Proposta per il Nobel

Quando ho saputo che il premio Nobel per la letteratura l’avevano dato a Svetlana Aleksievič, ho ripreso in mano il suo ultimo libro tradotto in italiano, Tempo di seconda mano, che avevo cominciato a leggere quand’era uscito, nel 2014, e l’ho riaperto alla pagina alla quale mi ero fermato, pagina 13, e ho ritrovato il punto in cui avevo smesso di leggere, questo qui: «Non finisco mai di meravigliarmi nel constatare fino a che punto le vite delle persone comuni siano in realtà interessanti. Con la loro infinita varietà di cose vissute… La storia è interessata solo ai fatti, e le emozioni ne restano escluse. Non hanno accesso alla grande storia. Io invece guardo il mondo non con gli occhi dello storico ma di chi cerca anzitutto l’uomo e non finisce mai di lasciarsene stupire…» (la traduzione è di Nadia Cicognini e Sergio Rapetti).

Quando avevo letto queste righe m’era tornato in mente una volta, nel 2007, che ero andato a sentir l’Aleksievič a Reggio Emilia, che c’era l’assessore alla cultura di Reggio, con il suo dolcevita e il suo completo in velluto marrone e aveva detto, questo assessore «Dar contezza del contesto». Che io mi ricordo che avevo pensato “Va bene”. Poi era cominciata la presentazione e c’era una traduttrice che era la capa di un’associazione di badanti che lavoravano a Reggio Emilia che il russo lo sapeva benissimo, era russa, l’italiano così così. A un certo punto l’Aleksievič aveva detto che tempo fa in Russia il cibo era più genuino, la traduttrice aveva tradotto che in Russia non c’era più il cibo Giannino. Dopo l’Aleksievič aveva detto che Flaubuert diceva di sé di essere un uomo penna, lei invece era una donna orecchio, la traduttrice aveva tradotto che Flaubert diceva di sé di essere un uomo birro. Poi l’Aleksievič aveva detto che la sua poetica era come quella di Dostoevskij, che voleva sapere quanto di umano c’era nell’uomo, e la traduttrice aveva tradotto che l’Aleksievič voleva sapere quanti uomini ci sono in un uomo. Era stata una serata indimenticabile che io, se avessi dovuto scegliere, il premio Nobel l’avrei dato alla traduttrice, che aveva una lingua meravigliosa.

Anche la cosa delle vite delle persone comuni che sarebbero così interessanti, quella cosa lì che dice l’Aleksievič all’inizio del suo ultimo libro, a me ha fatto venire in mente una cosa che ha scritto Ugo Cornia che fa così: «C’è qualcosa nelle nostre vite singolari, cioè nelle vite che ognuno di noi fa normalmente tutti i giorni, che per sua virtù propria ha il potere di sbalestrare qualsiasi discorso: nei fatti noi, quasi tutti, non siamo altro che delle collezioni ambulanti, una collezione di cose in bilico dove ci sta dentro un po’ di tutto, un po’ di prati, pioppeti, lavori, hobby, nuvole, carriole del nonno, automobili, mamme» (da Sulle tristezze e i ragionamenti, pubblicato da Quodlibet nel 2008). Ecco io, mi rendo conto che è un giudizio un po’ superficiale, ma a giudicare da queste due frasi secondo me il premio Nobel lo merita Ugo. C’è il problema che Ugo è un mio amico, abbiam cominciato a scrivere insieme, e per come son fatto io, che son fatto male, se prendesse il Nobel, io sono sicuro che ci rimango malissimo. Forse è meglio se voto per la traduttrice che non mi ricordo come si chiama ma era la capa delle badanti di Reggio Emilia nel 2007 secondo me si può rintracciare.

(Uscito su Libero)

Paolo Nori

Mi chiamo Paolo Nori, sono nato a Parma, nel 1963, abito a Casalecchio di Reno e scrivo dei libri; l'ultimo si intitola "I russi sono matti" (Utet 2019). Il mio blog è: paolonori.it.