Milano è mobile
«È la mia città e ho imparato a sopportare i suoi difetti valutando i suoi meriti. Dietro la vetrina modaiola ci sono botteghe operose, scintille ingegnose, disegnatori dallo sguardo aperto, sarte prodigiose, modelle sfinite, venditori abilissimi, viaggiatori instancabili»

C’è il Salone del Mobile. Milano sfavilla, anche troppo, e si ammanta al tempo stesso di frivolezza e di sostanza, di ghingheri e di lavoro. È la mia città e ho imparato a sopportare i suoi difetti valutando i suoi meriti. Dietro la vetrina modaiola ci sono botteghe operose, scintille ingegnose, disegnatori dallo sguardo aperto, sarte prodigiose, modelle sfinite, venditori abilissimi, viaggiatori instancabili. E montagne di lavoro manuale, come sappiamo non sempre di limpido assetto, e con la globalizzazione ancora meno.
L’ambizione milanese al glamour, l’estrema disponibilità a mode e tendenze anche minime, anche frivole, le bicchierate eleganti in cortili elegantissimi con la Bubi la Pupi la Vivi la Chichi, mi hanno ispirato un bel po’ di satira, su Cuore e sull’Espresso. Questa è del ’98, e prende spunto da una Settimana della Moda o giù di lì.
Maggio, Milano piace
perché varia il copione:
un memorial Versace
un Museo del Bottone.
Elton John civettuolo
canta pizze da asporto
con la rosa o il cetriolo
a seconda del morto.
Krizia allo spazio Krizia
Armani nell’Emporio
danno un’impronta egizia
a quel grande obitorio.
Piuttosto acre, direi. Ma oggi mi sento di ottimo umore e ripesco, dallo stesso repertorio e più o meno da quegli stessi anni, questa allegra satira sui ristoranti milanesi di tendenza. Fa spicco, quasi un quarto di secolo dopo, la mia disinvoltura vintage nell’affrontare l’argomento etnico. Con il senno di poi: non si dice esquimese, si dice inuit.
“La moda dei ristoranti etnici e della cucina fusion sta dilagando in tutta Italia ma specialmente a Milano, città da sempre entusiasta di sperimentare. I ristoranti giapponesi sotto la Madunina sono ormai più numerosi dei semafori, i take-away di sushi fanno affari d’oro e l’uso maldestro delle bacchette è diventata la prima causa di incidente domestico. Ma vediamo quali sono i locali che fanno tendenza.
Amaghi Sinto Kale Misturi Club – È il più raffinato e costoso tra i ristoranti giapponesi di Milano. Se ne dicono mirabilie, ma è ancora in attesa dei primi clienti a causa della grande difficoltà di ricordarsi il nome per la prenotazione.
Kikkule – Il primo ristorante di cucina esquimese è stato aperto sui Navigli da Yurk e Bark, una giovane coppia di cacciatori di foche. Lui ai tavoli, lei in cucina, anche se è impossibile distinguerli. Ci si va soprattutto per assaggiare lo stoccafisso alla fiocina, ma vanno forte anche il carpaccio di tricheco, l’insalata di licheni con peli di tricheco e il rarissimo stinco di tricheco. Tutti i cibi sono marinati a lungo in aceto di mele, e anche i clienti, prima di uscire, devono essere sottoposti allo stesso trattamento per levare il fortissimo odore di tricheco. Belli gli arredi hi-tech dell’architetto milanese Edo Minutelli: grossi ganci da pescheria che scendono dal soffitto, ai quali vengono appesi gli sgabelli per i clienti. Si mangia tutti insieme, secondo l’uso esquimese, mentre in diffusione si possono ascoltare le nenie della Terra di Bering.
Bongo Café – Un locale di cucina congolese in pieno centro di Milano, a due passi dalla City. Un’idea del genere poteva venire solo a Kiko Figurelli, l’architetto milanese che sognava da sempre un tocco congolese nel cuore della sua città. Ed ecco il Bongo Café, con personale esclusivamente africano, tranne i suonatori di tamtam che sono ex orchestrali della Rai disoccupati. Originalissimo l’happy-hour a base di tartine di antilope, che viene macellata sul posto tra le suggestive urla rituali del personale. Buono il salame di pitone, interminabile al taglio.
Agli antipodi – Nato dall’appassionata fantasia del designer milanese Miro Fumagalli, questo ristorante neozelandese è un’esperienza imperdibile per gli appassionati del mare, che si ritroveranno in un ambiente tipico, tra reti da pesca, arpioni, aragoste di plastica e lampare. A prima vista sembra di essere in un qualunque ristorante ligure di bassa qualità, ma è solo un’impressione. La Nuova Zelanda, spiega ai clienti il patron Geno Fumagalli, fratello di Miro, è identica a Spotorno, anche nei sapori e nelle atmosfere. Imperdibili le trenette al pesto.
