La solitudine degli appelli
«Il vero problema di fronte alla richiesta di firmare un appello, anche il più nobile e il più condivisibile, è che ci si trova di fronte alla scelta tra due errori»

Firmare un appello, non firmarlo. Prima o poi capita a moltitudini di persone pubbliche (perché le persone pubbliche, ormai, sono moltitudini) di dovere scegliere. Sollecitati dagli amici, dall’ambiente di riferimento, dal ruolo che hai o ti illudi di avere. Da quello che gli altri si aspettano da te. Ed è troppo facile liquidare la faccenda con la nota battuta “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte, o se non vengo per niente?”. È un rovello più serio, quello del firmatario e del non firmatario di appelli, e la vanità personale, che pure ha sempre il suo peso nelle cose umane, non è l’unica componente che conta. Semmai, è quella che conta di meno.
Il vero problema, di fronte alla richiesta di firmare un appello, anche il più nobile e il più condivisibile, è che ci si trova di fronte alla scelta tra due errori (e tertium non datur). Il primo errore è quello di imbrancarsi nella schiera dei Giusti aggiungendo il proprio nome in coda a parole spesso condivise solo in parte, nel nome di una solidarietà facile e immediata con questa o quella buona causa. Quando il giorno dopo rileggi l’appello che hai appena firmato, di solito rimugini: ma io veramente non è che pensi proprio queste cose, e comunque le avrei dette in maniera diversa. E senti un improvviso bisogno di approfondire l’argomento; e uno stimolo alla ritrosia e al dubbio come forma di decenza intellettuale.
L’errore opposto è non rischiare, non mischiarsi e anche non immischiarsi, come se il proprio nome fosse un bene così prezioso da tenerlo ben custodito nella cassaforte dell’ego, senza confonderlo con quello degli altri. Una scelta sempre sospettabile di freddezza o di tirchieria o di menefreghismo. O una forma subdola di complesso di superiorità intellettuale. E il giorno dopo non avere firmato, se non sei troppo ottenebrato da te stesso e non vivi fuori dal mondo, ti viene il sospetto di avere taciuto su argomenti sui quali il silenzio è imperdonabile. Omertoso. Accidenti, è la più sacrosanta delle cause, perché mi sono tirato indietro?
L’appello pubblico, dunque, è una pratica insidiosissima. Non lo si può firmare a metà, o con riserva, non si possono aggiungere postille e distinguo personali. O ci sei o non ci sei, in quell’elenco che ti espone al vaglio etico dei Giusti (guai se scoprono che il tuo nome non c’è) e al pernacchio dei Cinici (guai se scoprono che ci sei anche tu).
Faccio queste considerazioni anche in solidarietà ai firmatari (e anche ai non firmatari) dell’appello veneziano pro Gaza, un pasticcio pilotato con generosa approssimazione da alcuni dei suoi promotori, con boicottaggi aggiunti all’ultimo momento, firme raccolte con le reti a strascico, e la confusa imprecisione di chi si muove sotto una urgenza emotiva. Non credo che abbiano firmato in così tanti (circa millecinquecento, a occhio e croce la maggioranza del cinema italiano) per conformismo: forse qualcuno, certamente non tutti. Credo abbiano firmato perché temevano l’indifferenza più della imprecisione.
Aggiungo, come ulteriore attenuante per i firmatari di appelli, e di quello del cinema pro Gaza in particolare, che fino a una trentina di anni fa ci si poteva sentire rappresentati dai partiti politici di appartenenza, da questo o quel leader. La loro voce, quando parlavano, manifestava l’opinione di milioni di persone. Esistevano “voci collettive” che rendevano meno necessarie le mobilitazioni persona per persona. In fin dei conti i partiti di massa erano enormi class action multiuso, non c’era buona o cattiva causa che, almeno a parole, sfuggisse al loro giudizio, che in larga parte coincideva con il giudizio dei rispettivi elettori.
