli qualcosa, ma esitai, un po’ per timidezza, un po’ per discrezione e tirai avanti. Era un giorno di festa, avrei potuto dirgli semplicemente “Auguri”. O “Grazie”. Ma non lo feci. Qualche anno dopo diventai cronista e una volta il direttore del giornale per cui lavoravo, Mario Di Francesco, mi spedì da lui.

Ci incontrammo in un tardo pomeriggio invernale all’Hotel de La Ville, sopra Piazza di Spagna. L’occasione era la presentazione di un libro di Gian Luigi Rondi. Lungo quei saloni quel giorno si trovava tutto il cinema italiano. “C’è una certa aria di famiglia”, disse Vittorio Gassman appena arrivato. E infatti vedendo, tutti insieme appassionatamente, Mario Monicelli, Nino Manfredi, Monica Vitti, i fratelli Taviani, Francesco Rosi, Suso Cecchi D’Amico e Gillo Pontecorvo non si poteva dargli torto. Molti di loro avevano lavorato con Sordi.
Quando lo chiamai, lui spaesato, tra i giornalisti che lo circondavano, rispose voltandosi: “Chi è? Chi sei? Dimmi tutto caro”, con quel suo timbro miagolato, sentito e visto in tanti suoi film. In quel momento capii che Sordi era Sordi. Nessuna storia da lui interpretata sarebbe stata la stessa senza la sua faccia, la sua voce, la sua camminata, il suo indice puntato, i suoi terrorizzati “Oddio chi è?”. Ci tirammo da parte e riuscimmo a parlare a lungo, tra i flash e la confusione di quella giornata.

Il grande assente quel pomeriggio era Fellini, che se ne era andato qualche anno prima. Lui e Sordi si erano conosciuti davanti a una latteria di via Frattina dove si riunivano quelli del “Marc’Aurelio”. Fellini non era ancora Fellini, Sordi faceva già Sordi, ma nel varietà. Divennero inseparabili. “Sai – mi raccontò – lo disse proprio a me che si era innamorato di Giulietta Masina”. Fellini cercava un suo calore del focolare e decise di sposarla, chiedendo all’amico di fargli da testimone di nozze. Sordi naturalmente accettò ma nel giorno fatidico la compagnia per la quale lavorava mise in scena lo spettacolo pomeridiano. E non poté mantenere la promessa. Ma proprio mentre stava introducendo l’orchestra, Sordi vide entrare Federico e Giulietta. “Come me ne accorsi – proseguì – feci accendere le luci e dissi: si è sposato proprio ora il più grande amico mio, io non sono potuto andare al suo matrimonio e allora è venuto lui qui in teatro. Si chiama Federico Fellini, è un grande umorista e un giorno forse sarà un regista. Non so se lo diventerà ma il vostro applauso sarà sicuramente di buon auspicio per lui”. Così quel pomeriggio venni a sapere che era stato proprio Sordi a regalare la prima ovazione al grande maestro. Lui poi lo avrebbe ricambiato con due film: “Lo sceicco bianco” e “I vitelloni”.
Lo salutai quasi abbracciandolo, poi scivolò via. Gli sussurrai istintivamente: “Grazie per quello che hai fatto”, ma non sentì. Annunziata, la fedele assistente che lo aveva sottobraccio, capì e mi sorrise. Lui scomparve tra la folla.

Qualche mese dopo ci ritrovammo e riuscimmo a parlare con calma. Scoprimmo un amore comune, la casa: “Se non fossi diventato attore – mi disse – avrei potuto fare solo l’antiquario”. Mobili, quadri, oggetti: li sceglieva pezzo per pezzo (a via Frattina, d’altro canto, quando Fellini sostava nella famosa latteria, lui frequentava proprio un negozio di antiquariato al suo fianco. Fu così che nacque il loro incontro). Scelse però di fare l’attore e impiegò l’intero tempo che aveva a disposizione per entrare nella testa degli italiani: “Ho lavorato tanto – disse – perché volevo fare film per il pubblico. Ho programmato il mio lavoro, ho seguito l’evoluzione dei costumi. Sono entrato nelle case della gente come padre, figlio, marito o fidanzato. Ho sempre fatto solo l’attore e non ho mai sfruttato la popolarità che mi aveva dato il pubblico per realizzare un prodotto non artistico. Per questo non ho mai fatto la pubblicità”.

