Cose difficili da dire
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Cose difficili da dire
Michele Serra
Martedì 22 luglio 2025

Cose difficili da dire

«La parola, oggi, è più inflazionata, più corriva, più inquinata? Io credo di sì. E a ben vedere, per tirare fuori da quella guazza ribollente un pensiero limpido ci vuole una fatica notevole: sicuramente maggiore che in passato»

“A volte ho pensato che gli ebrei di Israele avevano diritti e superiorità sugli altri essendo sopravvissuti a uno sterminio. Questa non era un’idea mostruosa, ma era un errore. Il dolore e le stragi di innocenti che abbiamo contemplato e patito nella nostra vita non ci danno nessun diritto sugli altri e nessuna specie di superiorità. Coloro che hanno conosciuto sulle proprie spalle il peso degli spaventi, non hanno il diritto di opprimere i propri simili con denaro o armi, semplicemente perché questo diritto non lo ha al mondo anima vivente”.

“Dopo la guerra, abbiamo amato e commiserato gli ebrei che andavano a Israele pensando che erano sopravvissuti a uno sterminio, che erano senza casa e non sapevano dove andare. Abbiamo amato in loro le memorie del dolore, la fragilità, il passo randagio e le spalle oppresse dagli spaventi. Questi sono i tratti che noi amiamo oggi nell’uomo. Non eravamo affatto preparati a vederli diventare una nazione potente, aggressiva e vendicativa. Speravamo che sarebbero stati un piccolo paese inerme, raccolto, che ciascuno di loro conservasse la propria fisionomia gracile, amara, riflessiva e solitaria. Forse non era possibile. Ma questa trasformazione è stata una delle cose orribili che sono accadute”.

“Quando qualcuno parla di Israele con ammirazione, io sento che sto dall’altra parte. Ho capito a un certo punto, forse tardi, che gli arabi erano poveri contadini e pastori. So pochissime cose di me stessa, ma so con assoluta certezza che non voglio stare dalla parte di quelli che usano armi, denaro e cultura per opprimere dei contadini e dei pastori (…) Gli uomini e i popoli subiscono trasformazioni, rapidissime e orribili. La sola scelta che a noi è possibile è di essere dalla parte di quelli che muoiono e patiscono ingiustamente. Si dirà che è una scelta facile, ma forse è l’unica scelta che oggi ci sia offerta”.
Natalia Ginzburg, “Gli ebrei”, pubblicato il 14 settembre 1972 sulla Stampa.

Sono stralci di oltre mezzo secolo fa, autrice una delle massime scrittrici italiane del Novecento. Non li conoscevo – anche se ne ho poi ritrovato in rete diverse tracce. Me li segnala Gioconda Spinelli, una delle nipoti di Altiero, con la quale sono rimasto in contatto dopo la manifestazione romana del 15 marzo scorso (quelli di Ventotene hanno lasciato eredi molteplici, e spesso molto combattive). Se ve li propongo non è per prendere posizione servendomi di parole altrui – sarebbe comodo e un poco vile – e tanto meno per buttare benzina sul fuoco di un dibattito già ustionante.

Li pubblico perché sono rimasto impressionato dalla drastica limpidezza con la quale una intellettuale, su un quotidiano di larghissima diffusione e non schierato politicamente, allora diretto da un moderato come Alberto Ronchey, si esprimeva sulla questione mediorientale e “contro Israele”. Nonostante fosse ben vivo, in quel frangente, e ovviamente condiviso da Ginzburg, il cordoglio per la strage di atleti israeliani avvenuta pochi giorni prima per mano dei palestinesi di Settembre Nero nel villaggio olimpico di Monaco. A proposito dei quali, in un lungo prologo, Ginzburg scrive: “Nel pensare ai guerriglieri ho la sensazione di provare per loro una sorta di orrore disumano”.

