Ognuno di noi ha il suo “biglietto per Al Bano”
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Ognuno di noi ha il suo “biglietto per Al Bano”
Michele Serra
Martedì 21 marzo 2023

Ognuno di noi ha il suo “biglietto per Al Bano”

(Franco Origlia/Getty Images)
(Franco Origlia/Getty Images)

Sono moralista? Me lo chiedo spesso, ogni volta che qualcosa mi urta nel profondo. Nel caso lo fossi, valuto limiti e inconvenienti del moralismo. Ma anche del suo contrario, che è il cinismo.

Nei primi anni Novanta, quando stavo a Bologna e dirigevo Cuore, il settimanale di satira, il pedagogista e scrittore Antonio Faeti mi disse che il libro Cuore di Edmondo De Amicis, del quale la testata del mio giornale era una parodia beffarda, andava invece difeso perché il sentimento dominante della nostra epoca è il cinismo (cito a memoria, mi scuso con Faeti).

Ai tempi, tra noi giovanotti anticonformisti o convinti di essere tali, si citava molto l’elogio di Franti di Umberto Eco (è in Diario Minimo), testo anti-moralista tra i più acuti e divertenti che sia dato leggere. Franti, per chi non lo sapesse, è il “cattivo” del romanzo di De Amicis, l’alunno malvagio che ridacchia anche di fronte ai mutilati di guerra meritandosi l’esecrazione dell’autore nella celebre, lapidaria frase “e l’infame sorrise”. Eco lo rivalutò come figura quasi rivoluzionaria: Franti si ribellava al sentimentalismo patriottardo del libro. Sorrideva, l’infame, per non soccombere alla retorica strappalacrime che tracimava da ogni rigo.

Questo prologhetto è per dire che entrambe le avvertenze – quella anti-cinica di Faeti, quella anti-moralista di Eco – bisogna portarsele appresso, quando si scrive per mestiere, e più in generale quando si prova a ragionare su quello che ci circonda. L’anti-moralismo aiuta a non metterla giù troppo dura, a non tuonare maledizioni, a dubitare dei pulpiti, dei Savonarola, delle auree certezze e delle immacolate purezze. La detestabile etichetta giornalistica “duri e puri” – chi diavolo l’avrà inventata? – in genere non indica persone con le quali sarebbe piacevole uscire a cena.

L’altro antivirus che bisogna attivare è però il segnalatore di cinismo. Quando più niente ti disgusta, o ti fa incazzare, e tutto ti sembra normalmente orribile senza che valga la pena preoccuparsene, sei un morto che cammina. Dunque saluto con un certo sollievo le volte che ancora mi accendo. Poi il fuoco va governato e ben regolato – per non diventare un rogo purificatore, o una fiammella buona per un brodino riscaldato – ma intanto un po’ di fiamma rincuora. E riscalda l’anima.

L’ultima volta che mi sono messo a scrivere per dare sfogo a uno stato d’animo piuttosto acceso è stata pochi giorni fa, grazie a una notiziola che forse vi sarà sfuggita, forse no. La notiziola è questa: per fare pubblicità a una nuova catena di fast food, finanziata da un riccone di Bologna molto famoso su Instagram, un grosso pupazzo ha distribuito preservativi e cartine lunghe per rollare davanti a una scuola media romana. Se cercate in rete “Patatina gratis” (era l’elegante slogan dell’iniziativa) trovate qualche cronaca dell’accaduto.

Come era normale e forse anche giusto che accadesse, gli insegnanti e i genitori dei ragazzini (dagli 11 ai 14 anni) se la sono presa per i preservativi, per le cartine lunghe e per la patatina. Quello che invece mi ha colpito di più – ognuno è suscettibile a modo suo – è che l’adescamento di minori davanti alla loro scuola non avesse alcun movente “politico” (tipo cannabis libera), ma fosse a scopo commerciale. In un’Amaca – è il nome della mia storica rubrica su Repubblica – piuttosto iraconda, intitolata Lucignolo a Roma e uscita il 16 marzo, concludevo così: «Quel pupazzo adesca i ragazzini, come Lucignolo, per farli diventare asini come lui. Asini non perché, nella preadolescenza, già possano essere sensibili al sesso, o alle canne, ma perché già così presto possono diventare una precoce clientela, alimentare fatturati e cominciare a contare i soldi, come gli adulti gretti e stronzi che in loro vedono solamente limoni da spremere. Vedete come sono vecchio: considero più oscena la pubblicità dei preservativi».

Aggiungo che poche cose mi mettono tristezza, e sgomento, come le risse oceaniche in occasione del lancio di nuovi prodotti, o dell’apertura di punti vendita molto ambiti e presi d’assalto a gomitate. Quei greggi impazziti, pecore che si calpestano a vicenda, sono uno spettacolo terrificante di asservimento, di umanità all’ammasso. Nei negozi entro più volentieri quando sono poco affollati. Snobismo? Non credo. Visto che essere consumatori è un destino comune, meglio cercare di esserlo con dignità.

