Non per soldi
«Non è lecito immaginare che queste masse di elettori siano così sprovvedute, così all’oscuro della realtà in cui tutti viviamo, da votare serenamente per chi li affama, li licenzia, li considera zavorra sociale»

Il ritiro dalla politica di Elon Musk (il tecno-stallone: le fonti più aggiornate lo danno padre di 14 figli ottenuti con procedimenti svariati, tra i quali non stupirebbe scoprire l’inseminazione orbitale o via mail. Ma questa è una mia digressione quasi sleale, perché è di tutt’altro che voglio parlare). Il ritiro dalla politica di Elon Musk, dicevo, ha rimesso in circolazione nella mia testa una domanda ricorrente da un paio di decenni a questa parte. In estrema sintesi: perché tanti poveri votano per la destra politica, a fronte di zero provvedimenti della medesima in loro favore, e anzi – vedi Musk e il suo per fortuna breve operato con il DOGE – di drastiche riduzioni delle tutele sociali e dei servizi pubblici? Adesso provo a formulare più per esteso la domanda.
Prendiamo per buona l’ipotesi che “la sinistra” (termine indicativo e di comodo) abbia perduto smalto, e voti, perché ha tradito la sua funzione storica di difesa dei lavoratori salariati e, in generale, dei ceti popolari. Oppure che quella funzione storica l’abbia, diciamo così, esaurita nel corso del Novecento, guidando dentro la Polis il proletariato, le donne e tutti coloro che prima non erano rappresentati, come i “cafoni” che Di Vittorio convinse a studiare e portare il cappello proprio come i signori, trasformandoli in attori politici, non più spettatori del potere altrui; e adesso, finita quella storia nitida e gloriosa, non sappia più che fare di se stessa, e sia davvero, come dicono i suoi detrattori, smarrita dentro le Ztl, a occuparsi troppo poco di salari e troppo di Lgbtqi+ e ulteriori lettere dell’alfabeto in arrivo. E che, di conseguenza, parte dei ceti popolari si rivolga alla “destra” (termine indicativo e di comodo) diciamo così “per vendetta”, per voltare le spalle a chi le ha voltate a loro; e per cercare nuove difese, nuove rappresentanze.
Bene. Per quanto esteso e grave sia il fenomeno della disinformazione, non è lecito immaginare che queste masse di elettori siano così sprovvedute, così all’oscuro della realtà in cui tutti viviamo, da votare serenamente per chi li affama, li licenzia, li considera zavorra sociale. E da non sapere – per fare l’esempio più eclatante – che votando Trump hanno insediato alla Casa Bianca un governo di miliardari ultraliberisti, nemici del Welfare. Una parte di quell’elettorato “povero” magari non avrà contezza della politica economica dell’amministrazione Trump; ma una parte sì, sia pure per sommi capi non può non averla; e vedendo alla Casa Bianca una parata di nababbi, di monopolisti, tutti maschi bianchi, forse il più grande comitato d’affari mai visto al mondo dai tempi della Compagnia delle Indie, brindare felici, come possono sentirsi rappresentati socialmente quegli operai, contadini, sottoccupati americani che abitano così lontano dai grattacieli e dalle luci delle grandi città?
Con tutte le incertezze e i dubbi del caso, vi do una delle risposte possibili (comunque, la mia). Penso che una lettura solo economica della politica non basti per metterla a fuoco. Ci sono componenti sentimentali, culturali, psicologiche, ideologiche che pesano tanto quanto. Il fenomeno “poveri che votano per i ricchi” si sottrae, per definizione, a una spiegazione fondata sulla convenienza economica – nessuno è così stupido e così privo di dignità da pensare che l’eventuale obolo dei signori sia più vantaggioso e sicuro del Welfare.
Se si vota per la destra populista, è soprattutto per una necessità ideologica. Nel disordine, nel mutamento, nella confusione, “tornare alle buone vecchie cose di una volta” consola e rassicura, è una luce nelle tenebre, e poco importa che le buone vecchie cose di una volta non fossero poi così buone. Dio, Patria, Famiglia, i valori tradizionali, il passato così come la memoria – tradendoci – ce lo consegna, migliore di oggi, più sicuro di oggi, più protettivo di oggi. È questo, credo, il nocciolo del successo della destra reazionaria: avere una fisionomia reazionaria, una parlata reazionaria, una struttura culturale reazionaria, che soddisfa pienamente il suo pubblico, e pazienza se dietro la facciata iper-tradizionalista avvengono le grandi manovre per il controllo tecno-plutocratico del pianeta. “In fondo, è stato sempre così, i ricchi si fanno gli affari loro”, pensa guidando il suo pickup l’elettore di Trump. Ed è uno dei tanti “è sempre stato così” che costa troppa fatica analizzare e contraddire. Per lui è più importante, più gratificante sapere che studenti e professori di Harvard, con tutte quelle fisime sul sesso e sui diritti, tutta quella promiscuità con gente straniera, tutto quel parlare difficile, finalmente devono chiudere il becco. Perché al potere, adesso, c’è lui, non loro.
