La banda ultralarga che non c’è

Penso da molti anni che la politica delle reti digitali sia un tema importantissimo che ci riguarda tutti. Il bivio attraverso il quale si deciderà come saranno le nostre vite in futuro. In Italia, non da oggi, questo tema è inscindibile dalla storia di Telecom Italia e questa è la ragione per cui, da qualche anno a questa parte, da quando collaboro con Telecom per alcuni progetti culturali, ho scelto di scrivere un po’ meno di politica delle reti rispetto a quanto non facessi in passato. Non mi sembrava elegante e nemmeno troppo opportuno, anche se le mie idee al riguardo non sono troppo cambiate e sono nella disponibilità di chiunque (nel libro che ho scritto, nelle discussioni pubbliche a cui ho partecipato, nei post del mio blog ed anche in alcune cose che ho messo qui sul Post) e sono sovente idee che non coincidono (sulla neutralità per esempio) con quelle di Telecom. Così valga questo primo paragrafo come disclaimer per l’eccezione a questa regola che mi sono dato fino ad oggi e che oggi, per una volta, mi sento di dover interrompere.

Quello che sta avvenendo negli ultimi mesi a margine del piano per la banda ultralarga (BUL) è abbastanza paradigmatico. Lo scopo del piano è semplice e lineare e riguarda l’interesse dei cittadini, prima ancora che le indicazioni dell’Unione Europea fino al 2020. Mettere assieme pubblico e privato per costruire un’infrastruttura di rete veloce che copra tutto il Paese.

Ora lasciamo perdere le cose che si dicono sempre in questi casi, quelle per cui tutti hanno sempre ragione. Per comodità ve ne elenco qui alcune senza commentarle: sono tutte vere e tutte in qualche misura irrilevanti.

Telecom Italia da ex monopolista gode di un vantaggio strategico sull’infrastruttura. Gli altri operatori lottano da anni per avere parità di accesso. Gli investimenti sulla rete fissa sono stati per molti anni ridotti e posticipati dal mancato ritorno economico. I poteri regolatori di Agcom sono spesso insufficienti. Gli operatori hanno investito dove c’era da guadagnare subito (reti mobili 3 e 4G). Gli adempimenti burocratici per stendere fibra o mettere celle telefoniche sono in Italia rigidissimi e nelle mani di mille soggetti differenti e rendono vana ogni programmazione.

Quello che è successo ad un certo punto, anche se nessuno lo dice, è che il piano BUL è fallito nella sua parte più politica: mettere d’accordo gli operatori incentivando con i fondi europei e nazionali i loro investimenti nelle zone a fallimento di mercato. La politica delle reti per l’ultrabroadband in Italia oggi, sotto il governo Renzi, era tutta lì: non conta nulla scrivere un testo decente (quello approvato lo è, da moltissimi punti di vista) se poi manca la capacità politica di riunire tutti gli attori attorno a un tavolo in nome dell’interesse nazionale. Le ragioni di un simile consumato fallimento sono molteplici e di difficile stima, ve ne elenco alcune, anche in questo caso senza commentarle troppo.

L’ostinazione di Telecom a voler mantenere per sé un ruolo di controllo. La diffidenza ormai ventennale degli OLO verso l’ex monopolista. Il ruolo di terzo incomodo della CDP e di Bassanini con la sua volontà di utilizzare la piccola Metroweb come ago della bilancia fra attori molto più grandi. La vasta impreparazione di molti dei soggetti che Renzi ha messo in campo di volta in volta nelle difficile partita.

Anche tutte queste ipotesi sono irrilevanti se osservate dal punto di vista dell’interesse pubblico. L’unica cosa certa è che l’accordo alla fine non si è fatto, Telecom se ne è andata sbattendo la porta, Bassanini ha iniziato a scrivere acidi messaggi su Twitter, soprattutto qualcuno dalle parti di Palazzo Chigi, a fallimento avvenuto, si è fatto venire questa idea incredibile di costruire una rete in fibra utilizzando le competenze (?) di Enel.

