Il salto del vampiro

Per la prima mezz’ora di visione del nuovo episodio cinematografico di Twilight (“Breaking Dawn”) mi sono ripetuto che era per via del non aver mai visto nemmeno un minuto delle puntate precedenti che avevo l’impressione che si trattasse di una boiata pazzesca. Con il raddoppio di frustrazione di sentirmi quindi contromano in autostrada, tra file di spettatori che invece apprezzavano e capivano cose che io no. Compresa mia moglie.

Il rapporto della mia famiglia con Twilight è stato intenso e confuso, nell’ultimo anno. Un giorno, in assenza di altre programmazioni interessanti, mia moglie è andata in un cinema di montagna e ha visto il secondo film, senza saperne niente: è tornata entusiasta. Così ha coinvolto nostra figlia ottenne in un ripassone generale e per settimane mi hanno parlato di cose che non capivo. Poco dopo siamo stati tutti a fare un bellissimo viaggio di dieci giorni a Seattle, Vancouver e dintorni, e – tuttora mi chiedo se sia avvenuto per caso – a un certo punto ci siamo trovati a passare a una cinquantina di miglia da Forks, Washington.

Forks, Washington, è un buco di cittadina di 3000 abitanti circa. Al suo ingresso c’è uno di quei cartelli che indicano il numero esatto, come negli spaghetti western. Quando l’autrice di Twilight ha cercato su internet quale fosse il posto più piovoso degli Stati Uniti per ambientarci la sua storia, ha scoperto che era Forks, Washington. Il successo dei libri e dei film di vampiri, licantropi e grandi amori ha quindi imprevedibilmente ribaltato la vita di Forks, Washington. Che ora è raggiunta quotidianamente da frotte di turisti che vanno a vedere la macchina di Bella, la scuola di Bella, l’ufficio del padre di Bella, e i negozi di souvenir, eccetera.
E noi chi eravamo, per perderci quest’occasione?

Così siamo stati a Forks, abbiamo fatto le foto con il cartello Forks, con la macchina di Bella, e siamo passati davanti a scuola sua, eccetera. Me compreso, che non avevo mai visto un minuto di Twilight ma stavo diventando espertissimo, pensavo. Fino a ieri, quando siamo andati a vedere il quarto film, finalmente (senza la bambina, previ consigli raccolti su Twitter sull’inopportunità: consigli quanto mai affidabili).

Dopo mezz’ora di visione mi sono convinto che no, non era perché non avevo visto gli altri. Era una boiata pazzesca. Il film funziona così: c’è un dialogo inconcludente e insignificante di un minuto, poi parte una musica forte e ci sono molti sguardi sofferenti e compresi, e dei paesaggi o dei petali di rose, una specie di mediocrissimo videoclip per due o tre minuti, fino a che la musica forte si interrompe e qualcuno dice di nuovo qualcosa, insignificante e inconcludente, e riparte il videoclippone inutile con una canzone brutta, e così via. E vi garantisco che io sono uno di quello che si fa fregare sempre, dalle canzoni nei film, e arrivo a casa e lo compro tutte su iTunes: ma queste erano una noia mortale, inesistenti, lacrime nella pioggia, per restare in tema. Nel frattempo in questo modo se n’è andata quasi un’ora e non è successo praticamente niente: i personaggi sono tutti orrendi e pallidi, hanno dei nasi o molto grossi o con i buchi molto grossi, e lo spettatore dovrebbe essere molto coinvolto e preoccupato del fatto che i due giovani sposi non facciano del sesso perché se no lui che è vampiro la schianterebbe in due (giuro: intanto l’ha fatto con un letto, di schiantarlo in due). E allora giocano a scacchi, in un’isola brasiliana, con delle gran musiche intorno.

Poi a metà il film cambia: resta una boiata pazzesca, ma l’elemento centrale non sono più i videoclip e gli sguardi, ma una serie di assurdi confronti tra i personaggi – resi appena un po’ più vivaci dai balzi e dai ringhi di alcuni grossi lupi – che culminano in un lunghissimo splatter finale, più macabro e schifoso di qualunque film horror, per cui ringrazio tutti quelli che su Twitter hanno consigliato di non portarci la bambina. Se aveste detto a mia moglie di non portarci me sarebbe stato meglio ancora, ma si impara da tutto.

Tutto questo non sarebbe infatti particolarmente interessante se non per due pensieri generali: uno è sulla povertà creativa di cui sono capaci produzioni anche di grandi risorse e prezioso capitale di credibilità. Fatte un miliardo di proporzioni, la stessa che riguarda la copertina del nuovo disco di Venditti: è così difficile aggiungere della bellezza, dell’invenzione, dell’intelligenza, allo standard minimo di partenza? Evidentemente sì.
L’altro riguarda l’offensiva considerazione in cui vengono tenuti teenagers e spettatori di tutto il mondo, che si crede di intortare trasformando una storia potenzialmente avvincente e che è stata capace di esserlo in una successione di mediocri scene da telefilm in cui parte la musica e ci si commuove per familiarità con i personaggi. Io ero lì di passaggio, e non credo di tornarci, ma fossi un giovane fan di Twilight mi sentirei trattato come un cretino, a cui basta vendere un prodotto ammuffito per fregarlo.

Ah, mia moglie è d’accordo.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).