Aspettando un luccichio
Una newsletter di
Aspettando un luccichio
Michele Serra
Martedì 23 aprile 2024

Aspettando un luccichio

«Non si era detto fino a un secondo fa che se c’è ancora una pallida differenza, tra il Pd e gli altri partiti, è la dimensione collettiva, è non essere il partito di una/un leader, ma un insieme fin troppo caotico di persone?»

Neve sull'appennino, 2024
(ANSA/Gianluigi Basilietti)
Neve sull'appennino, 2024 (ANSA/Gianluigi Basilietti)

Ma cosa è saltato in mente, a Elly Schlein? Da dove sbuca questa idea di mettere il suo nome nel simbolo del Pd? Mentre scrivo è lunedì mattina molto presto, ancora non si sa come andrà a finire la faccenda, i giornali pullulano di quelle che si chiamano “indiscrezioni”, nessuna delle quali illuminante. E come si dice in questi casi, ci sono anche cose più gravi a cui pensare: per esempio che fuori dalla mia finestra nevica (nevica! A 500 metri di altezza, il 22 di aprile) e sono preoccupato per il mio orto, ho appena piantato fragole e pomodori, ce la faranno?

Ma insomma, tornando a Schlein: non si era detto fino a un secondo fa che se c’è ancora una pallida differenza, tra il Pd e gli altri partiti, è la dimensione collettiva, è non essere il partito di una/un leader, ma un insieme fin troppo caotico di persone? Insomma essere una specie di “ultimo dei partiti politici” ancora in condizione di definirsi tale senza appiccicare all’insegna, come adesivo dell’ultima ora, un nome di persona, come un Salvini qualunque.

Ieri sera ero nello studio di Fabio Fazio, una delle poche occasioni nelle quali riesco ancora a sentirmi nel bel mezzo della cosiddetta civiltà – giornalisti, attori, epidemiologi, scrittori, cantanti, e Frassica che appena lo vedo mi mette di buon umore; peccato manchi da un po’ di settimane il mio idolo indiscusso, il Mago Forest. E se ne parlava, di questa cosa di Schlein, con un certo sbigottimento. I più cinici, anche con un certo divertimento. E una selva di punti interrogativi. Chi la consiglia? Da chi è circondata? Perché non dà retta a Prodi? Perché si candida per l’Europa, se già si sa che rimarrà a Roma per perfezionare il ruolo (davvero così necessario?) di anti-Meloni? Anche i più addentro, quelli che parlano con i palazzi un paio di volte al dì, quelli che hanno il numero di telefono di tutti, non avevano indicazioni speciali da mettere sul piatto della chiacchierata. E non sapendo più che dire, l’argomento del contendere è diventato rapidamente un altro: se la nuova canzone del superospite della serata, Renato Zero, della quale Fazio è entusiasta, è veramente notevole, oppure solo piacevole, oppure normale.

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Raccontavo, l’altra settimana, di quanto mi indispone il concetto “l’unica cosa che conta è vendere” (o “fare audience”, o “avere molti clic”). Sono quegli argomenti che affronto sempre con una certa esitazione perché sospetto siano un po’ datati. Nel senso che rimandano, inevitabilmente, agli anni della mia giovinezza, tutte le scapigliature e le ribellioni contro la società di mercato e il consumismo, gli studenti che in La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (’71) gridano agli operai lo slogan “I padroni vi rubano otto ore di sole”, la lettura (che ricordo faticosissima) dell’Uomo a una dimensione di Marcuse (’64), forse la prima vera e precoce “messa in chiaro” del potere subdolamente repressivo della società delle merci, con i media e la pubblicità primi imputati; e insomma, quegli anni e quei pensieri. Poi per fortuna scopro condivisioni non anagrafiche, non generazionali, e mi si apre il cuore. Delle mail (parecchie, come sempre) sulla questione, scelgo questa di Serena, che ha poco più della metà dei miei anni.

