Segesta on my mind
«Ma è normale che una presidente del Consiglio, formalmente a capo del Paese e dunque munita di un pulpito non solo potentissimo, ma delicato e istituzionale, passi il suo tempo a incazzarsi per quello che scrivono i giornalisti?»

Ogni volta che vado in Sicilia mi accorgo di non conoscerla quanto vorrei; poi mi rendo conto che non basterebbero due vite per conoscerla davvero. Dunque la Sicilia è, al tempo stesso, un capo d’accusa (sono ignorante!) e una sentenza di assoluzione: non è colpa mia, è colpa sua. Un po’ quello che diceva Massimo Troisi sui libri: io sono uno a leggere, loro sono milioni a scrivere.
La Sicilia è stata scritta da mani molteplici per almeno trenta secoli, è una stratificazione di culture forse ineguagliabile al mondo, un derivato multiplo dei popoli del Mediterraneo. Li ha raccolti tutti: ai popoli protostorici, sicani e siculi, si sono via via aggiunti i fenici, i greci, i romani, i cartaginesi, gli arabi, i francesi, gli spagnoli; e pure i normanni che l’hanno imbiondita (mio nonno, mezzo palermitano, sembrava Helmut Berger). Metteteci poi, da ultimi, i piemontesi, tirati per la giacca da Garibaldi, non meno stranieri eppure anch’essi, come i precedenti occupanti, presto inclusi in quel corpo polimorfo: i Mille, dopo lo sbarco di Marsala, ingrossarono le fila in un baleno, il potere borbonico, ormai fradicio, non resse l’urto, e come si impara proverbialmente dal Gattopardo, tutto cambiò affinché nulla cambiasse. (Che poi, sarà così vero? Non si direbbe che il Novecento abbia concesso alle élites gattopardesche, nei loro palazzi corrosi dal tempo, di rimanere in sella senza lavorare, come avevano fatto per generazioni. E quanti siciliani di oggi si riconoscono nei loro capitoli precedenti, quanti no?)
Spero che questo mio minimissimo excursus storico sia quasi corretto, perché del tutto corretto, trattandosi della Sicilia, sarebbe impossibile. Insomma, era per dire che in quel grande triangolo ci si sono impigliati tutti, come in una tela di ragno posta al centro del nostro formidabile mare tricontinentale, europeo africano e asiatico. Chissà come si dice melting pot in siculo.
Tre giorni a Marsala (nome arabo, significa “porto di Dio”) hanno felicemente aggravato il complesso di inferiorità culturale che la Sicilia mi incute. Visitando Erice e il parco archeologico di Segesta, nel nordovest dell’isola, in faccia alle Egadi e al tramonto più tramonto che si possa immaginare, mi sono imbattuto negli Élimi, dei quali non sapevo nulla. Erano loro a dominare la Sicilia nordoccidentale due millenni e mezzo orsono. Popolazione di genesi meticcia: forse troiani in fuga da Ilio (dunque anatolici) più gruppi di fenici (levantini mediorientali) più una probabile contaminazione con i sicani indigeni. Su tutto una abbondante spolveratura di cultura magnogreca. Ditemi se il mondo non era un gran casino già allora, anzi allora forse più di adesso. Le cosiddette “identità nazionali” altro non sono, dall’alba dei tempi, che piccole fole consolatorie che ci raccontiamo per non soccombere allo smarrimento e allo spavento che la storia, galoppandoci intorno, ci trasmette. A conti fatti, tutto cambia perché tutto cambi. Nessuna identità fa in tempo a cristallizzarsi: molto prima che accada, il tempo spacca ciò che è intatto e lo ricostruisce diverso, mettendo insieme i cocci. Guerre, migrazioni, epidemie falciano città e popoli. Che poi rigenerano.
Tra le pietre (e i cocci) di Erice e di Segesta si ascoltano storie di distruzione e resurrezione, di conquiste e di fughe. E al tempo stesso, malgrado lo sconquasso, di straordinarie permanenze. Il tempio dorico di Segesta (quinto secolo a.C.), dedicato ad Afrodite, spalancato al cielo fin dalla sua edificazione perché non fu mai completato, è uno spazio architettonico praticamente intatto, e molto emozionante. Posa su un colle circondato solo da prati, vigneti, pascoli, la modernità gli ha risparmiato il suo assedio mediocre, niente di brutto o di dozzinale è visibile attorno. Solamente cielo, terra e pietre.
Nel prato frontestante il tempio tre opere d’arte contemporanea, in bronzo smaltato, sono la sola macchia di colore, allegramente oltraggioso in quel contesto. Il direttore del Parco Archeologico, Luigi Biondo, lavora sodo per contaminare il presente – le scuole, le associazioni, gli artisti – con il passato remoto. Triplicati i visitatori in pochi anni, la memoria vive se sono i vivi che la adoperano. Visitare Segesta con lui e rimanerne contagiati è tutt’uno. Anche il devastante incendio del 2023, che annerì tutto per centinaia di ettari, viene raccontato come una prova della forza vitale di quel luogo fantastico: tutto rinverdì in pochi mesi, racconta Biondo chinandosi con gratitudine sulle calendule in fiore a dicembre.
Sul poggio accanto c’è l’anfiteatro greco. Gli spazi sono immensi, esposti, celesti, verrebbe voglia di passare le ventiquattr’ore seduti nel centro del tempio, o sui gradoni del teatro, per seguire da capo a coda il percorso del Sole e poi decifrare il firmamento notturno (“leggevano la musica nel firmamento”, canta De Gregori). Senza saper volare (Icaro insegna) gli antichi ebbero una sensibilità astronomica oggi impensabile, gli serviva per navigare e per costruire, per non sentirsi mai disorientati. Mettere il cielo per terra, bene ordinato: chissà quanti culti religiosi sono nati da questo desiderio.