Le parole dell’ebrea Ginzburg sugli ebrei di Israele, oggi, comporterebbero furibonde accuse di antisemitismo. Non è facile risalire a quale fosse il livello di intolleranza tra le parti, mezzo secolo fa. Certo Natalia Ginzburg (1916-1991) fu, come non pochi ebrei della diaspora, e come la gran parte degli intellettuali comunisti europei, dichiaratamente antisionista. Ma il fatto che la sua famiglia e quella del primo marito, Leone Ginzburg, avessero pagato, come quasi tutti gli ebrei europei, un prezzo tremendo alla Shoah, dalla quale non erano ancora passati trent’anni, rendeva sicuramente più difficile di ora confondere e contaminare antisemitismo (razzismo contro un popolo) e antisionismo (ostilità alla politica di Israele). Nel 1972 dare dell’antisemita a persone ebree scampate alla Shoah, che avevano perduto genitori o fratelli o altri prossimi, era più difficile e più sconsigliabile di adesso.

Leggendo il testo, si capisce come gli ebrei filoisraeliani potessero replicare, ieri come oggi, con un argomento polemico di indubitabile forza: “a voi gli ebrei piacciono solo se sono vittime”. Ma non ho certo in mente, pubblicando Ginzburg, di partecipare a quel dibattito, che appartiene soprattutto agli ebrei. Solo di dire che considero la nettezza di quelle parole di Ginzburg qualcosa di più difficile, oggi. Di molto meno consueto e forse addirittura di improbabile.

Forse per l’oppressione subdola dei social, che ciascuno, mentre scrive, sa in agguato, così che ogni rigo è passibile di linciaggio. Forse per una minore coscienza della responsabilità intellettuale, che ai tempi era brandita con maggior vigore, e avvantaggiata da un rispetto del ruolo che faceva sentire lo scrittore e l’intellettuale meno attaccabile e più in diritto di dire la sua; forse per l’allargamento del dibattito politico-intellettuale (e torniamo ai social) a moltitudini poco avvezze a rispettare le parole e financo a capirle, mentre all’epoca i “professori” e gli scrittori si azzuffavano tra loro non sempre sportivamente, ma avendo almeno contezza del motivo del contendere.
La parola, oggi, è più inflazionata, più corriva, più inquinata? Io credo di sì. E a ben vedere, per tirare fuori da quella guazza ribollente un pensiero limpido ci vuole una fatica notevole: sicuramente maggiore che in passato. Bisogna rimboccarsi le maniche – e rileggere Ginzburg.

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Quasi un plebiscito contro la mia breve digressione sul “rifiuto dell’orale” (vedi lo scorso Ok Boomer!), nella quale sostanzialmente invitavo a sdrammatizzare gli esami e più in generale il giudizio altrui. Pochi quelli d’accordo con me, mentre con diversi accenti molti mi scrivono per esprimere consenso e in qualche caso ammirazione per il gesto di quel pugno di ragazzi che hanno deciso di voltare le spalle alla commissione esaminatrice. Tra di loro, parecchi insegnanti. Prendo atto. Essere in minoranza capita, e quando capita è interessante cercare di capire perché. Per la serie: c’è sempre qualcosa da imparare. Qui di seguito una selezione delle vostre mail.

“Ho 37 anni, la maturità l’ho superata da molto ma non da moltissimo, ho ancora vividi quei ricordi e di quanto sia stata ribelle la mia adolescenza, come è giusto che sia. Trovo che il comportamento di questo gruppo di ragazzi sia perfettamente coerente e ‘giusto’, per quanto poco voglia dire questa parola. Non stanno proprio dicendo un bel vaffanculo agli adulti? Il loro ragionamento, per quanto scassato sia data l’età, è proprio quello di non farsi incasellare in un voto abbastanza inutile, quello di non riconoscersi in un numero. Devo dire che se fossero mie* figl* ne sarei orgogliosa”.
Giulia

“Sono un insegnante e secondo me il ragazzo e quei pochi emuli hanno fatto bene a protestare in quel modo, facendo scena muta. Hanno portato l’attenzione sul sistema di valutazione: inadeguato. Hanno fatto sì che se ne parlasse. Viene in mente ‘Lettera a una professoressa’ della scuola di Barbiana, lì a farla da padrone era la voce del bocciato. In questa richiesta di attenzione non c’è, a mio avviso, dare troppa importanza ai professori; quanto la protesta coraggiosa di chi il sistema lo vuole cambiare”.
Andrea Fincato