Ebbi l’occasione di incontrarlo molte altre volte. Una, epica, al Teatro Parioli, quando con Vittorio Gassman e Monica Vitti si ritrovò a rievocare l’intera storia del cinema italiano. L’ultima proprio tornando a parlare di casa sua, un’abitazione gigantesca e austera, dove gran parte della sua superficie era “dormiente”. Se a Roma lui era il re quello di certo era il suo regno.
Leggeva i copioni che gli mandavano sempre nel suo studio. Sul camino erano poggiati con logica maniacale i premi della sua vita, il Leone d’Oro per “La Grande Guerra”, quello per la carriera, le sei Grolle d’Oro, l’Orso d’Oro di Berlino per “Il diavolo”, i David di Donatello, i Nastri d’Argento. Sopra troneggiava un “Ettore e Andromaca” di De Chirico. Lo incontrò per caso al Caffè Greco. “Sordi ma io è tanto che volevo conoscerla, venga a trovarmi”. Accettò l’invito e il giorno seguente andò nel suo studio in Piazza di Spagna, 31. Da quel giorno si videro abitualmente la mattina per fare delle passeggiate parlando di arte e di vita. Quando il pittore andò a trovarlo e vide i suoi quadri alle pareti chiamò subito la moglie: “Hai visto? Ha comprato i quadri per arredare casa. Non per metterli in una cassetta di sicurezza. È così che si fa!”.
C’era poi l’immensa barberia dove si truccava, la sala cinematografica (nella quale proiettò i suoi film anche a Jack Lemmon e Walter Matthau), la palestra personale al fianco della quale erano raccolti i cimeli provenienti dalle attrezzerie dei suoi set (l’elmetto de “Il vigile”, la bombetta di “Fumo di Londra”, la tuba di “Gastone”, il casco de “I due nemici”). Lo spazio all’aperto accoglieva invece il giardino delle rose, le magnolie, una grande palma e una piscina a forma di bottiglia.

Ai tempi d’oro, quelli di “Una vita difficile” o “La grande guerra”, fu teatro di grandi feste: la Loren, la Magnani, la Lollobrigida, la Mangano, la Vitti erano tra gli invitati, ma anche Ponti, De Laurentis, Fellini o il suo vicino di casa, il musicista Piccioni. Negli ultimi anni ci abitava con la sorella Aurelia, la cuoca Pierina e altre sei persone di servizio. “Per uno come me che ha sacrificato l’intera sua vita per il lavoro la casa è diventato l’unico rifugio – mi confidò – ogni mattina mi affaccio alla finestra e sento che sono nel cuore della città, ma lontano dal suo caos”.
Era uno dei suoi sogni: una casa grande dove poter raccogliere tutti i suoi oggetti, camminare lungo i corridoi e passeggiare in giardino per osservare la natura. La trovò nel 1953, una mattina un amico gliela propose: “Che ne dici di un bel casale davanti a Caracalla?”. Tre livelli, una struttura movimentata, un bel giardino. Da un lato via Druso, dall’altro il Parco Egerio. Era stata progettata da Clemente Busiri Vici, era divenuta poi dimora del gerarca Dino Grandi e, di seguito, “corteggiata” dall’amico Vittorio De Sica. Due ore dopo era sua.