“È passato più di un anno da ‘Non vedo le barche volare’ ma quelle parole mi sono rimaste nel cuore. Mi dà conforto sapere che esiste una comunità di persone che pur non conoscendosi condividono dubbi e paure, e allo stesso tempo trovano forza e simpatia l’uno nelle lettere dell’altro. Le sue parole sul Criterio Unico del Fatturato hanno toccato un nervo scoperto. Provengo da una famiglia di piccoli artigiani con un fallimento alle spalle; pur avendo studiato con profitto non ho mai visto davanti a me grosse possibilità di carriera in un paese dove l’ascensore sociale è bloccato. Nonostante ciò, finora ho trovato nell’azienda dove lavoro da dieci anni una certa stabilità e (perché no?) anche gratificazione. Negli anni passati durante le riunioni aziendali si ribadiva l’importanza del ‘cliente interno’: un dipendente soddisfatto lavora meglio e ciò si ripercuote positivamente sui risultati dell’azienda”.
“Negli ultimi anni la musica è cambiata: hanno iniziato a dire che ‘il cliente è il nostro Dio’ e di conseguenza sono arrivati i ‘sacerdoti’ del culto del fatturato, cioè gli ingegneri gestionali. Come per la pubblicità delle patatine, non ‘grido alla bestemmia’, anche se i presupposti ci sarebbero. Fatto sta che da risorsa i dipendenti sono diventati costi; il lavoro ‘ben fatto’ (si torna sempre lì) non lo fanno più le persone, bensì i software. Alcuni manager si dispiacciono di aver perso dei grossi clienti a seguito delle sanzioni contro la Russia: il fatturato ne risente, dicono. Sono molto scoraggiata, perché mi pare che il Criterio Unico del Fatturato stia contagiando qualsiasi ambito, dai rapporti tra le persone (‘quanto mi rendi, quanto mi costi?’) ai rapporti internazionali (la libera circolazione delle merci nel Mar Rosso è più importante della libertà di movimento delle persone).
Zygmunt Bauman ha spiegato bene a cosa ci condanna una tale mercificazione dell’esistenza, eppure mi pare che il ‘se si vende, allora è tutto ok’ continui ad essere l’unico principio che guida le nostre vite”.
Serena (millennial, 37 anni)

Al tuo racconto, Serena, voglio aggiungere questo: non sono affatto sicuro che i “sacerdoti del fatturato”, intesi come categoria, sappiano il fatto loro. Ovvero: che la santificazione del cliente aiuti veramente a produrre meglio e vendere meglio. Per quanto limitato sia l’orizzonte del mio lavoro (scrivere), dopo cinquant’anni che lo faccio sono sicuro, anzi sicurissimo, solo di una cosa, che dirò in modo un po’ rozzo, ma spero efficace: più cerchi di fare quello che piace a te, più quello che fai piacerà anche agli altri. Se cerchi di ricalcare, o imitare, o inseguire, le presunte esigenze del pubblico, non solo non sei sincero con te stesso, non solo rischi di fare peggio quello che potresti fare meglio, ma non sei nemmeno sicuro di “onorare il fatturato”.

Per capirci, e per non parlare solo di me stesso, che è sempre una brutta cosa: questo giornale venne ideato e fondato, ormai quattordici anni fa, da persone che volevano fare proprio questo giornale, perché il giornalismo che a loro piace è questo, è il Post (con tutte le variazioni e i limiti che poi le condizioni oggettive impongono, naturalmente). E se il Post ha funzionato – come si dice: ha avuto successo – è esattamente perché i lettori riconoscevano, nel prodotto, la volontà dei produttori, i loro gusti e la loro sensibilità. E volevano condividerli. Non credo esistesse, “a monte”, una lettura dei “gusti dei lettori” così precisa da poter determinare “che giornale fare”. Tanto vale fare il giornale che si ha voglia di fare, e poi vedere come va a finire la storia. Se hai lavorato bene, nove su dieci le cose andranno bene.

Non so se questo valga, oltre che per la scrittura, anche per chi produce bollitori, o lampadari, o vestiti o qualunque altra cosa. E certo, se a te piace molto fabbricare arpioni da pesca, non cercherai di venderli a chi abita in montagna; e non aprirai un negozio di ramponi da ghiaccio in riva al mare. Ci deve essere un nesso, voglio dire, tra prodotto e cliente, e ci deve essere una logica in ogni tipo di compravendita. Ma sono sicuro che se il lavoro è insincero, o svogliato, o forzato da logiche astratte, o da arzigogoli di marketing, il pubblico se ne accorge. E dunque torniamo effettivamente, come dice Serena, al discorso sul “lavoro ben fatto” dal quale questa newsletter prese avvio. La merce contiene il lavoro di chi la fabbrica. Se quel lavoro è stato minimamente autentico, e gratificante, si vede e si sente.

