I “talent” sulla via dei “reality”

I “reality”, come li chiamavano, sono morti: ne avete letto un po’ ovunque da tempo, di come un’idea televisiva nuova e sovversiva – per quanto disdicevole qualcuno la ritenesse – abbia via via perso ogni capacità di sviluppo e aggiornamento, e si sia ridotta a modelli che si replicano senza più nessuna inventiva. Si fanno reality, o declinazioni di reality, o cose che si chiamano reality (che poi di reale hanno molto meno di una partita di calcio, ma questo è un altro discorso), come si fanno variazioni di talkshow politici. Cambiano le sedie e il conduttore, al massimo.
A un certo punto la tv si è eccitata all’idea che un’altra nuova categoria con un altro nuovo nome – i “talent” – potesse rimpiazzare quei successi e quelle opportunità di sparigliamento dei palinsesti. E per un po’ è stato vero, per quanto la novità fosse più contenuta: perché un po’ c’erano stati già i reality, a fingere di mostrare la spontaneità di persone qualsiasi, e un po’ c’era già stata la Corrida. Ma oggi anche i talent sono finiti nella stessa crisi creativa: ne potete guardare uno per pubblico giovane e modaiolo o uno per anziani da Raiuno, e tutti i meccanismi letterari e formali sono identici: luci, montaggi, riprese, artificiosi colpi di scena, dialoghi, costruzioni di drammaticità. C’è probabilmente una manualistica. O qualcuno si inventa qualcos’altro, o anche nel varietà leggero l’innovazione sarà altrove, non più in tv.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).