Grazie, si levi di torno
«La pervasività e l’intrusività delle tecnologie digitali mi fa dubitare, ogni giorno di più, che siano facoltative: e già adesso, vederle comparire sul mio schermo senza che io abbia fatto nulla per convocarle, non mi piace»

“Scrivi una favola della buonanotte sui dinosauri per un bambino di otto anni”.
“Progetta un piano turistico di due settimane nel parco di Yellowstone”. “Scrivi una guida di un colloquio per una posizione interna di ingegnere informatico”.
Queste tre scritte, assieme ad altre dalla logica misteriosa, compaiono da qualche settimana, dentro tre finestrelle rettangolari, in testa alla pagina Word che ogni giorno apro nel mio Mac per mettermi a scrivere.
La pagina bianca è la mia bottega. Il luogo, privatissimo, del mio lavoro quotidiano. Da qualche mese la AI di Microsoft la presidia senza scampo. Apro la porta della mia bottega e trovo un intruso che mi dice “buongiorno, posso esserti utile?”. È entrato da solo, senza che io l’abbia mai chiesto, proponendomi di fare in mia vece ciò che faccio da una vita intera. Ammesso (e non concesso) che se le chiedessi di scrivere questa newsletter al mio posto – stamattina fa troppo caldo, non ho voglia di faticare e preferisco andare al fiume – la scriverebbe meglio di me, il problema è che non gliel’ho chiesto; né voglio chiederlo. Non voglio quei banner in cima alla mia pagina: io, nella mia pagina, voglio stare da solo. Oppure sarebbe normale, secondo voi, che il disegnatore aprisse la risma appena comperata in cartoleria e trovasse in ogni foglio un segno già tracciato a matita? Con la scritta: se vuoi puoi cancellarmi, ma non ti sembro un buon inizio per quello che intendi disegnare?
Conosco l’obiezione. Basta cominciare a scrivere – basta un clic – e quegli inviti non richiesti a servirsi di un coautore spariscono (e ci mancherebbe altro). Il foglio torna intonso. Ma obietto a mia volta che se io volessi tornare ad aprire la mia pagina trovandola, come sempre, immacolata, libera da ogni intrusione, non ne sarei capace. Importante: non vale alcun livello di biasimo per il mio “non essere capace”. Niente e nessuno può obbligarmi (e obbligare chiunque) all’incessante aggiornamento sulle novità tecnologiche; è una mia facoltà, non un mio dovere. Uso quanto, della tecnologia, mi è utile e necessario, fosse anche un livello “primitivo” rispetto al ricco catalogo disponibile. Perché dovrei sentirmi costretto ad attrezzarmi per continui salti di qualità? Volessi inibire le intrusioni indebite nel mio programma di scrittura – che già così com’è soddisfa perfettamente le mie necessità – dovrei rivolgermi a un professionista o a un amico nerd che lo faccia al mio posto: come se il disegnatore di cui sopra non avesse la gomma per cancellare, e dovesse chiedere a qualcun altro di pulirgli il foglio.
Ogni volta che parlo della questione con gli amici, si accende il dibattito. I punti forti del pensiero di chi ritiene eccessivo il mio disappunto sono questi: 1 – È sempre accaduto che i salti tecnologici producessero sconcerto e spiazzassero i meno giovani: poi ci si assesta, si capisce che i vantaggi sono superiori agli svantaggi, e ciò che sembrava sconquassante diventa del tutto normale. 2 – Non si può pretendere che la propria arretratezza tecnologica pesi al punto da attardare il progresso. Se io sono un troglodita digitale non ho il diritto di prendermela con chi, non essendolo, maneggia le nuove situazioni con la giusta destrezza.
Ben detto. Convincente. Ma non è questo il punto. Il punto è che l’adesione al progresso – dando per scontato che l’IA lo sia – non può essere obbligatoria. Chi andava a piedi poi ha cominciato a usare la bicicletta e chi andava in bicicletta poi ha cominciato a usare l’automobile. E sicuramente già quei passaggi d’epoca furono accompagnati dal borbottio passatista, “dove andremo a finire, quei velocipedi sono pericolosissimi!”. Ma si è continuato ad andare a piedi, e in bicicletta, anche nell’epoca dell’automobile (e anzi, con il tempo, camminare e pedalare hanno riconquistato un’aura formidabile di salubrità e, aggiungo, di “modernità”). Le nuove tecnologie si sono sempre aggiunte, mai sostituite alle precedenti. Nessun pedone si è ritrovato una bicicletta in casa senza averla richiesta, nessun ciclista si è ritrovato un’automobile davanti alla porta senza preavviso. Bene: io non sono affatto sicuro di poter continuare a lavorare su una pagina bianca, come vorrei e come avrei diritto di fare. La pervasività e l’intrusività delle tecnologie digitali mi fa dubitare, ogni giorno di più, che siano facoltative: e già adesso, vederle comparire sul mio schermo senza che io abbia fatto nulla per convocarle, non mi piace. E anzi: mi turba. La vivo come una violenza nemmeno tanto subdola: e anzi evidente.
