La sega a nastro di ognuno
Una newsletter di
La sega a nastro di ognuno
Michele Serra
Martedì 14 febbraio 2023

La sega a nastro di ognuno

(Chip Somodevilla/Getty Images)
(Chip Somodevilla/Getty Images)

«Quando ho finito di metterla su, e abbiamo fatto il collaudo, e sembrava che camminasse in cielo, liscia come l’olio, mi sentivo come se mi avessero fatto commendatore, e ho pagato da bere a tutti». Così parla di una gru, in La chiave a stella di Primo Levi, l’operaio montatore Tino Faussone, eroe del “lavoro ben fatto”. Il romanzo, decisamente uno dei miei libri del cuore, è del 1978. Lo stesso Levi pochi anni dopo, in un’intervista radiofonica, sosteneva che “lavorare bene non è solo un dovere, è una salvazione”.

Una salvazione, che parola splendida: sta a “salvezza” come “liberazione” sta a “libertà”. Indica un processo, un percorso. Non è uno stato acquisito: è una conquista. Si diventa salvi. Si diventa salvi imparando a montare a regola d’arte una gru, pezzo dopo pezzo. Se lo hai fatto, è perché sei capace di farlo.

Negli ultimi anni, specie ascoltando le persone più giovani, mi domando in che misura, e per chi, il lavoro possa ancora essere “una salvazione”. Sono cambiate molte cose nella natura stessa del lavoro (l’automazione lo ha smaterializzato, nel bene e nel male; il precariato lo ha dequalificato, nel male). E sono cambiate molte cose nella percezione soggettiva del lavoro, nell’importanza che gli viene attribuita. Dovessi riassumere l’idea che me ne sono fatto: il lavoro non è più così determinante nella formazione dell’identità, nell’immagine che ciascuno ha di se stesso. Conta di meno. Conta vivere – e vivere e lavorare non sono più la stessa cosa.

La domanda, enorme, è se questo stia accadendo, o sia già accaduto, solo per demerito del lavoro – diciamo così – ovvero per la sua perdita di controvalore salariale e di prestigio sociale (“a salario di merda, lavoro di merda” è uno degli slogan più acuminati del Sessantotto); oppure stia accadendo per un mutamento culturale e sociale profondo, una specie di “tramonto della fatica” che rende molto più arduo cogliere il potere di salvazione del lavoro. Fatica fisica, fatica intellettuale, fatica psicologica come zavorre del passato, idealizzate dalle generazioni precedenti per indorare la (loro) pillola.

Non sperate che io sappia rispondere a domande come queste. È già tanto riuscire a formularle in modo quasi decente.

La faccenda, anche da un punto di vista politico, è molto intricata. In un famoso, citatissimo passo dell’Ideologia tedesca, affascinante anche letterariamente, Marx e Engels, criticando la divisione del lavoro nell’economia capitalista, immaginano una società nella quale «la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico». È il rifiuto del lavoro come riduzione della persona a una sola mansione, come disumanizzazione. Ci sono oceani di bibliografia, di cinematografia, di pensiero politico sull’alienazione da lavoro, sull’essere umano ridotto a pezzo della macchina, ingranaggio del sistema.

«I padroni ti rubano otto ore di sole», gridano gli studenti all’operaio sgobbone Lulù (Gian Maria Volonté) in La classe operaia va in paradiso, film di Elio Petri del 1971. Tempi moderni di Chaplin, l’omino inghiottito dalla macchina, è del 1936, molto anticipatore, sembra un film “del Sessantotto”, ecco a che cosa serve un genio. Giorgio Gaber, nel ’66, canta Il tic:

Lavoravo in quel di Baggio
in catena di montaggio
e giravo una ramella
sempre una, sempre quella
ed un giorno fu così
che mi venne fuori un tic.

Mi fermo qui, non basterebbero dieci puntate di Ok Boomer! per dare un’idea della interminabile (e interminata) produzione di pensiero e di arte “contro il lavoro”, ovvero sul lavoro come gabbia dalla quale evadere. Questo per dire: attenzione, con la retorica del lavoro. È un’arma a doppio taglio. Ci sono ottime ragioni per diffidarne.