Mish-mash – Il Mish-mash è il vero e proprio tempio della cucina fusion. Il massimo dell’audacia global e della sperimentazione senza frontiere. Il proprietario è un franco-vietnamita, il cuoco è egiziano, l’aiuto-cuoco canadese, le ricette turche, la carne è argentina, i camerieri sono ominidi della Galassia di Oberon, la cassiera è una ex battona del porto di Amburgo scelta perché è la sola che riesce a mantenere la disciplina. Al Mish-mash non sai mai quello che puoi mangiare, il menù cambia ogni sera a seconda di quale delle etnie presenti è riuscita a sopraffare le altre e impossessarsi dei fornelli. Interessanti gli arredi dell’architetto milanese Dado Canobini: panchine in plexiglas fluorescenti che occupano l’intero locale, compresi i bagni. Meglio portarsi da casa un tavolino pieghevole se si vuole appoggiare il piatto.
Sushi ‘al binario’ – Da un’intuizione geniale dell’architetto milanese Gugo Misuretti, è il primo take-away che porta rotolini di sushi in tutta la città su un sistema di nastri trasportatori molto ramificato. Unico inconveniente, l’assalto dei topi durante il percorso sotterraneo del sushi, e quello dei piccioni durante il tragitto all’aria aperta. È molto glamour, nella Milano più spigliata e dinamica, quella della moda e della pubblicità, riuscire a individuare un pezzo di sushi intatto lungo i nastri trasportatori che percorrono ogni quartiere, e inghiottirlo in un boccone pagandolo 30 euro a pezzo”.
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La vita è sempre piena di sorprese, e a 70 anni suonati mi è capitato (“new experience!”, direbbe il banner pubblicitario di qualunque prodotto) di attraversare il centro di una città accompagnato dalla Digos. Tre agenti, due uomini e una donna, conversazione piacevole e interessante, ho avuto la netta impressione che il giovane dirigente che mi stava al fianco, sulla situazione politica e sulle tensioni sociali in corso, fosse molto più informato di molti esponenti politici nazionali, specie quelli che se ne stanno tappati in parlamento. Quando dici: lo Stato funziona molto meglio della politica, dici proprio questo.
Ero un poco in imbarazzo, come quella volta, a Milano, che chiamai i pompieri temendo un grave allagamento del condominio e invece era solo l’impianto di irrigazione di un balcone che si era rotto, e la cascatella d’acqua non meritava tanto allarme. Furono gentilissimi: mi salutarono dicendo “meglio un eccesso di allarme che fare finta di niente”.
Nel caso della Digos non ero stato io, a chiamare: ma si trattava comunque di una cascatella. Un paio di ragazze, scortate da un paio di vecchi militanti molto maldisposti nei confronti del mondo, avevano appena interrotto la presentazione di un mio libro in Sala Borsa, che si affaccia su piazza Maggiore, a Bologna. Mi hanno strillato: tu organizzi manifestazioni per il riarmo!, io ho risposto (strillando a mia volta): non organizzo manifestazioni per il riarmo!, il pubblico presente ha detto alle ragazze (strillando) “piantatela”, “smettete di dire stupidaggini” e anche cose molto meno gentili, ed è finita lì. Piccolo remake di un copione insensato e violento (dunque, non pacifista) il cui ingrediente principale sono le bugie scritte da tre o quattro vecchi imbroglioni sui loro giornali e account social. Bastano poche gocce di polonio per avvelenare i pozzi, e molte persone, a esclusivo danno della loro intelligenza, si abbeverano a quell’acqua.
A cose fatte, e a strilli conclusi, mi è rimasto dentro un tragico senso del ridicolo. Ho pensato che la vera differenza tra una persona ordinaria e un fanatico è che la persona ordinaria, quando strilla, si sente ridicola. E si imbarazza. Il fanatico invece, quando strilla, si sente nel suo ruolo, e dopo se ne torna a casa contento. Ho anche pensato che se qualcuno dovesse mai pagare il costo dell’intervento della Digos, che si è scomodata per pochi strilli a vanvera, sono i tre o quattro vecchi imbroglioni.
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Le mie considerazioni sul senso del limite (è necessario, vitale: ma non impedirà di sognare qualcosa di diverso?) hanno avuto un buon seguito di mail. Prevale nettamente un’idea positiva del concetto di limite, cosa che non sorprende: i lettori del Post, presi un poco all’ingrosso, sembrano gente di solido realismo, e mi sarei stupito di essere inondato di mail che invocano la rivoluzione entro domani mattina.