Oggi, lo sappiamo bene, ognuno è abbastanza solo con se stesso, e questo ingigantisce le responsabilità personali. Si fa partita per proprio conto, non ci si può più rifugiare dietro le poderose facciate di edifici ideologici ormai sgretolati. E dunque bisogna portare pazienza, gli appelli e i sussulti “dalla base” (vedi la magnifica e fragile flottiglia Sumud per Gaza) sono una necessità dei tempi. Ci si deve arrangiare da soli, ci si deve provare da soli. I precisetti dei vari Tribunali Etici dei social, qualcuno anche accasato nei giornali, se ne facciano una ragione: si sbaglia volentieri, qualche volta, piuttosto che rimanersene nel proprio tinello a sputare sentenze sugli altri.
Infine, nota personale: di “appelli di intellettuali” ne ho firmati lungo i decenni, a conti fatti, pochi. Forse una decina. Di almeno un paio mi pento e quasi mi vergogno: ho firmato per amicizia con gli altri firmatari, per quieto vivere di fronte alla loro insistenza, e sapevo ben poco dell’oggetto dell’appello. Un altro paio li ricordo bene perché ne sono stato addirittura il promotore: uno, dopo le politiche del 2013, invitava la sinistra italiana (quasi un terzo dei voti) e i Cinque Stelle (un altro quarto dei voti) a trovare un accordo politico. Raccolse solo tra i lettori di Repubblica centoventimila firme e fu un magistrale buco nell’acqua: pochi giorni dopo ci fu il penoso “processo” in streaming dei grillini ai danni dell’esterrefatto Bersani. L’altro è l’appello di convocazione della manifestazione romana del 15 marzo scorso, europeisti in cerca dell’Europa che non c’è. Un altro notevole buco nell’acqua, alla luce dei fatti, anche se è stato bello passare un sabato in così bella e folta compagnia. Morale: dovessi farmi promotore di un altro appello, per carità non datemi retta.
Ah: gli altri appelli dei quali sono stato firmatario li ho dimenticati. Ecco la grande opzione che il tempo concede agli uomini: l’oblio.
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Tra le tante mail sul concetto di “vacanza” (e anche sulla prassi, sulle maniere così varie e divergenti nelle quali si celebra l’agosto) ce n’era una che rivendicava il “nomadismo digitale”, ovvero la possibilità di essere ovunque, un po’ qui e un po’ là, liberi da vincoli, ed elencava una schiera imponente di paesi nei quali, negli ultimi mesi, l’autore della mail, Alessandro, era stato nel corso delle sue peregrinazioni. Invitando gli italiani a essere meno stanziali e meno abitudinari. In polemica con quella mail mi scrive Serena, e una disputa tra millennial, per un boomer, è un’occasione da non perdere. La discussione mi sembra comunque appassionante, perché passando per Rimini si arriva all’ego. Che è il più impenetrabile dei luoghi. Sentiamo cosa dice Serena.
“Mi lasci esprimere una critica alla mia generazione (questa newsletter nasce anche da questo, no?) e rispondere al signor Alessandro, il “semi-nomade digitale”, come lui stesso si definisce. Gli italiani non “sognano Rimini per due settimane e poi tutti in città a lavorare” per ignoranza, o provincialismo, o per chissà quale colpevole mancanza. Se c’è una cosa che mi delude, della mia generazione (Alessandro non lo specifica, ma immagino sia un millennial come me) è proprio questa retorica pelosa del nomadismo digitale, questo collezionismo compulsivo di “esperienze” che non punta alla conoscenza dell’altro, ma all’esaltazione del sé. E d’altronde, cosa si potrà mai capire, “in soli otto mesi”, di tutti quei paesi, della loro storia, della loro complessità? Per come la vedo io, per definire questo stile di vita non serve inventare neologismi (“nomade digitale” e simili): “neocolonialismo” funziona ancora benissimo. Per fortuna noialtri tonti non ci facciamo venire il pallino di diventare “nomadi digitali” perché da un lato il Paese non andrebbe più avanti, mancando magazzinieri, commessi, elettricisti e infermieri, dall’altro i paesi del mondo ne verrebbero travolti. Si immagini, un iper turismo continuo…”
Serena, millennial
Non le manda a dire, Serena. Più che da boomer, da pigro, devo ammettere di considerare con qualche diffidenza non solo l’overtourism, ma anche l’idea che si debba vivere con la valigia sempre pronta. Sono uno stanziale sostanziale (gioco di parole), ho bisogno dei miei cani, del mio gatto e del mio bosco e il mondo mi interessa assai, ma a dosi sostenibili (soprattutto per me). Mi torna sempre in mente una delle massime micidiali di mio padre (odiava viaggiare, ma aveva fatto cinque anni di guerra e di prigionia in Africa e forse gli erano bastati): se la gente stesse a casa propria, sarebbe molto meglio e si troverebbe parcheggio.
