Fascismo e locuste
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Fascismo e locuste
Michele Serra
Martedì 4 luglio 2023

Fascismo e locuste

(Fredrik Lerneryd/Getty Images)
(Fredrik Lerneryd/Getty Images)

Alle 22:30 di mercoledì 28 giugno, il giorno in cui Giorgia Meloni ha fatto, in Parlamento, un discorso di inusitata durezza, con toni e volumi da piazza e non da luogo istituzionale, ricevo un whatsapp da Gianni Cuperlo. Ci conosciamo da tempo immemorabile, è persona riflessiva e gentile, non un emotivo o un fazioso – tra uomo di parte e fazioso la differenza è così evidente che non necessita spiegazioni. Proprio per la personalità del mittente, il messaggio mi ha molto colpito. Lo pubblico qui sotto – dopo avere chiesto il permesso all’autore – perché penso sia giusto e utile condividerlo con voi.

“Stamane ero in aula per la replica della Meloni e per la prima volta dopo gli otto mesi di governo ho provato la sensazione di una china allarmante. Lei è stata sguaiata, screanzata verso l’opposizione, ha alzato la voce oltre la logica e il costume di un capo di governo. Ha aggredito un libero intellettuale chiamandolo ‘De Rita’ e correggendosi in ‘De Masi’, indicandolo come nemico di democrazia e libertà. Ho parlato a margine con Conte (oggi è stato efficace) e ne ho colto lo stupore e qualche inquietudine per una espressione tanto inedita. Gli spalti della destra si alzavano in piedi con tratti tipici del tifo isterico e gli stessi banchi del governo (la prassi lo vieta) applaudivano senza troppi scrupoli della forma. Noi, le opposizioni, siamo stati soverchiati da quel clima diciannovista. Immagino che domani ci sarà chi spiegherà il tutto come una compensazione al fatto che al Consiglio europeo Meloni non otterrà nulla (cosa poi accaduta, ndr). Invece la mia sensazione è che dopo i mesi del rodaggio abbiano perso ogni freno inibitore e sia emersa la loro natura. Abbiamo i fascisti al vertice dello Stato e non so se siamo all’altezza di questa prova. Ma sento che quanto stiamo facendo (tutti) non basta. Scusa ma per me la giornata è di quelle che segnano un prima e un dopo. Ciao. Gianni”.

Da cittadino che si fa qualche domanda (anche grazie alla breve riflessione “sul campo” di Cuperlo), mi sono chiesto che effetto mi fanno “i fascisti al vertice dello Stato”. Il clima diciannovista del quale parla Cuperlo rimanda agli anni subito precedenti il fascismo: che furono decisivi per l’instaurazione del regime anche per la debole, pavida reazione di quel poco o quel tanto che fosse, più di un secolo fa, la democrazia nel Regno d’Italia. Pur condividendo la malinconia e l’inquietudine di Gianni, mi sembra che almeno due differenze, entrambe sostanziali, facciano pensare che l’esito non può essere lo stesso – prescindendo dalle eventuali cattive intenzioni dei nuovi governanti.
La prima è che la Repubblica è ben più robusta e strutturata dell’Italietta dei Savoia, con una Costituzione di ben altro vigore; e un sistema mediatico, per quanto scassato e corruttibile, sicuramente più esteso e difficile da censurare o zittire, se non per la sua qualità, per la sua quantità. “Opinione pubblica”, cento anni fa, era poco più di un’élite borghese. “Opinione pubblica”, oggi, anche per via del web e dei social, è una baraonda emotiva, influenzabile, ondivaga, e però molto difficile da domare o tacitare.