Durante la sua vita comprò altre case, arredandole sempre da solo. La prima fu a Formia, proprio di fronte a Gaeta, la tenne qualche anno poi ne acquistò un’altra a Lignano Pineta. Stava girando “La grande guerra” con Gassman e un comitato del turismo locale propose loro un lotto di terreno gratuito a patto che ci costruissero una casa di vacanza. Gassman rifiutò, Sordi trovò la proposta allettante e divenne la dimora estiva di famiglia. Fino a quando la sorella Savina, nel 1972, si ammalò e vi morì. Non ci tornò più e la vendette. Gli rimase la famosa villa di Castiglioncello, sull’estremo lembo di Punta Righini, a picco sul mare. A casa di Suso Cecchi d’Amico aveva conosciuto la marchesa Memi Strozzi, figlia di un grande ritrattista macchiaiolo dell’Ottocento: “Vorrei vendere la mia casa a qualcuno che la riporti ai fasti di quando era bambina”, gli confidò. “Marchesa, questo qualcuno ce l’ha davanti a lei”, rispose. La rifece da zero, spendendoci una fortuna, arredandola con mobili dell’Ottocento. E ci trascorse estati meravigliose. La casa piaceva tanto anche al fratello Pino. Ma proprio dentro quelle mura, durante una vacanza, un malore improvviso gli fu fatale. E anche in quella dimora estiva, un tempo sinonimo di bei ricordi, Sordi non volle più tornare. Dopo qualche anno, a malincuore, la mise in vendita. Così gli rimase l’ultimo rifugio, quello di Roma.

“Vedi – mi raccontò durante quella giornata – io non mi sono sposato, sono rimasto solo, ho rinunciato a tante distrazioni, ad avventure e ai divertimenti con gli amici perché ho sempre avuto un solo obiettivo in testa. Ho dedicato l’intera mia esistenza a una missione che mi ero prefissato da giovane. È stato un sacrificio per me perché ho considerato il lavoro come unica ragione di vita e per questo non mi sono fatto una famiglia. Ma il pubblico lo ha capito e mi ha apprezzato”. Mi domandavo se fosse davvero appagato. Ne è valsa la pena? Chiesi, facendomi coraggio. “Sicuramente, nonostante le privazioni, sono un uomo realizzato”.
Rincorrendo le sue parole, ai miei occhi appariva ormai come un monaco, rinchiuso nel suo eremo. Eppure da giovane aveva conosciuto la vita mondana e aveva sempre avuto una grande ammirazione per le donne. Per tutta la vita era stato circondato dalla loro presenza. A partire da quella di sua madre “la prima che ha dato un senso alla mia vita”, proseguendo con le sue sorelle, Savina e Aurelia, che avevano vissuto sempre con lui. Sarebbero state loro a consegnargli una compagna di scuola, Annunziata, come segretaria. E poi Maria Ruhle e Paola Comin, agenti e uffici stampa. O Tatiana Mofi la sua eterna montatrice. Sordi aveva avuto molte donne ed era stato sempre corteggiato ma non aveva mai sentito il desiderio di “sistemarsi”. “Forse solo una volta. Con Andreina Pagnani, l’unica donna che avrei potuto sposare”. La loro unione durò nove anni. Poi, complice una scappatella di Sordi, si separarono ma rimase sempre nei suoi ricordi più cari. E quando Sordi seppe che era malata le restò vicino fino alla fine. “Nel suo ultimo giorno di vita, Federico Fellini ed io andammo da lei e ci intrattenemmo per qualche ora, lei capiva tutto e ci parlò serenamente con una voce incredibilmente squillante”. Come se avesse potuto vivere nelle sue parole. Ma al di là di questo legame si sentì sempre un uomo libero. A chi gli chiedeva di sposarsi rispondeva: “Io ce l’ho già una famiglia, da quando sono nato!”. Senza scomodare la sua proverbiale “estranea in casa”. E la Mangano? “Era bellissima – mi rispose con lo sguardo quasi trasognato – ma – tornando in sé – nutrivo per lei solo un’amicizia profonda, ero troppo amico del marito Dino De Laurentiis, al quale sono stato legato per anni anche da contratti di lavoro”.
Mi aveva sempre detto di non sapere cosa fossero i rimpianti. Ma forse uno lo aveva. “Non avere avuto figli mi preclude la possibilità di lasciare la mia eredità, materiale e spirituale, a qualcuno”. L’idea di avere una creatura lo sfiorò, soprattutto negli ultimi anni. “Ci penso spesso anche se ora potrei solo lasciare un biglietto con scritto: qualcuno ti dirà un giorno chi era papà tuo”.