Almeno altrettante ragioni, però, concorrono a celebrarlo, il lavoro. Il giorno più bello dell’anno, per me, è quando arriva la sega a nastro per tagliare i tronchi che ho portato, in buona compagnia, fuori dal bosco (abito su per i monti). Una grande catasta di legna profumata, ben tagliata e bene allineata – ciliegio, roverella, cerro, frassino, olmo, robinia, a seconda di quello che il bosco concede – rappresenta il trionfo dell’uomo sull’inverno. È una fatica notevole ma un’emozione ancestrale, difficile da raccontare a chi non l’ha mai provata.

Rimanendo in argomento, il libro La lezione del legno, del francese Arthur Lochmann, racconta come un giovane docente universitario, in piena crisi esistenziale, possa rinascere (la salvazione…) diventando carpentiere: «si impara a pensare con le mani». Pensare con le mani, che bellezza: la divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale svanisce nel trionfo del corpo umano che si muove con destrezza, e in armonia.

I carpentieri, in Francia, sono pagati bene, a me per tagliare la legna non mi paga nessuno (pagherei io per farlo). Forse una cosa importante da dire, dunque, è che tra “fare bene le cose” e venire pagati per farlo non è detto che debba esserci coincidenza. Ma quando questa coincidenza esiste – cioè quando vieni pagato per fare qualcosa che ti piace fare –, la felicità è a portata di mano. Delle tue mani.

Scrivo questa newsletter e mi imbatto (per utile coincidenza) nel lavoro di un giornalista quarantenne, Riccardo Maggiolo. Sta scrivendo un libro dal titolo provvisorio Lavorare è da boomer. Perfetto. E dopo i boomers, che prima o poi si leveranno di torno, chi lavorerà, e come si lavorerà? Maggiolo prende in considerazione tre dimensioni del lavoro: sostentamento, identità, trascendenza. Ovvero si lavora per sfamarsi e coprirsi; poi per trovare la propria collocazione nella comunità; infine, “per lasciare qualcosa dopo di noi, per onorare e incarnare un valore che possa sopravviverci”. La generazione del dopoguerra lavorò per il sostentamento; quella successiva (la mia) per identità; ora “siamo all’inizio di una nuova fase in cui a prevalere sarà la trascendenza”. Lettura positiva e ottimista della transizione in corso, come se il lavoro stesse per diventare (o potesse diventare) qualcosa di definitivamente separato dalla sofferenza, dall’asservimento e forse anche dalla “fatica” tanto cara alla mitologia delle generazioni passate. Di ottimismo, del resto, abbiamo un gran bisogno.

Prego il dio dei carpentieri e degli accatastatori di legna, e prego il beato Faussone, montatore di gru, che davvero questo possa accadere. Ovvero che si lavori, in futuro, mai più per bisogno, ma per lasciare un segno del nostro passaggio. Utopia? Era utopia anche il sogno marxiano che si potesse essere, nella stessa giornata, pescatore, cacciatore, pastore e critico. Non è andata a finire proprio così: ma è stato bello immaginarlo.

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Mentre guardo Sanremo sento annunciare con enfasi che con i Måneskin si esibirà il grande chitarrista Tamburello. Chi sarà mai questo Tamburello, mi domando. Mi sembra molto bravo, ma non l’ho mai sentito nominare. Il giorno dopo leggo che si trattava di Tom Morello, fondatore dei mitici Rage Against the Machine. Ogni persona della mia età, in seguito a episodi simili, può reagire in due maniere molto diverse. La prima è lamentarsi della pessima qualità dell’audio Rai. La seconda è prenotare la sua prima visita audiometrica.

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Ringrazio i tanti che hanno scritto a Ok Boomer!. Tra le tante scelgo, perché molto beneauguranti, queste parole di Alessandra, psicoterapeuta quarantenne. «Nel mio lavoro incontro e ascolto bambini, preadolescenti, adolescenti e adulti. I non-boomer sono molto pazienti nel raccontarmi e spiegarmi le innovazioni tecnologiche e sono altrettanto attenti e curiosi nel sentirmi raccontare la mia giovinezza senza cellulare, internet e social. Passiamo molto del nostro tempo di psicoterapia a riflettere sulla velocità e sulla lentezza, sulle app e sulle telefonate o i ritrovi in piazzetta. È davvero arricchente. Per tutti».

Tag: lavoro