Una Biennale fatta di sogni, visioni e utopie

La 55esima edizione della Biennale d’Arte nasce fortunata sotto la pioggia sferzante di un fine maggio anomalo, e, in effetti, ci sono tutti gli auspici che un augure avrebbe potuto facilmente decifrare con un responso positivo: un curatore giovane, competente, serio che ha avuto due anni per lavorare a questo progetto; una istituzione che non si ferma mai a guardarsi allo specchio, ma che ogni volta cresce sopra fondamenta solide; nuovi paesi che si accreditano e che aprono padiglioni ed eventi interessanti; Sgarbi che dichiara che questa Biennale fa schifo.

Premetto che io non mi posso considerare un “esperto” di arte contemporanea, anche se dai primi anni Novanta non perdo una Biennale d’Arte, e mi nutro costantemente di ogni forma di ricerca creativa che guardi avanti, cercando il coraggio della coerenza culturale e visioni generose. Ma il blog lascia anche al semplice “amatore” la possibilità di esprimersi e di essere smentito, e forte di questa condizione, mi espongo.

La Biennale di Massimiliano Gioni credo che passerà come una delle migliori edizioni tra le ultime ideate e prodotte, per il semplice fatto che si è caricata della responsabilità di confrontarsi seriamente con il secolo appena passato, cercando una linea narrativa chiara e, nello stesso tempo, aperta al mondo che fluisce e che sta cambiando in maniera così travolgente.
Il tema del “palazzo enciclopedico” che lega con ossessiva chiarezza gli interventi tra l’ex Padiglione Italia ai Giardini e l’Arsenale è, giustamente, una condizione con cui confrontarsi.
La nostra modernità è fondata sul sogno/incubo della catalogazione e del controllo razionale del mondo che ha vissuto negli ultimi due secoli filoni di ricerca, derive, reazioni contrarie, approfondimenti psicotici, visioni che hanno nutrito la nostra arte e il nostro modo di costruire lo spazio che abitiamo.

Enciclopedia e memoria/ labirinto e amnesia sono gli elementi antinomici attraverso cui potremmo narrare una parte rilevante della nostra storia moderna nel pensiero e nelle immagini prodotte. Un elemento si accompagna all’altro in un legame indissolubile che ci racconta della paura profonda di soccombere alla complessità perdendone il controllo, facendoci sopraffare da una condizione di cui abbiamo smarrito definitivamente i confini e gli strumenti, terrorizzati dalla perdita di memoria, ricordi, immagini di cui ci continuiamo a nutrire per non scomparire dal palcoscenico fragile della Storia. Ed è sintomatico che anche la prossima Biennale d’Architettura, alla fine si confronterà con questo “problema” che è insieme un “tema” per il nostro futuro da affrontare con strumenti diversi da quelli ideati e utilizzati nel secolo scorso.

Ma se c’è una cosa che ho apprezzato di questa Biennale è stata proprio la modalità con cui Gioni e il suo gruppo di ricerca hanno guardato e raccontato tutti gli autori, ovvero con una gentilezza e una serietà assoluta, priva di moralismi, ma attenta alla storia di ogni artista invitato.
La selezione racconta molto di questo percorso avviato, ogni testo è scritto con attenzione e grande qualità, e, soprattutto, per la prima volta da molto tempo non abbiamo assistito alla sovrapposizione egotica del curatore sulla sua mostra, ovvero: metterci la faccia senza farsi il monumento.
Abbiamo anche bisogno di questi atteggiamenti e di queste modalità curatoriali per andare oltre, per superare una fase storica intossicata d’individualismo autoreferenziale e quasi indifferente agli autori coinvolti.

Ma vorrei tornare al tema scelto, a quel “palazzo enciclopedico” che è Babele della nostra mente, e utopia degli ultimi due secoli che abbiamo appena lasciato alle spalle. È interessante e significativo che Gioni cerchi nel lavoro di tanti artisti, auto-didatti, disadattati, e anonimi creatori le tracce per raccontare della quasi impossibile relazione tra l’urgenza del controllo, della catalogazione instancabile e l’immaginazione come una forma possibile per dare corpo a questo tentativo.