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Sta nascendo l’archivio on line dell’opera completa di Sergio Staino. Si chiamerà “satira e sogni”, sarà accessibile a tutti. Mezzo secolo di storia italiana nel lavoro di uno dei grandi protagonisti della satira: non solo vignette, anche storie lunghe e interventi i più svariati nell’infinità di giornali e riviste sui quali Sergio ha pubblicato. Il lavoro (tantissimo) è a carico di Bruna, Ilaria e Michele, che di Sergio, che se ne è andato lo scorso ottobre, sono la moglie e i figli – nonché i co-protagonisti di gran parte delle storie di Bobo. Per affrontare le spese, che sono tante, gli Staino hanno lanciato un crowdfunding. Non manca molto all’obiettivo. Chi volesse saperne di più o contribuire può andare qui.

Restando nell’ambito (per fortuna vasto) degli amici, dei compagni di viaggio di tutta una vita, e dei luoghi felici nei quali si è passato del tempo insieme, sabato sera sono stato in Langa per fare festa. Era una festa funebre, a un anno dalla morte di Azio. Azio Citi, per i tanti che non l’hanno conosciuto, era un artista naturale. Nel senso che ci era nato, artista, e già quando andava alle elementari (oggi scuole primarie) in quel di Bra, intratteneva i suoi compagni raccontando storie e facendo imitazioni. Questa la sua prima caratteristica: artista. La seconda caratteristica era la statura: molto, molto basso. La definizione scientifica è nanosomia. Carlo Petrini, suo sodale per tutta la vita, lo chiamava “la mia metà”.

Con Petrini e Giovanni Ravinale, Azio formò un trio inverosimile, che si chiamava “i Madrigalisti d’oltre Tanaro”, che spopolò al Club Tenco negli anni ruggenti (fine Settanta e tutti gli Ottanta). Il brodo di coltura artistico, per avere un’idea, era un mix di goliardia, cabaret, canzone popolare. Il brodo di coltura umano, molto boomer e anche pre-boomer, era quello di “Amici miei”.
Al Tenco, nelle nottate interminabili dopo lo spettacolo, ho conosciuto almeno la metà delle persone che hanno dato un segno e una direzione alla mia storia professionale e anche umana. A partire da Sergio Staino, che del Tenco è stato presidente negli ultimi anni. Non faccio l’elenco perché sarebbe interminabile e perché sembrerei uno che si vanta – anche se la fama, se sei amico di famosi, è solo riflessa. Volevo solo dire che l’amicizia, nella vita, conta almeno quanto l’amore. Provate a fare i vostri conti personali, e ditemi se non è vero.

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Sono molto in ritardo con le vostre mail, devo ancora leggerne parecchie. Anche Zanzare Mostruose ne risente e si concede un turno di vacanza. Cerco di rispondere privatamente a tutti o quasi, e non solo per dovere, soprattutto perché mi fa piacere (la newsletter è un genere confidenziale, vuol dire che ci si parla). Dunque abbiate pazienza. La settimana che comincia oggi si preannuncia un poco più tranquilla. E poi fuori nevica, e a parte le preoccupazioni per l’orto la neve è sempre un bel vedere. Ci si rilassa. Muta il ritmo del tempo. “Fiocca la neve lenta, lenta, lenta”. Pascoli sarà anche ninnante e lezioso, ma di tutti i poeti italiani è quello che mi dondola sempre nella testa, ed è un bel dondolare. E poi, come è noto, quando voleva sapeva essere “noir”, inquietante, fosco. Sentite che meraviglia e che spavento, sempre sulla neve:

Vento del Nord che porta
e neve e fame e stento:
la macchia irta e contorta
ulula di spavento.
Passano neri stormi
in frettoloso oblìo,
passano nubi informi.
Tutto nell’aria oscura
fugge e s’invola— addio —
da non so qual sventura.

Aggiungo io gli ultimi due versi, correttamente in rima e pascoliani:

Ma sfuma la paura
al primo luccichio.