La seconda differenza, secondo me la più importante, è che un secolo fa non esisteva l’Europa, né come “idea” né come corpo istituzionale. Quella era l’Europa delle Nazioni, una contro l’altra armate. L’Europa delle guerre. Questa è l’Unione Europea, che con tutti i suoi difetti vincola i paesi membri alla democrazia come patto di appartenenza. Lo sa bene anche Meloni, che spende molte delle sue energie per “farsi accettare”, come suol dirsi, da quella comunità politica. Il fattore E , per la sua forza di inclusione e di inibizione, vale “a destra” quanto il vecchio fattore K valse per il suo potere di esclusione a sinistra. E dunque, allo stato attuale delle cose, ai vertici dello Stato ci sono un bel po’ di fascisti, a cominciare dalla seconda carica; ma non il fascismo. Meloni “non può non essere europea” ed è proprio questo, a conti fatti, che impone un limite a ogni eventuale mira autoritaria dei suoi. Non ai loro appetiti, ma questo è un altro discorso. La voracità della nuova classe dirigente si auto-alimenta con il falso mito (vedi “underdog” e dintorni) di essere dei reietti e dei perseguitati anche quando hanno alle spalle comode carriere parlamentari o editoriali, e incarichi pubblici ben precedenti questa legislatura. Molti pretenderanno il piatto pronto spacciandosi per esclusi, che è un alibi formidabile per i mediocri di tutte le epoche.
Insomma, la mia opinione è che nessuno deve avere paura di essere mandato a Ponza o Ventotene. La vera paura, per i prossimi anni, sarà essere divorati dalle locuste – ho fiducia nei miei lettori e sono sicuro che capiscono le metafore.

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È luglio, vi scrivo da una città sul mare e davanti a me trionfano le bouganville e gli agapanti. Di tutto avrei voluto parlarvi, oggi, tranne che di politica. Per esempio dell’etimologia (contestata) della parola “cafone”, che la Crusca ricava dal verbo “cavare”, scavare. E chi siamo noi per confutare la Crusca? Io sapevo “c’a fune”, con la fune, perché i contadini meridionali tenevano su le brache con una corda. Mi scrive Michele Jannuzzi: “Qualche anno fa lavoravo come cameriere su un lido e una sera, parlando appunto dei cafoni che invadono le spiagge, un cuoco napoletano raccontò a noi giovani cilentani l’etimo della parola cafoni. Quando gli abitanti delle campagne andavano in città, per non perdersi nella folla usavano legarsi l’un l’altro con una fune e i cittadini iniziarono a definirli ‘ca fune’, ossia con la fune. Da qui deriverebbe la parola cafone”.
Mi scrive anche Pino Malatesta (che si definisce “boomer di 75 anni” e mi riempie di gioia e speranza: ci sono boomer più vecchi di me!). “Conoscevo una diversa origine della parola cafone che si rifà agli uomini di fatica del regno di Napoli che aiutavano i carri ad affrontare le ripide salite con delle funi, ed erano detti chill’ ca’ fune”.
In sostanza: il dibattito è aperto. Non so se valgano anche eventuali “etimologie fantastiche”, alla Borges, ma sarebbe comunque un bel gioco. L’etimologia – a giudicare dalle diverse versioni di diverse fonti – non è una scienza esatta.

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Parecchi lettori (tutti maschi stagionati: il genere, a volte, ci inchioda) alle parole “fuoriserie” e “Maserati”, che rombavano nell’ultimo Ok Boomer!, si sono entusiasmati e mi hanno scritto per sollevare me e loro stessi da ogni senso di colpa. Cercherò di rispondere privatamente, la mancanza di spazio è un eccellente pretesto per glissare su argomenti così sconvenienti. Vi dirò solo che un amico mi ha portato a fare un giro sulla nuova Alpine A110, gran macchina, elegante e leggera. Ma non fatelo sapere in giro.
Non per espiazione post-Maserati, ma perché l’argomento, pur nella sua micidiale vaghezza, merita discussione, questa settimana vi saluto con una piccola lenzuolata di lettere sull’argomento “cosa diavolo è la sinistra”. E cosa accidenti è la destra. Se vi addormentate sulla sdraio già al suono della parola “sinistra”, nessuno ve ne farà una colpa. Buona estate, specie per chi già ne gode i cieli e i profumi.