“Una mia compagna di liceo, che viveva in periferia e la cui famiglia aveva non poche difficoltà economiche, disse che non poteva permettersi il nuovo manuale di Italiano. Il professore, col garbo di un banchiere svizzero sotto acido, rispose: ‘Allora avrai la preparazione mediocre che meriti’. Io mi arrabbiai moltissimo e lo tacciai di classismo. Lui mi rispose che non mi avrebbe fatta ‘sopravvivere all’anno’. Avevo diciassette anni. E a diciassette anni non hai ancora imparato che con certi adulti non si vince, si resiste, e decisi dunque di cambiare classe. Col senno di poi, ora che ne ho trentuno, ci rido. Ma a quei tempi, non avevo la ‘scafatezza’, come tu scrivi, di sorridere con ipocrisia elegante. Avevo solo una rabbia sincera. Quindi sì, ha ragione: un esame è una convenzione. E no, non dovrebbe avere il potere di definirti. Ma se un ragazzo oggi decide che non vuole sottoporsi a una cerimonia che non riconosce come sensata, non è detto che sia un errore. Potrebbe, paradossalmente, essere un atto di consapevolezza. Saper relativizzare è un dono che arriva col tempo — o con le cicatrici”.
Camilla

“Credo che le proteste degli studenti nei confronti di un esame che non li rappresenta sia un bel segno che questi adolescenti sono vivi e lottano per il loro futuro. Occupandomi di loro per mestiere, a volte li rimprovero perché troppo remissivi e ora invece scopro con grande gioia che hanno il coraggio di fare una cosa che io, ragazza ribelle e contestatrice degli anni Settanta del secolo scorso, non avrei mai avuto il coraggio di fare: boicottare un esame. E lo fanno usando al meglio l’arma della “media dei voti” (una follia questo calcolo dei punteggi, nessuno spazio per la fantasia, solo numeri e medie): posso contestare, andare sulle pagine dei giornali, senza rimetterci di mio perché tecnicamente sono già promosso grazie a quella media. La trovo una cosa geniale, un modo tutto loro di sottolineare quanto la società reale sia distante da loro, dai loro sogni, dai loro bisogni. Spero tanto che queste generazioni riescano a costruire un mondo migliore di questo schifo che noi abbiamo lasciato in eredità”.
Antonella Pagin

“Sono stato professore universitario (in fisica), ho partecipato per anni ai programmi per la preparazione degli insegnanti. Di questa storia mi è dispiaciuto che non si siano approfondite le ragioni del gesto. Penso che nasca da una richiesta di ascolto e di partecipazione. Non è solo una critica dell’esame in sé, quanto piuttosto un comunicare insoddisfazione sulla scuola in generale, che è sempre più competitiva (cioè meno collaborativa); che mira molto alle conoscenze, poco sulle competenze e pochissimo sulle capacità logico-interpretative della realtà; che vede sempre di più la presenza dei genitori (es. il registro elettronico); che vuole essere, nelle intenzioni dei vertici – dal ministro a qualche preside – impositiva e spesso risulta umiliante soprattutto per studenti che di discostano dalla norma. La protesta di questo ragazzo è una forma di disobbedienza civile e per questo andrebbe rispettata”.
Mc

“Lo dice la parola stessa: ‘maturità’ apre anche al diritto di esprimere un parere, un dissenso, un disagio. Un’idea legata al bisogno di cambiare il sistema scolastico non per ‘non essere giudicati’, altresì per essere considerati come persone con un progetto di vita, con delle speranze, con una cultura che nel percorso scolastico deve nutrirsi di una ricerca-azione come opportunità di costruire futuro… ‘Non una testa ben piena ma una testa ben fatta’, come insegna Morin, dove la valutazione diventa un processo di co-costruzione al fine di uscire dalla caverna e ri-uscire ad elaborare il proprio saper essere e il saper fare per diventare cittadini del mondo consapevoli e critici, motivati e vitali”.
Sonia Testoni (maestra in pensione)