Apro la serie con le parole di Laura perché condivido molto la sua idea che il solo campo nel quale i violatori del limite (i visionari, gli irriducibili, gli esagerati) hanno buon gioco, e piena cittadinanza, sia l’arte. L’estremismo, in arte, si chiama avanguardia. In politica si chiama appropriazione indebita di idee e speranze che sarebbero di tutti, fino a che gli estremisti non le privatizzano. Pensate a una piazza di diecimila persone nella quale ne bastano cento per distruggere tutto, requisire i titoli dei giornali e cancellare, nel frastuono, le ragioni di quella piazza.
“Sognare un mondo più giusto fa parte di ogni età della vita, ma non significa travalicare i limiti, bensì lavorare dentro il solco della realtà, nel rispetto e per il rispetto di tutti. Costruire questa trama è un compito lento, faticoso, fatto spesso di frustrazioni più che soddisfazioni, di compromessi e di grande attenzione, forse anche noioso, mai più finito; delicato come maneggiare una porcellana finissima, che si può scheggiare o rompere alla minima distrazione.
Si dice sempre che fa più rumore l’albero che cade della foresta che cresce. Sono d’accordo. Se il mio sogno contempla dignità e giustizia per le vite altrui è un conto, ma quando riguarda solo me stesso e ciò che gira intorno al mio ombelico sicuramente, all’alba, si trasformerà in incubo. Spesso succede che proprio i visionari, in nome di una libertà senza limiti (per loro) riducano a niente le vite degli altri. Se dal sociale passiamo all’ arte, naturalmente, cambia tutto: che la si pratichi o se ne fruisca semplicemente, vita e sogno, realtà e fantasia, gioco e lavoro, tecnica e creazione diventano tutt’uno. Ecco allora che si può davvero rinascere ‘smisuratamente liberi’, ed è quello che mi capita ogni volta quando uso attrezzi, inchiostri, carte, quando apro un libro o ascolto musica. Ad ogni nuovo libro o disegno si può davvero rinascere”.
Laura Beltramino
“Se il principale azionista della democrazia decide che i limiti siano una cosa superabile, ovvero che il più forte domina sul più debole, pessimisticamente non vedo molte possibilità di arginare la cosa. Non vedo in che modo la Groenlandia (per dire) possa contrastare Trump il giorno che decidesse di mettere in atto la sua rivendicazione territoriale, per quanto arbitraria possa sembrare. La gazzella non ha molte possibilità di imporre le sue ragioni al leone affamato. Poi una volta aperte le gabbie (i limiti) e liberati gli istinti (la sopraffazione, l’avidità, la sete di conquista e di potere), in un mondo in cui la democrazia era già minoritaria, il castello potrebbe crollare. I pesi e i contrappesi di cui abbiamo sempre decantato le lodi come argine a questo tipo di derive, al momento mi sembrano quantomeno poco efficaci. Insomma mi sembra che siamo di fronte alla fine di un ciclo, come avviene nella storia e nella vita. Il problema è che ad ogni fine/inizio ciclo generalmente si paga un prezzo: qualcuno muore, qualcuno perde, qualcuno soffre. L’Europa unita di domani, culla della civiltà (quella che ci piace) e nuovo baluardo della democrazia è un sogno che dobbiamo certamente perseguire, con coraggio e generosità, anche superando i limiti del realismo. Speriamo solo che non si debba farlo sulle macerie”.
Marco
“No limits è il verbo, ovunque, soprattutto in montagna. Eppure Annibale Salsa, illustre antropologo nonché ex presidente del CAI, titolò un suo intervento a un convegno sull’eliski (contro l’eliski) ‘La montagna maestra del limite’. So che anche lei ha aderito a un progetto denominato Montagna Sacra. È il Monveso (che di forma ricorda il Monviso…), una montagna del Parco nazionale Gran Paradiso che un comitato invita a non salire più, lasciando così la cima a esclusiva frequentazione degli altri esseri senzienti a cui Homo sapiens ha tolto via via spazi di vita. Un progetto culturale, che non prevede alcuna regola, solo la libera e consapevole accettazione di un Limite. Il progetto è stato ideato nel 2022 in occasione dei 100 anni del Parco Gran Paradiso, di cui sono stato consigliere. Il Monveso si trova a cavallo fra Valle di Cogne e Valle Soana, nel Comune di Ronco Canavese. Una scelta ragionata: la Val Soana è la più integra del parco. A differenza della iperturistica Cogne, che ha sempre avuto un atteggiamento di scherno, Ronco ha dimostrato aperture, tant’è che da tre anni organizziamo una manifestazione in accordo con il Comune: quest’anno il 15 giugno. Questo grazie al giovanissimo sindaco, 27 anni, Lorenzo Giacomino (è già un caso politico)”.
Toni Farina
“Ti sfugge che è proprio la consapevolezza e l’accettazione del limite a porre le basi del suo superamento. Un concetto familiare al pensiero orientale e ben conosciuto dagli yogi”.