Questo è il punto nevralgico di tutta la vicenda. Solo un burocrate spericolato chiuso nel proprio ufficio può immaginare che l’infrastuttura digitale del Paese sia in fondo un gingillo tecnologico alla portata di chiunque, un po’ di fili, qualche centralina l’accesso ai contatori casalinghi degli italiani e poco d’altro. Che le competenze si possano improvvisare da un giorno all’altro, che le scelte della politica delle reti per tutti gli italiani debbano nascere non da un disegno strategico inclusivo ma dalla reazione ad un insuccesso a governare il cambiamento attraverso le vie naturali.

Se le premesse ideologiche del coinvolgimento di Enel potevano essere sostenibili (Lo Stato diventa proprietario della rete in fibra nelle aree periferiche a fallimento di mercato e la noleggia a chiunque lo desideri) il risultato pratico per ora è assai diverso. Enel è scesa in campo ed ha annunciato i propri investimenti in fibra nelle aree ricche (i cosiddetti cluster A e B), vale a dire nelle zone già cablate a proprie spese dagli altri operatori, annunciando accordi commerciali con gli operatori antagonisti di Telecom (Vodafone e Wind). Contemporaneamente, nelle dichiarazioni del suo AD alla stampa, è rimasta vaga, mostrando modestissimo entusiasmo, verso un intervento nelle zone meno appetibili al business di cui si dovrà far carico. Le uniche nelle quali il governo ha necessità di investire subito per non fallire i traguardi del piano europeo.

Chiamata alla propria funzione di salvatore della patria (del resto si tratta di un’azienda a capitale statale), ora Enel si accomoda senza imbarazzi al tavolo di quelli che vogliono guadagnarci, duplicando reti dove già ne esistono, perturbando (con soldi pubblici) il mercato delle TLC e tutto questo nel silenzio della politica che ha ispirato simili discese in campo. Non è difficile definire simili strategie per quello che sembrano: ripicche e contrapposizioni della serie “adesso ti faccio vedere io” senza troppe relazioni con l’interesse diffuso. Decisioni umorali che avranno pesanti ricadute sul contesto generale.

La situazione della nostra infrastruttura di rete è drammatica e non da ieri, ben fotografata da tonnellate di numeri di Eurostat che non andrò a ripetere per la milionesima volta. Il Paese soffre di un digital divide culturale che non ha eguali in Europa e che è in grado da solo di inficiare qualsiasi virtuosismo che fosse possibile immaginare per l’ultrabroadband. Ma il divario culturale non interessa quasi a nessuno per una ragione molto banale: perché non consente risultati nel breve periodo e soprattutto perché non genera grandi commesse per l’industria. Nessun lobbista busserà alla porta di Matteo Renzi per raccomandare investimenti per rendere gli italiani più digitali ed esperti nell’uso delle nuove tecnologie e quindi cittadini idonei ad utilizzare estesamente le reti di nuova generazione. Mentre c’è la fila per accreditare la propria nuova e rivoluzionaria autostrada informatica pronto uso alla modica cifra di.

Si tratta di un tema squisitamente politico e occuparsi del ruolo più o meno famelico di questa o quell’azienda pubblica o privata, dell’astio ormai consolidato di A contro B, non ci porterà da nessuna parte. Non sono Telecom Italia o Vodafone o Wind o Metroweb o Enel il nostro attuale problema, non direttamente. Il problema è quello di dotarsi di un governo del digitale credibile, che sappia di cosa si sta parlando, che non prenda decisioni fondamentali per il futuro della rete in Italia con troppa leggerezza.

Che decida con cognizione di causa – finalmente – su un tema rilevantissimo per il futuro dei nostri figli. Un tema della cui importanza, da sempre la politica in Italia, ha solo vaga e mercantile cognizione.

Massimo Mantellini

Massimo Mantellini ha un blog molto seguito dal 2002, Manteblog. Vive a Forlì. Il suo ultimo libro è "Dieci splendidi oggetti morti", Einaudi, 2020