Il curatore scrive nella sua introduzione al catalogo:

«l’esposizione sviluppa un’indagine sui modi in cui le immagini sono utilizzate per organizzare la conoscenza e per dare forma alla nostra esperienza del mondo. (..) L’esposizione adotta un approccio antropologico allo studio delle immagini, concentrandosi in particolare sulle funzioni dell’immaginazione e sul dominio dell’immaginario. Quale spazio è concesso all’immaginazione, al sogno, alle visioni e alle immagini interiori in un’epoca assediata dalle immagini esteriori? E che senso ha cercare di costruire un’immagine del mondo quando il mondo stesso si è fatto immagine?»

Si tratta d’interrogativi pesanti che si confrontano con una situazione generale in cui il format è più importante dell’idea, generando un impoverimento diffuso di contenuti e di senso che aumenta lo smarrimento in cui ci sentiamo coinvolti.
E decidere di tornare sulla ragione e il valore delle visioni e delle immagini interiori, cercando di recuperare il silenzio e la consistenza delle ricerche libere da vincoli di mercato e marketing credo sia un segnale molto importante da offrire in questo momento.
Nelle decine di lavori spesso suggestivi ed emozionanti di autori molto conosciuti, come di una serie lunghissima di personaggi risuscitati dal profondo della nostra storia, a costruire uno dei possibili musei della nostra cultura recente, ho riscoperto una sensazione di benessere e di gratitudine per quanti, nella loro vita e, in un silenzio spesso assordante e doloroso, hanno cercato il senso e la bellezza profonda nei mondi che vivevano quotidianamente.

Paradossalmente il terrore ossessivo da horror vacui che, probabilmente, ha segnato le ricerche di tanti di questi autori anonimi non traspare nella mostra, ma i risultati di questo lavorio anonimo diventano esperienza di forme dell’immaginazione che ci liberano dal diktat di una soluzione unica, finale, che ci potrebbe, apparentemente, rassicurare. Anzi, la costruzione di percorsi alternativi alla comprensione dell’immaginario di questo secolo esce arricchita di spunti, intuizioni da portare avanti, esperienze da approfondire, tracce da scavare con attenzione e amore.
E la serie a volte disorientante e densa di materiali e idee finisce con il rendere secondario il formato, la tecnica che viene utilizzata, perché il senso della selezione delle opere sta nella capacità di partecipare a un racconto che ci viene offerto e a cui guardare laicamente.
Perdetevi tra le sale, e costruite la vostra geografia di immagini, autori e conoscenze da ricomporre insieme ad altre storie da scoprire e condividere.

Una ultima riflessione riguarda la quasi totale assenza di riferimenti alla Rete, come se il curatore ci volesse obbligare a un mondo analogico e di lentezze manuali, ma non credo che questa operazione culturale vada letta come reazione al mondo in cui siamo immersi.
Semmai è un monito e, insieme, un suggerimento a guardarsi meglio intorno, a scavare con maggiore cura dopo aver dato forma alle domande, al senso che mettiamo in ogni nostro gesto, interrogandosi veramente se siamo ancora capaci di creare immagini capaci di scatenare pensieri e visioni, o se siamo diventati immagini noi stessi pronte solo a essere consumate.

La Biennale di Gioni è profondamente intima, guarda al nostro rapporto con le visioni e gli immaginari che ci popolano e di cui siamo schiavi, ed è per questo che sembra mancare una lettura “politica” dell’arte e del suo impatto sull’interpretazione di un mondo che sta cambiando così radicalmente intorno a noi. Questo forse è uno dei grandi limiti di questa rassegna veneziana, ma potrebbe anche essere interpretata come un richiamo a guardarsi dentro, almeno per un attimo, e a cercare nei labirinti della mente e delle ossessioni che condividiamo, senza saperlo, con tante altre persone una risorsa di bellezza e ispirazione che non possiamo permetterci di perdere.
Una civiltà incapace di costruire narrazioni complesse e letture aperte della realtà che vive e che trasforma non ha un orizzonte di crescita immaginabile, e aver cercato di mettere insieme tanti sogni, visioni e utopie intime ci potrebbe aiutare a condividere un percorso possibile in cui sarebbe interessante continuare a ricercare nel prossimo futuro.

Luca Molinari

Luca Molinari, storico e critico d’architettura, vive a Milano ma da qualche anno è professore ad Aversa presso la facoltà di architettura. Cura mostre ed eventi in Italia e fuori (Triennale Milano, Biennale Venezia, FMG Spazio e molto altro). Scrivere per lui è come progettare, e l’architettura è la sua magnifica ossessione. Dirige www.ymag.it sito indipendente di architettura e design