Francesca Zainetti
“Non potrei essere più d’accordo con lei nell’individuare come prepotente chi guarda il limite con sbandierata insofferenza.
La definizione si attaglia anche a chi, governo e Confindustria, vede nell’alleggerimento, se non nel totale abbandono, dei limiti europei sulle emissioni, la panacea che ci farà uscire dall’impasse dell’automotive e dei dazi imposti dall’Agente Arancio. Posso essere d’accordo sulla critica a certi tempi, modi e rigidità, ma sono vizi di forma, non di sostanza. La verità è che i limiti di cui l’UE richiede il rispetto sono posti per il bene di qualcosa di molto più grande, quell’ambiente che ci è stato messo a disposizione – purtroppo senza limiti contrattuali – e di cui abbiamo fatto scempio in nome del progresso e dell’arricchimento individuale. Non è continuando a inquinare come se non ci fosse un domani (vedi caso Ilva) o ricominciando a bombare di ormoni e antibiotici la carne come fanno gli americani, o accettando supinamente la prepotenza di chi questa via persegue e vorrebbe trascinarci pure noi, che ne usciremo vivi. Bisogna mettere un limite.
Homo homini lupus non è una frasetta ad effetto per barbogi attaccati a cose ‘vecchie’. I limiti sono nati proprio per mettere un freno alla prepotenza di pochi e quando li abbiamo ignorati… beh, non è finita bene. Il successo della sua manifestazione a Roma e di quelle di sabato negli USA, oltre allo scarso seguito del raduno a sostegno di Marine Le Pen, fanno ben sperare”.
Paola Moroni Stengher, 58 anni
“A proposito del limite, il latino ci regala un’ambiguità ricca di spunti simbolici. Il limite in quella lingua è ‘limes’, ma è anche ‘limen’. Il primo ha il significato del confine che è bene non superare, sia per non incorrere nel rischio di incontrare le popolazioni ‘barbariche’ sia per consolidare la difesa di ciò che si è conquistato. Il secondo, invece, allude alla soglia, a quell’orizzonte dal quale ci si sporge per immaginare e magari intravedere l’ignoto, che spaventa e seduce allo stesso tempo. Anche il sublime ha a che fare con il limen… Io penso che la storia della civiltà umana si sia giocata molto sull’ambivalenza del limite, sulla tensione continua tra il consolidamento delle proprie conquiste e la necessità di spingersi oltre le proprie sicurezze. È un’ambiguità che può essere vissuta come ricchezza e non necessariamente come dicotomia. Forse sta anche in questo la bellezza dell’essere umani”.
Marco
“Una versione più accettabile della rassegnazione è l’accettazione. La rassegnazione rappresenta un limite che mi viene imposto mio malgrado, del quale non capisco il senso e non comprendo l’utilità. Un limite che mi soffoca. Mentre l’accettazione è prendere atto che un limite sia non solo utile, ma anche indispensabile. Un limite che mi protegge. Faccio due esempi. L’impossibilità di scegliere come mettere fine alle mie eventuali sofferenze è un limite che trovo inutile e dannoso per me e per la società. L’impossibilità di mettere fine al fastidio che altre persone mi arrecano (altresì detto omicidio) lo considero un limite utile e indispensabile, che accetto volentieri, anche se a volte ne farei a meno. Credo che serva a permetterci di vivere tutti più serenamente. E poi, collegato al concetto di accettazione, ho scoperto l’essere grata per ciò che ho, piuttosto che sentirmi frustrata per quanto mi manca. Sono grata per esempio di essere nata in Italia e non a Gaza (o in Afganistan) e accetto il fatto di essere nata in una famiglia non ricca”.
Laura
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Siamo ai saluti. Corroborati da una Zanzara, una soltanto, però gustosa. La segnala Guido che l’ha trovata su Repubblica on line. È un caso estremo, e davvero deplorevole, di accanimento giudiziario.
SOUTH CAROLINA: CONDANNATO A MORTE UCCISO DA UN PLOTONE DI ESECUZIONE
È LA SECONDA VOLTA IN CINQUE MESI
Piove, e qui al Nord pioverà per quasi tutta la settimana, pare con tregua pasquale. Ma le temperature sono in rialzo, per la contentezza di cardellini, cince, ballerine, fringuelli e tutta la chiassosa compagnia, che nidifica (o ha già nidificato) con la stessa lena di chi allestisce gli stand al Salone del Mobile, pur rifacendosi a modelli standard: immagino che i modelli più innovativi di nido abbiano qualche centinaio di migliaia di anni.
Martedì vado al teatro degli Arcimboldi per la prima milanese di Antonio Albanese (chissà se ci saranno anche la Bubi la Pupi la Vivi e la Chichi). Lavoro con Antonio da più di trent’anni, ogni volta che ci vediamo è una festa, in teatro è una festa doppia.
In alto i cuori.