Ma sarei un arbitro scorretto se prendessi parte alla disputa, e non voglio confondere la mia indole con una presa di posizione “politica”. Ammiro tanto Chatwin quanto Emily Dickinson, il viaggiatore instancabile e la più immobile (e per questo sublime) dei poeti. Il dibattito, comunque, è interessante: quanta porzione di mondo è a nostra disposizione, quanta dobbiamo rassegnarci a non conoscere; oppure, come Salgari, conoscerla attraverso i romanzi e le carte geografiche?
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Due zanzare complementari tra loro, che fanno vedere sotto una luce decisamente nuova, e anche inquietante, la figura sociale dello studente. Fabrizio segnala questo preoccupante titolo di Rai News 24:
AFFITTI PER STUDENTI FUORI CONTROLLO
Fossi il padrone di casa, avrei molto timore a consegnare le chiavi. Meno preoccupante, ma molto immaginifico, l’annuncio su Facebook che ci segnala Giancarlo:
AFFITTASI STANZA SINGOLA
A STUDENTESSA COMPLETAMENTE ARREDATA
Mi sono chiesto se sia consentito segnalare proprio ai lettori del Post, molto sensibili alla correttezza del linguaggio, questo titolo di Latina Oggi catturato da Marco. Ma è la cronaca, non il pregiudizio, a chiedere spazio:
CONCORSO “GAY PIU’ BELLO D’ITALIA 2025”
STRAVINCE ELIO FINOCCHIO
Sempre nel campo dell’eros, notevole questo refuso contenuto in un titolo di La7 che annuncia un film.
COCO CHANEL E VIGOR STRAVINSKIJ
Marco, che lo segnala, così commenta: “Non so se si voleva alludere alla forza espressiva della musica del geniale compositore, oppure alla sua possanza sessuale, che nel film sembra essere sottolineata”. Non avrei saputo dirlo meglio.
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Beh, siamo in settembre. Mese di passaggio, di ritorno a casa, di rientro nella normalità, di saluti e di promesse di ritornare. Ho meravigliosi ricordi infantili, ultimi giorni di vacanza in montagna, alla sera i primi fuochi nel caminetto, e i miei amici pastori che riportavano alla piana (Saluzzo) le trecento mucche con le quali avevo condiviso un bel pezzo di estate. Non lo dico per vantarmi, anzi lo dico per vantarmi, ho accompagnato al pascolo trecento mucche e avevo nove o dieci anni, mi illudo di saperlo fare ancora adesso (datemi un paio di cani come quelli, però). Al tramonto tornavo a casa felice e sporco di merda, mia madre mi ficcava nella vasca da bagno e ancora oggi mi chiedo: ma come si faceva, senza telefonino? Spesso andavo dai pastori alle dieci del mattino e tornavo nel tardo pomeriggio, mia madre sapeva che ero in buone mani (le famiglie Fino e Gastaldi) e nessuno si preoccupava. Il suono dei campanacci delle mucche, ovunque io lo senta, è una delle cose che mi emoziona di più. In alto i cuori, godetevi questo settembre.