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È in corso con voi lettori, innescata da una lettera del ventiquattrenne Alberto, una discussione che intitolerei “perché non possiamo rientrare in gabbia”. Sottotitolo: “Abbiamo perduto molte certezze e infranto molte regole e ci sentiamo disorientati, ma la soluzione non è tornare al vecchio ordine”.
Questa settimana pubblico la breve e anche per questo molto efficace lettera di Debbonz (Debora, suppongo) che ci richiama a un punto di vista imprescindibile: quello di chi, quando si è rotta la gabbia, non aveva niente da perdere.

“Non posso nemmeno immaginare di tornare alle gabbie. Sono una donna e tutta questa nostra libertà conquistata ancora mi eccita e mi esalta. Ne vedo i progressi su mia figlia di 17 anni e sulla sua fiducia di un proprio futuro libero e aperto. Aperto alla carriera oppure no, al matrimonio oppure no, ai figli oppure no. Non ho nessuna nostalgia del passato, in quanto femmina. So che c’è ancora molto da fare, ma mi compiaccio di quanto è stato ottenuto per merito di tutti noi, maschi progressisti compresi – che ne ho sposato uno. Capisco che la Fallaci nel suo ultimo periodo non fosse proprio una campionessa di equilibrio, ma comprendo anche che se la cultura occidentale perderà il suo primato, le prime a farci i conti saranno soprattutto le donne. Abbiamo fatto troppa fatica e sacrificato così tanto per poterci permettere dei cedimenti. Viva la libertà! Ci rende spesso incerti e fragili, ma là sta la nostra stessa forza”.
Debbonz

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Grazie anche ai lettori che hanno accolto il mio appello “basta con i massimi sistemi, aiutatemi a parlare anche di fesserie”. Nel piccolo drappello di soccorritori, mi sembra insuperabile il contributo di Manuela:

“Caro Serra, siccome voglio farti felice rispondo al tuo appello con una domanda stupida e futile insieme. Vorrei che tu mi spiegassi perché ho comperato i biglietti per andare a sentire Albano. Sono laureata, faccio la bibliotecaria, leggo, vado all’opera, vado a teatro (ti ho appena visto a Bologna), sono abbonata al Post: eppure ho comperato un biglietto per Albano (“l’uomo ha distrutto i dinosauri, fermerà anche il coronavirus”). In me un misto di vergognosa felicità all’idea di sentirlo cantare, di godere dei suoi improbabili acuti. Mi dica dottore?”
Manuela

Cara Manuela, non è grave. Ognuno di noi coltiva una serie di passatempi minori, fondamentali per non soccombere allo sforzo (vano) di sembrare sempre intelligenti. Le persone ossessionate dal “livello alto” sono in genere molto insicure. Chi ogni tanto sbraca lo fa perché non si ritiene in obbligo di dimostrare sempre qualcosa a qualcuno.

Venendo al caso specifico, Al Bano – mi raccomando, due parole separate –  è il canone assoluto (tra i viventi) del belcanto all’italiana nella sua versione più popolare e paesana. È un Bocelli che non si offende se lo invitano alla sagra della salsiccia e non al Metropolitan, dunque è un Bocelli risolto, inequivoco. I suoi duetti con Romina furono un capolavoro assoluto del kitsch nazionale, nemmeno i Ricchi e Poveri, secondo me, possono competere. Nel suo campo, Al Bano è un fuoriclasse, ultimamente perfezionato dal cappello bianco che fa molto Little Italy.

Ognuno di noi ha un suo “biglietto per Al Bano”. Invito i lettori a segnalare il loro. Il mio, per esempio, è una passione smodata per le automobili sportive più appariscenti e burine, quelle alla guida delle quali non vorresti mai essere visto dai tuoi amici. Per fortuna sono anche le più costose, dunque non posso permettermele e questo mi aiuta molto a sembrare una persona di buon gusto.

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Forse non erano oche selvatiche, erano gru. Un paio di lettori mi hanno scritto che le sontuose formazioni “a V” che ai primi di marzo hanno sorvolato l’Appennino nordoccidentale (piacentino e pavese) sono con ogni probabilità gru. Migliaia di gru provenienti dall’Africa e dirette verso il Nord Europa. Il puntiglioso servizio di fact-checking del Post viene parzialmente in mio soccorso: pare che il periodo di migrazione e le rotte percorse da oche selvatiche e gru siano coincidenti, e dunque potrebbe trattarsi delle une e delle altre (i sorvoli sono durati diversi giorni).

A entrambe le tribù di volatili porgo comunque la mia gratitudine, vedersi passare sopra la testa, all’andata e al ritorno, quei popoli pennuti così disciplinati, e così potenti, per me è uno dei momenti più belli dell’anno.