Ci congedammo velocemente e tornando a casa, lo richiamai per quel “grazie” che per un motivo o per l’altro non ero più riuscito a dirgli. Ma riposava.
Il rito della “pennichella” lo aveva ereditato da suo padre. Suonava il basso tuba nell’orchestra del teatro Costanzi e tra prove e spettacoli stava sul palco fino a notte fonda. Il pomeriggio pertanto aveva bisogno di riposare. “A quei tempi per strada dopo pranzo c’era poca sorveglianza – mi disse una volta – per questo mia madre non voleva farmi uscire, così mio padre cercava di far riposare anche a me”. Per riuscirci gli spiegò che quella del riposo era una filosofia “perché il corpo ne ha bisogno, deve però prima trovare una posizione comoda e poi assecondarla, senza pensare a nulla”. Sordi provò, addormentandosi all’istante. “Da allora l’abitudine alla pennichella non mi ha più abbandonato”. Lo ha seguito ovunque, anche sul set: “Durante le pause delle riprese rinuncio al cestino, vado nella roulotte e mi stendo sul lettino. A casa invece posso farlo con tutte le comodità”. E questo era uno di quei momenti.
Ripensai a quante volte tutti noi passandogli a fianco eravamo entrati nel suo pensiero beato: “Quando il pomeriggio dormo sento nel dormiveglia le macchine che passano e penso: Ma n’do vanno?”.
Ci sarà un’altra occasione, mi dissi, illudendomi quasi che Albertone era e sarebbe stato eterno. Dopo quella volta però non lo rividi più. A dicembre fui invitato alla festa del Roma Film Festival in suo onore. Ma lui non si presentò. Stava già male. Per tre mesi rimase chiuso dentro la sua casa. Fino a che, tra quelle mura che tanto amava, una notte ci lasciò.

Pensai a quando disse: “Tanti anni fa avevo sempre la testa rivolta al mio futuro. Ora sono arrivato a un’età in cui non si programma più. Mi rendo conto che sono giunto al limite. Mi accorgo di quanto sia stato stupido possedere sempre più cose terrene che poi non potrò portarmi dietro”. Eppure, ero certo, quella casa così piena di vita avrebbe continuato a parlare di lui anche grazie a tutte quelle “cose terrene” che era riuscito a raccogliere intorno a sè.
Scrissi di getto, per un quotidiano, un pezzo che nei toni era simile a questo. Poi andai in Campidoglio dove era stata aperta la camera ardente. Alle quattro del mattino c’era ancora un mare di gente. Eravamo tutti in fila in silenzio. Ricordo dietro di me il giornalista Gianni Cerqueti, da un lato, appoggiati sulla balaustra, Marco Giallini e Valerio Mastandrea. Avevano lo sguardo nel vuoto.
Quando lo vidi lì sdraiato mi mancò il respiro e non riuscii a pensare a nulla. E solo alla fine, sul libro che era a due passi da lui, finalmente riuscii a scrivergli: “Grazie”.
Finché poi lo vidi passeggiare, libero e immortale, lungo una spiaggia, in mezzo a una folla di anime.

Piero Trellini

Scrive per la Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore e Domani. Ha lavorato per Il Messaggero, il Manifesto, Sky e altri. Collabora con Nuovi Argomenti e Art e Dossier. Scrive serie televisive. Ha pubblicato “La partita” (Mondadori), “Danteide” (Bompiani), “L’Affaire” (Bompiani) e “La partita. Le immagini di Italia-Brasile” (Mondadori).
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