“Questi ragazzi sono quelli che hanno affrontato la didattica a distanza durante i primi anni delle superiori. Per quale motivo quando eravamo chiusi in casa abbiamo ragionato sull’impatto della pandemia sui giovani e adesso non ne parliamo più? Quello è stato un punto di non ritorno, un momento in cui gli studenti, più scafati e agili, hanno dimostrato che di tecnologia ne sapevano molto più di professori che non si sono aggiornati per anni. Quando gli studenti sono tornati in presenza sono stati massacrati dalle verifiche, perché i solerti insegnanti dovevano finire a ogni costo il programma e gli studenti sono stati rimessi al loro posto dall’arroganza di chi aveva il potere. Il modo di apprendere e di trasmettere il sapere, nel frattempo, si è enormemente evoluto. In pratica è come se a farmi l’esame di guida ci fosse un cocchiere. Che credibilità avrebbe? Il ministro Bavaglio-Valditara interviene subito per ‘sorvegliare e punire’: no ai cellulari (quando sono strumenti per l’apprendimento meravigliosi), l’anno prossimo bocceremo chi fa scena muta (ma era la legge a permetterlo, visto il sistema di valutazioni in crediti). Tutti quelli che dicono ai miei tempi non hanno mai fatto i conti con la pandemia. Nessuno prima di questa generazione ha affrontato qualcosa del genere”.
Marco

“Anche io, millennial e docente alle medie, non ho potuto fare a meno di soffermarmi a riflettere sulle parole dei ragazzi in questi giorni. Ho ripensato ai miei anni di scuola e quanti docenti, bravissimi, bravi, nella norma, mediocri, pessimi e financo psicopatici ho incontrato, e penso che tutto sommato si sia trattato di un buon campione di ciò che è la realtà fuori, perché forse la prima cosa che insegna la scuola è a interagire con gli altri, mettendoci a contatto con una grande quantità di persone quotidianamente. Ricordo che le reazioni dei miei genitori di fronte alle mie lamentele su compagni e docenti erano l’ascolto ma anche un ‘devi imparare ad affrontare questa cosa perché quando sarai grande sarà peggio’. Così ho fatto, e gli sono grata per questa loro impostazione”.
Ilaria

“Premesso che non so nulla della biografia del maturando incriminato, lo storytelling che ci ho costruito lo fotografa come un omertoso ma virtuoso.
Il suo silenzio ha, almeno per me, sottolineato e denunciato il contesto criminale che regolamenta l’attuale esame di maturità; non voglio passare per cinica (stronza forse descrive meglio) ma, da genitore di un fenomeno che, alcuni anni or sono, è riuscito nell’impresa di non farsi ammettere alla maturità, ho approfondito l’argomento e ho realizzato che, se mancare l’ammissione è un’impresa non facile, non superare l’esame è praticamente impossibile, a meno di non consegnare gli scritti in bianco e non spiccicare parola all’orale. Ho percepito l’accaduto come conferma della mia idea che il sistema scolastico, anche secondario, è costruito a misura di docente e non di studente”.
Alessandra

“Il problema è che vedo solo genitori ansiosi e affannati scaricare le loro insicurezze sui pargoli. Da quando nascono, e forse anche da prima, è tutto uno sbocciare di paure, incertezze, patemi. Tutto questo viene ‘assorbito’ per osmosi dai primi istanti di vita e acuito in quella sorta di bolla iperprotettiva in cui crescono, a cui si vanno ad aggiungere i social. Riuscire a bucare la bolla e mandare davvero tutti a quel paese sarebbe una grossa conquista”.
Laura Beltramino

“Ritorna a galla dalla preistoria, dopo oltre 65 anni, la quinta ginnasio in cui fui rimandato a settembre in una sola materia, il francese, con esame disastroso e conseguente non promozione. Ovvero respinto e quindi ‘ripetente’. Uno stigma che mi ha perseguitato per tutti gli anni del liceo. Non v’era bisogno di chat più o meno velenose o social per il dileggio dei compagni e, in alcuni casi, anche di qualche professore per il quale tuttora conservo un sordo rancore. Il mio inestinguibile rammarico è non aver trovato, allora, la forza di un sereno e ben pronunciato ‘ma perché non ve ne andate tutti quanti a fanculo?’”
Raffaello