Come se non bastassero la fascinosa Erice (anche lei consacrata ad Afrodite) e il parco di Segesta, tra la laguna di Marsala e il mare c’è l’isola di Mozia, sito archeologico valorizzato ai primi del Novecento dall’inglese Joseph Whitaker – già, anche gli inglesi hanno lasciato la loro impronta in Sicilia, come quasi ovunque nel Mediterraneo. Mozia contiene abbondanti tracce di una città fenicia che venne distrutta dai siracusani; i superstiti in fuga fondarono l’odierna Marsala. È lì, tra fichi beniamini enormi e prosperi, che è esposto quello che nello scorso Ok Boomer!, che gli dèi mi perdonino, ho definito “il più bel culo del Mediterraneo” (così me lo avevano propagandato i miei amici siciliani). È il “Giovane di Mozia”, forse un auriga, forse un atleta, forse un dignitario. Per capire che cosa significa “fisico statuario”, andate a Mozia e guardatelo. Uscì da sottoterra nel 1979, riportato alla luce nelle ultime ore di uno scavo che pareva poco significativo, e invece… L’archeologia è una scienza (un mestiere) emozionante come pochi: quasi avvera la resurrezione dei morti.
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In singolare contrasto con il mio umore post-siculo, tutto celeste e bianco, devoto ad Afrodite, agli Élimi e alla nettezza delle forme classiche, domenica ho passato un poco di tempo a interrogarmi, mio malgrado, su un tema molto meno rilevante. Un paio di telefonate mi hanno messo al corrente che Giorgia Meloni, nel suo discorso di chiusura ad Atreju – come sua abitudine piuttosto strillato – ha citato ampiamente una mia recente Amaca, in effetti non devota alla (sua) causa, elevandomi a simbolo della spocchia di sinistra – però, con uno sforzo di fantasia lodevole, non ha detto “radical chic”: miracolo!
Più che spocchioso (episodicamente mi capita di esserlo, ma non in questo caso) mi considero vittima, fino dall’infanzia, di una propensione satirica a volte irresistibile: mi scappa da ridere. E leggendo l’elenco dei partecipanti a quel popoloso raduno, poiché mancavano solo i defunti, mentre i viventi, soprattutto i viventi romani, c’erano quasi tutti, mi è venuto spontaneo scrivere un paio di battute. Ma a parte questo, e a parte il fatto che da domani, anzi già stamattina, tutto sarà dimenticato come merita, la vera domanda da farsi è: ma è normale che una presidente del Consiglio, formalmente a capo del paese e dunque munita di un pulpito non solo potentissimo, ma delicato e istituzionale, passi il suo tempo a incazzarsi per quello che scrivono i giornalisti? Se non sopportano mezza parola che li critica o li prende per i fondelli, perché non si sono scelti un altro mestiere, più appartato, più tranquillo? Che li tuteli dall’oltraggio insopportabile di non essere applauditi a prescindere?
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Tornano le zanzare, dopo due settimane di vacanza. Apre la serie un titolo formalmente impeccabile di Repubblica, edizione di Bologna, che lascia intendere la giusta soddisfazione del titolista nel confezionarlo. Lo segnala Stefano:
SPRUZZANO SPRAY AL PEPERONCINO
DURANTE IL CONCERTO DI ANNA PEPE
Le recenti proteste degli agricoltori greci ci costringono a prendere atto delle straordinarie dimensioni delle macchine agricole di quel paese. Dal sito Freshplaza.it, segnala Paolo Adrea:
FILE DI TRATTORI LUNGHI CHILOMETRI
BLOCCANO LE AUTOSTRADE
Non dai giornali, ma da un cartello di irresistibile comicità involontaria, affisso a Verona e fotografato da Paolo, ci arriva questa notevole variante di un tema classico:
ATTENTI AL CANE!
SI PREGA DI NON SOFFERMARSI DAVANTI ALLA PROPRIETÀ
ISTIGANDO IL CANE CON GESTI E SGUARDI EQUIVOCI
Infine, da VeneziaToday, Chiara ci segnala quello che è senza dubbio il più grave scandalo di tutti i tempi nell’assegnazione degli appalti:
APPALTI SCUOLABUS SEMPRE ALLA STESSA DITTA
VENEZIANA: 1,6 MILIONI DI GARE MANIPOLATE
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Giù in Sicilia il tempo era clemente e tiepido, su al Nord fa freddo ma è il freddo blando degli ultimi inverni: sembra sparito il sottozero e dunque sempre più raro è lo spettacolo della gelata e della galaverna, gli aghi di ghiaccio che a milioni si formano sui prati e sugli alberi, e il mondo sembra di cristallo. L’orto invernale – broccoli, verze, cavolo nero e cavolfiore – prospera, ed è comunque bene attrezzato contro eventuali gelate, non so come faccia per esempio il cavolo nero (forse il mio ortaggio preferito) a rimanere turgido e verde anche quando l’inverno suggerirebbe il contrario. Le brutte notizie che scorrono a rullo nei telegiornali, implacabili, mi costringono spesso a ruotare lo sguardo di novanta gradi e a guardare fuori. Le mangiatoie degli uccellini si svuotano, in inverno, molto più in fretta, devo aggiungere semi e burro prima che si svuotino del tutto. Aggiungerò anche un poco di grasso levato dal brodo. Chissà se Meloni è d’accordo.
Sta arrivando Natale, ce la faremo anche quest’anno a oltrepassarlo senza eccessivi danni. Poi le giornate ricominceranno ad allungarsi. In alto i cuori.