E la sinistra? Beh, se è vero che la domanda, sul mercato della politica, non è solo economica, è anche ideologica, allora la sinistra non deve avere paura di tornare a essere fieramente ideologica, che non vuole dire, per carità, dogmatica; vuol dire avere idee sul mondo e sulla società, e articolarle bene, in maniera da renderle comprensibili anche alle persone semplici. Quando il rettore di Harvard parla della comunità universitaria “che viene da tutto il mondo”, e un boato commosso accoglie queste semplicissime parole; quando aggiunge che “qui avete imparato a considerare la curiosità una condizione in cui vivere”, ecco, in poche parole ha detto forse le due cose fondamentali che i progressisti, da sempre, e tanto più adesso, hanno da contrapporre ai reazionari: il cosmopolitismo, che è il contrario del nazionalismo, e la curiosità per le cose che cambiano, che è il contrario della paura che le cose cambino. Bene anzi benissimo battersi per salari decenti (quelli italiani sono indecenti) e per il Welfare. Ma battersi per il futuro, e contro il feticismo del passato che è la bandiera dei reazionari, è almeno altrettanto importante. Trump contro Harvard, e viceversa, è un caso di scuola, e sapere da che parte stare non è banale tifo politico. È proprio una maniera di vedere il mondo, e di stare al mondo.
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Chiude tra pochi giorni la mostra di Achille Mauri alla fondazione Kenta, in via Sassetti a Milano, un grande spazio scabro e vuoto che fu una fabbrica di filati. (Ma quanti saranno, a Milano, gli spazi industriali e le officine dismesse? Migliaia? Milioni? Vederli inerti, e poi riempiti di nuove attività e nuova umanità, è sempre una delle migliori conferme del detto “la vita continua”. Quel tanto di museale e di cadaverico che incombe in quei grandi volumi vuoti fa in fretta a diradarsi; rumori diversi, per ragioni diverse, cancellano il silenzio post-industriale).
È una mostra allegra e non so se sia un termine ortodosso, “allegro”, in sede d’arte. È qualcosa, l’arte contemporanea, che mi piace molto ma non conosco abbastanza, ne parlo sempre con timidezza. In ogni modo Achille Mauri, che se ne è andato nel ’23 ed è stato uno dei più attivi e irrequieti editori italiani (editore, organizzatore culturale, disegnatore, fotografo, scrittore, artista), ha lasciato migliaia di disegni, fotografie, oggetti, sculture che Francesca Alfano Miglietti, la curatrice, ha trasformato in una specie di smisurato mosaico coloratissimo. Il numero pullulante di figure ricorda, all’impatto, certe pareti delle scuole primarie ricoperte dei disegni dei bambini. Anche Achille Mauri, quanto a freschezza, quanto a energia, è stato bambino fino alla fine.
Fanno spicco i cavalli e i gaucho della sua amata Argentina (terra di sua moglie Diana), ripetuti quasi all’infinito, un popolo mezzo equino mezzo umano che fronteggia la solitudine e i grandi spazi senza paura, senza scoramento. Allegria e coraggio, amore per la vita, voglia di conoscere e di sperimentare, Achille, nella sua grande famiglia e nei tanti che lo hanno conosciuto, ha lasciato una traccia contagiosa e quasi festosa. Ricordarsi di lui non è mai triste.
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Non sempre sono la fretta o l’approssimazione o l’enfasi mediatica a creare Zanzare Mostruose, ovvero titoli che fanno sorridere o proprio ridere. A volte è l’andazzo dei tempi a costruire i suoi piccoli “mostri”. Per esempio questo titolo del Fatto Quotidiano, segnalato da Franco, fa riflettere su quanto sia dilatata, oggidì, la giovinezza; e nonostante questo immutati i ruoli familiari.