“Ho passato i quaranta, ho una famiglia e un lavoro avviato, non sono nemmeno certo di ricordare più tutti i nomi dei miei docenti e loro non si ricorderanno di me. Eppure pensando alla maturità ho ancora una piccola fitta. Una fitta che sa di impostura, di voto non meritato, di prova non superata, di pietà non richiesta. Le risatine molto paterne dei professori al mio orale tremendo, al quale dettero il voto massimo, le ho riviste anni dopo come umiliazioni, anche se forse volevano comunicare tenerezza e complicità. Una parte di me desidera tornare indietro e ridarla. Mi viene da pensare che di momenti di passaggio ne sono rimasti pochi, ma non sottovalutiamoli: sono una delle poche cose che non si possono rifare. Devono essere fatti in quel momento, poi non vale più. Per riprendere quel che dici, nel mio caso mi rubarono il vaffanculo. Al suo posto mi concessero al massimo un ringraziamento per la pietà dimostratami. Per un diciottenne, un furto crudele”.
Giovanni

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Le zanzare quelle vere parevano, quest’anno, molto incerte sul da farsi, erano poche, almeno qui al Nord, e meno rompiballe del consueto. Negli ultimi giorni, l’illusione di un’estate quasi dezanzarizzata è svanita. Sono comparse in massa, tutte in una volta, compatte ed entusiaste come il pubblico di un megaconcerto. I fornelletti con piastrina velenosa aiutano a sopravvivere dentro casa, basta non chiedersi che cosa eruttano, esattamente, quei rettangolini azzurri.

Ma è fuori casa, sotto la pergola e nelle cene all’aperto, che il boomer può esaltarsi con l’aroma proustiano dello zampirone, puro profumo di infanzia, aggeggio eterno (e secondo me del tutto inutile) che viene acceso ritualmente al primo zzzzzzzzz. Si conoscono solo un paio di persone al mondo in grado di separare senza romperli i due zampironi, che nella scomoda confezione, suppongo invariata da fine Ottocento, sono incastrati l’uno nell’altro. Molto difficile, diciamo pure impossibile, anche infilare lo zampirone nell’apposito supporto aguzzo senza rompere il supporto stesso, bucarsi un dito ed emettere imprecazioni che, di Regione in Regione, possono anche essere molto grevi.

Quanto alle zanzare metaforiche (lo ricordo per i nuovi entrati: questa breve rassegna di titoli strani o sbagliati o surreali o goffi si chiama “Zanzare mostruose” in onore di un leggendario titolo cubitale di prima pagina sulla Notte, quotidiano della sera milanese noto per la sua esuberanza. Il titolo era: ZANZARE MOSTRUOSE ASSEDIANO MILANO), questa settimana fa spicco, segnalato da Mario, un titolo della Gazzetta dello Sport involontariamente macabro:

SOSTIENE BETTINI: “LA BICI SA UNIRE. CHI CI INVESTE NON RESTA DELUSO”

Considerando che Bettini è un ex campione di ciclismo, oggi dirigente sportivo, c’è da temere per l’incolumità di chi pedala. Si resta nel macabro anche per la seconda segnalazione. Lo screenshot è di Massimo, il giornale è un settimanale di Tortona:

SETTEGIORNI VA IN FERIE DAL PRIMO DI AGOSTO
GLI ANNUNCI MORTUARI DI AGOSTO VANNO CONSEGNATI ENTRO IL 30 LUGLIO

Per consolarci, due cartelli di carattere gastronomico. Il primo, secondo me molto poetico (alla Lewis Carroll, ma anche alla Poldo Sbaffini) è esposto in una località imprecisata e ce lo manda Lucia:

INGRESSO PANINI

Definitivo, nella sua stagionalità indecifrabile, e comunque non sindacabile, questo cartello appeso a Macerata e fotografato da Chicca:

LA PORCHETTA TORNERÀ A SETTEMBRE

Coraggio, in fin dei conti basta aspettare poco più di un mese. Nel frattempo, dovunque voi siate, godetevi il posto e non guardate il meteo, che mette ansia. In alto i cuori!