Non perché io sia troglodita (lo sono, ma non più di tanto; non al punto di desiderare una clava per bastonare i chip), ma perché non voglio essere il terminale inerte di decisioni e di politiche commerciali che considerano “naturale” la mia adesione, e scontato il mio entusiasmo. Non voglio sentirmi reclutato a mia insaputa, e considero mio diritto, nel caso non voglia adeguarmi (o non sia in grado di farlo), essere lasciato in pace. Aggiungo: anche se gli accessi al “nuovo” fossero del tutto gratuiti – e non lo sono, voglio avere il diritto di non considerarli indispensabili alla mia vita e alle mie necessità.
Il giorno che avrò bisogno di un’intelligenza artificiale, cosiddetta, voglio essere io a dirglielo. La rete che ci avvolge dovrebbe essere al nostro servizio, non noi al suo. Non nasciamo clienti, lo diventiamo secondo volontà e bisogni che è bene siano stabiliti da noi e non imposti dall’alto (dall’alto? Con il digitale viene voglia di dire: da ovunque, da sopra, da sotto, da “dentro”…). Vogliamo andare a piedi anche se abbiamo l’automobile e mentre camminiamo non vogliamo essere affiancati da un’automobile a guida automatica che ci dice “e dai, sali, perché ti ostini a fare tutta quella fatica?”. Grazie, si levi di torno, non ha idea di quanto mi piaccia camminare. E non ha idea di quanto sia sgradevole essere disturbato mentre cammino.
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Fa caldo! E siamo ancora a giugno. Tralascio ogni considerazione sul cambiamento climatico (c’è eccome, e i primi a ritrovarsi con il cervello bollito sono i negazionisti) e mi limito a comunicarvi che sono orgoglioso di voi. Alla mia richiesta di declinare il grande caldo con tutti i suoi nomi, anche vernacolari, avete risposto in tanti. La grafia dialettale è ostica e spesso incerta, dunque ho scelto di lasciarla così come voi l’avete scritta. Mano a mano che aumenterà la morsa dell’afa (come titolano i giornali: l’Italia nella morsa dell’afa; e d’inverno, ai primi e sempre più rari accenni di sottozero: l’Italia nella morsa del gelo), vedremo se aggiornare l’elenco. Intanto ecco qui la prima infornata:
“Mio nonno, che era del 1907, per descrivere il fenomeno ottico che in estate, quando fa molto, molto caldo già al mattino, produce l’effetto aria tremolante, diceva: balla la vecchia. Siamo nel pisano e mi sembra che renda l’idea”.
Mario
“A Cagliari si dice ‘basca ‘e morri’ e vuol dire caldo da morire; da dove venga ‘basca’ lo ignoro. Al paese di mio babbo, vicino a Macomer, si dice ‘pisti’ che ha più l’aria di un’imprecazione (credo significhi peste)”.
Andrea Contini
“In Piemonte si dice ‘caud ca sa sciopa’, caldo che ti fa scoppiare, o anche solo ‘sa sciopa’, e tutti ti capiscono”.
Andrea
“Nonna Maria, che abitava a Ospitaletto Bresciano, nella prima Pianura Padana, con caldi afosissimi, diceva sempre: ‘Ma suda la lengua en boca’, cioè ‘mi suda la lingua in bocca”, per dire che era caldissimo. Ma anche per prendere in giro quelli che si lamentavano del troppo caldo, durante gli ovviamente caldissimi mesi estivi”.
Lucia Falappi
“Sono cresciuta in provincia di Livorno. Per dire ‘fa caldo!’ ho sempre sentito dire ‘si boccheggia!’: immagino che il riferimento sia al respiro affannoso che fanno i pesci quando vengono tenuti fuori dall’acqua. Credo sia diffuso non solo a Livorno”.
Raissa, 28 anni
“Fa n’cald da porc (nella versione italianizzata borghese: fa un caldo suino) è un intercalare della bassa mantovana per dire un caldo insopportabile. Tieni conto che il porco è in dialetto mantovano l’equivalente della neve per gli inuit: può essere declinato come al nimàl, porzèl, gugét, gugiöl, gugìn, o nelle versioni di genere porc, vèr, ròia, fino a un infiltrato probabilmente ferrarese, la maiala. Ma ne dimentico sicuramente qualcuno… Si può dire che ‘fa un caldo porco’, ma anche ‘a ghè n’fred da porc!’.”
Marco R.
“Mio padre, nato e cresciuto a Venezia, e pentitosi il giorno dopo di averla abbandonata per trasferirsi nell’entroterra, quando nella pianura scende quel terribile caldo umido, sentenzia con fare assoluto: xé sciroco marxo (è scirocco marcio). Credo che dentro di lui pensi che almeno a Venezia i refoli del vento che s’infila nelle calli strette ed ombrose renderebbe il tutto più accettabile”.