“Secondo me non è vero che non esistono più una destra e una sinistra. Non esiste più una sinistra, mentre una destra esiste, e anche ben riconoscibile.
Non esiste più una sinistra perché si è snaturata inseguendo i temi proposti dalla destra e piazzandosi all’esatto opposto di questi ultimi solo per posizionamento, ma perdendo quelli che erano i valori fondanti, primi su tutti il lavoro e i diritti dei lavoratori. In Italia se dovessimo pensare ai valori più importanti per uno qualunque dei partiti di destra potremmo rispondere in qualche secondo, se dovessimo fare la stessa cosa per un partito di sinistra io personalmente sarei in difficoltà. Penso sia stato evidente nell’ultima campagna elettorale, il PD ha giocato solo al gioco ‘noi non siamo la destra’ ottenendo risultati disastrosi.
Penso anche che non sia necessario alcun esame o patentino per votare e che, nonostante sia più difficile veicolare messaggi di cambiamento e progresso, per la sinistra potrebbe essere più facile farlo se scendesse dal piedistallo su cui è poggiata e tornasse a parlare a quelle fasce della popolazione a cui dovrebbe parlare”.
Marco

“Ci sono certamente molti temi sui quali la sinistra lotta per cambiare le cose.
Ma la destra è tutt’altro che conservatrice: vuole cambiare per distruggere le conquiste di decenni di lotta e lo fa con ferocia, spacciando il tutto per innovazione. Lavoro, giustizia, aborto, scuola, sanità, fisco per citare solo alcuni ambiti. La sinistra finisce così per essere costretta a lottare per conservare, anziché per innovare, perdendo forza ed attrattiva nell’elettorato e facendo il gioco della propaganda della destra. Molto difficile venirne fuori”.
Vincenzo

“Destra significa conservazione e sinistra significa cambiamento? È una semplificazione che coglie una parte dell’identità delle due parti. Mi pare vi sia altro, di molto importante, a caratterizzarle; in particolare, proseguendo nelle definizioni semplificatorie, destra e sinistra si distinguono per il valore che ciascuna assegna a libertà e uguaglianza. Valore fondante e principale della destra, dunque, è la libertà; della sinistra è l’uguaglianza. Per la destra è da preferire, raggiungere e difendere una società in cui gli individui siano il più liberi possibile, a costo di non essere sostanzialmente eguali, o di esserlo in poco se non nella forma. Al contrario, la sinistra propende per una società il più egualitaria possibile, a costo di sacrificare la libertà degli individui. Tale dicotomia si riflette, in particolare, sulle posizioni delle parti in politica economica, sullo spazio che lo Stato o l’ente pubblico possa occupare (con le proprie leggi e le proprie opere) e sui limiti che esso debba avere nella propria azione, a tutela dei diritti e delle libertà individuali. Nel tempo e nello spazio, i due concetti hanno conosciuto declinazioni molto varie, commistioni e mescolamenti tali da aver dato corpo a posizioni da estreme/radicali a mediane/moderate, sulle quali si sono innestati altri ideali (nazione, pace, diritti civili, ambiente, ecc.), che hanno reso ancor più ricca e complessa la realtà delle parti politiche che si contendono il governo della comunità”.
Guido Gussetti

“Caro Serra, volendo portare un piccolo contributo al dibattito cosa è destra e cosa è sinistra, su cui Gaber aveva detto quasi tutto, aggiungo al minestrone e alla doccia un altro stereotipo del ‘sinistro certificato’: è destra il privato, è sinistra il pubblico. Magari nella sanità, se le cose funzionassero, sarà anche così, ma non sempre lo schemino funziona. Nella scuola, per esempio, il caso della professoressa con il record delle assenze variamente certificate per un totale di anni sottratti al servizio, intervallati da scampoli di insegnamento mediocre e malmostoso, non è unico. Ho un bel bottino di esempi personali che non è il caso di richiamare. In generale la scuola pubblica non ha strumenti per formare e scegliere gli insegnanti e meno che mai può allontanare lavativi e incompetenti. Chi si iscrive a una scuola pubblica incrocia le dita e confida nella fortuna di trovare insegnanti motivati e capaci. Ce ne sono, certo, ma siamo fuori da una possibilità di scelta. Diciamo, mi si perdoni la bestemmia per chi è di sinistra come me, che siamo fuori da una logica di mercato. Ma non sarebbe una cosa popolare che il consumatore potesse scegliere tra diverse opzioni scolastiche in concorrenza? Lo storico russo Rostovzev ci ha raccontato come l’Egitto dei Tolomei fosse governato da una burocrazia statale pervasiva e che l’iniziativa privata era compressa e subordinata allo stato. Dobbiamo mettere anche Cleopatra nel nostro panteon di sinistri progressisti?”
Andrea Chiari