IL FIGLIO SNIFFA COCAINA E LA MADRE LO PRENDE
A SCHIAFFI, PUGNI E BASTONATE: 54ENNE IN OSPEDALE
Il 54enne è il figlio, complimenti alla vecchia madre, se non per i sistemi pedagogici, per l’invidiabile vigore fisico. Restiamo in ambito “viuuulenza!”, come diceva Abatantuono, con questo magnifico sommario da La Provincia Unica, scovato da Renato:
IN PIAZZA GARIBALDI A SONDRIO I MILITI SONO STATI AFFRONTATI
DA UN UOMO IN STATO DI ALTERAZIONE PSICOSOMATICA
Chissà che terribile esperienza, anche esteticamente, avere a che fare con una persona in piena alterazione psicosomatica.
Causa mancanza di virgola o altra cesura tra una parola e l’altra, Dario ha trovato su Repubblica on line questo grave caso di slealtà sportiva: due contro uno, una vergogna per il tennis italiano.
ROLAND GARROS, IN CAMPO PAOLINI E GIGANTE CONTRO SHELTON
I numeri romani non sono maneggevoli. Io stesso sono stato corretto dall’ex direttore, un paio di volte, per avere scritto sbadatamente che il quotidiano di Genova è il Secolo IXX, mentre è, con ogni evidenza, il Secolo XIX. Qui di seguito un altro esempio di numerazione romana fuori controllo. Lo segnala Stefano dalla Gazzetta di Mantova:
LEONE XIX, C’È TROPPA VIOLENZA
EDUCHIAMO I GIOVANI AL RISPETTO
Si solleva il dubbio: Leone diciannovesimo è un papa del futuro, in anticipo di un paio di secoli, o una promozione sul campo dell’attuale pontefice?
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È arrivato il caldo, ma un caldo “normale”, piacevole, speriamo non soccomba troppo presto alle solite canicole opprimenti che ci infligge l’implacabile anticiclone africano. Per chi fosse davvero interessato alle mie faccende agricole, o così gentile da non farmi pesare troppo che io le racconti, aggiorno la situazione del mio maggengo, ovvero del primo taglio d’erba di stagione, molto ritardato dalle piogge abbondanti di questa primavera. La tagliatrice finalmente ha tagliato, poi è passata la sparpagliatrice, dopo di lei la ranghinatrice e proprio mentre vi scrivo vedo la macchina imballatrice che fa le rotoballe. Sono quattro fasi, ovviamente tutte meccanizzate: tagliare (sfalciatura); dopo un paio di giorni stendere bene l’erba ormai semi secca rivoltandola per farla asciugare tutta quanta (sparpagliatura); sistemarla in lunghe file ordinate (ranghinatura, ovvero sistemazione del fieno in ranghi paralleli); infine confezionare l’erba bene asciutta in grandi rotoballe che pesano dai quattro ai cinque quintali l’una.
È la fienagione, che i nostri avi facevano a mano, falci per tagliare interi campi e forcali a tre o quattro denti per raccogliere l’erba, montarla sui carri e accumularla attorno a lunghi pali verticali, per formare i covoni. Oppure, una volta bene asciutta, ricoverarla direttamente nei pagliai (o fienili), in genere nella parte alta e riparata delle stalle. Il pagliaio era sede di infiniti giochi per bambini e per grandi, alcova più o meno clandestina, ricovero per vagabondi in cerca di un nido, eccetera. Un luogo importante, insomma. Ora i pagliai si vedono solo nei film e in fotografia, le rotoballe (che servono per alimentare il bestiame) sono un sistema di stoccaggio e di trasporto molto più pratico.
La meccanizzazione, timidamente prima della Seconda Guerra mondiale, con velocità galoppante dagli anni Cinquanta in poi, ha enormemente ridotto la fatica tremenda del lavoro nei campi. Chissà se qualcuno ha mai tentato di calcolare il rapporto tra la forza di lavoro delle braccia umane e quella delle macchine agricole: uno a cento? Cioè, cento uomini per tagliare un campo che oggi una sola macchina taglia in poche ore? Dicevo più sopra: curiosità e fede nel progresso sono qualità, lo dice la parola stessa, progressiste. La rotoballa che svetta nel campo rasato, l’avessero vista i nostri avi, sarebbe sembrata un’astronave scesa a liberare gli uomini dalle catene della fatica. E avrebbero pensato: in alto i cuori!
P.S. – Vado a votare per i cinque referendum. Perché fare numero è meglio che non farlo.