Sebastiano
“In calabrese (o meglio, almeno in rossanese) diciamo ‘che cappa’: come se il caldo fosse un mantello che ci sovrasta e ci fa sentire più pesanti”.
Giovannino
“In piemontese caldo afoso si dice tuf”.
Mauro (segnala tuf anche Ersilia)
“Lessico dialettale dalla Valbrenta: ‘sòfego’ (che fa pensare al soffocamento)”.
Giuseppe
“Segnalo il dialettale siciliano ‘scarmazzu’, di grande espressività, da me usato in gioventù con i miei amici (da tempo abito a Brescia, non ho acquisito termini locali ma fa caldo lo stesso). L’ho trovato anche in Camilleri”.
Tito Aronica
“Nel nord est: semplicemente ‘caldón’”.
Alberta
“Callaccia: credo sia romano, ma qui in Ancona qualcuno lo usa, d’altronde siamo linguisticamente mediani anche noi, e non di rado la nostra parlata suona romana a orecchie settentrionali. Mi dice mia moglie Romina, più immersa di me nel dialetto, che abbiamo ‘caldaccia’. E anche ‘n’ariaccia’. Infine un possibile ‘sciatato’, aggettivo o participio da riferire a persona indebolita dal caldo. Il compare Gabriele, da Potenza Picena, mi segnala, dalle sue parti, assenza di sostantivi, ma uso di espressioni verbali come ‘coce’, ‘è ‘n forno’, ‘ce se squaja’”.
Marco
“Da piccolo a Genova ricordo il termine ‘bulesume’ (non so scriverlo) detto al mare mentre si vede un timido risciacquio sulla riva invece di onde ben formate, e l’aria è umida e appiccicosa”.
Alberto
“‘Ze siroco’ o ‘fa siroco’. Con lo scirocco a Venezia la camicia ti si appiccica alla pelle, il sudore ristagna sotto le ascelle e attorno a parti meno nobili. Non traspiri, hai una pellicola di unto sulla pelle che ti mette in una situazione di estremo disagio. Diventi irascibile, nervoso. ‘Siroco’ può essere anche di mezza stagione: con 23 – 24 gradi ti sembra di essere sul delta del Mekong. Quando poi ‘ze siroco de istà’ (per esempio a luglio con 33 – 34 gradi) è letteralmente un inferno”.
Francesco
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In merito alla complicata questione “perché i poveri votano per i ricchi”, già ampiamente trattata nelle vostre mail della settimana scorsa, mi piace aggiungere questa citazione di François Mitterrand. Ce la segnala Gaetano Ruvolo, che dice di conservarla da più di trent’anni, e si capisce perché.
“In questo paese, da tempo, diversi poteri forti, al fine di difendere i propri privilegi, vanno cercando una saldatura con le aspirazioni, i bisogni, le fantasie e gli spiriti egoistici dei deboli. Il sogno che ad essi si propone è un sogno tanto irrealizzabile quanto credibile, avvolgente e paralizzante: partecipare tutti alla mensa dei ricchi. Ma chi si interroga su che tipo di ricchezza, che forme e canali prende, da dove trae origine? Nessuno. Occorre evitare questa sciagura, che io chiamo oblio della politica”.
Impressiona soprattutto la domanda: chi si interroga sul “tipo” di ricchezza? Sulla sua genesi, la sua natura, la sua destinazione? Nel Novecento ci si faceva questo genere di domande, e sarebbe molto utile ricominciare a farsele.
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Qualche vigoroso temporale, su al Nord, ha prodotto squarci di fresco, nonché cieli magnifici e variegati, con certi neri e certi azzurri, certe lame di luce in mezzo a coltri tenebrose. Vedo nei telegiornali cieli perfino più movimentati, mi dà sgomento pensare che non è il meteo, è la guerra a dipingerli così. Ho un amico italiano che abita a Teheran da molti anni e non dà notizie, sono un po’ preoccupato per lui e ho pensato che va moltiplicato per milioni di volte il sentimento di pena per qualcuno di conosciuto che sappiamo, se non proprio sotto le bombe, in prossimità.
Credo che nessuno di noi, oramai, abbia il privilegio di non essere in pena per alcuno. Tutti abbiamo in mente una città, una casa, una famiglia che non possono dirsi al sicuro. Vorrei salutarvi con un pensiero più rasserenante, più salubre, ma come tutti voi seguo le notizie di guerra che allargano il campo, sequestrano tempo e spazio. Dirvi “in alto i cuori”, in queste contingenze, non è per niente facile. Ma ve lo dico lo stesso: il cielo è pieno di missili e droni, la terra un puzzle di crateri, ma è pur sempre il battito dei cuori a segnare la vita quotidiana.




