“Abbiamo tutti avuto un anno difficile” (Beatles #95-86)

Astrid Kirchherr e Stuart Sutcliffe

Il 12 maggio di quest’anno è mancata Astrid Kirchherr, la fotografa amburghese che conobbe i Beatles quando erano cinque scemi inglesi che suonavano negli strip-bar del porto ed ebbe un ruolo determinante nel modellare la loro immagine, con scatti che gridano “rockstar” in un periodo in cui nessuno ne aveva ancora vista una. A quel tempo portava i capelli corti, ma ha sempre negato di aver inventato il taglio alla Beatle. Si era fidanzata con Stuart Sutcliffe, il più sfortunato dei cinque, e forse è la vedova a cui Lennon non sa cosa dire in Baby’s in Black. Neanch’io so bene cosa dire. Andiamo avanti con la nostra classifica, a che punto siamo?

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95. You Can’t Do That (Lennon-McCartney, A Hard Day’s Night, 1964).

“Sono tutti verdi [di invidia] perché sono quello che ha vinto il tuo amore. Ma se ti vedono parlare in quel modo, mi rideranno in faccia!” In seguito Lennon avrebbe sostenuto di non aver mai scritto una canzone su sé stesso almeno fino al 1965: fino a Help! Nowhere Man non era che un “professional songwriter”, un tecnico che monta qualsiasi combinazione di parole, purché funzioni. Il che significa semplicemente che fino al 1965 Lennon non si rendeva conto di scrivere di sé stesso: ed è proprio questa inconsapevolezza ad averlo portato a comporre alcune delle liriche più sincere. You Can’t Do That, il primo vero brano in cui Lennon riesce a comunicare attraverso la musica una genuina sensazione di frustrazione, inquadra perfettamente l’aspetto sociale del problema: la gelosia non è un istinto primario tragicamente insopprimibile, come in Run For Your Life. A provocarla è una preciso comportamento provocatorio (rituale, si direbbe) commesso davanti a un pubblico che il Maschio Alfa non può permettersi di deludere. Tutto qui, non c’è altro: perlomeno non c’è amore e in questo senso You Can’t potrebbe essere considerata la prima vera lirica non-d’amore dei Beatles: la ragazza non è particolarmente desiderata, è un puro bene posizionale che John ha conquistato e ora deve difendere, spalleggiato da coretti mai così gregari. (“I’m going to let you down and leave you flat”). Come nella di poco successiva No Reply, il cantante non fa che sottolineare che la questione non è nuova, ma si è ripresentata almeno una volta: il problema non è tanto che Lei sia sensibile al fascino di un altro maschio, ma che la cosa sia già successa dopo una prima severa reprimenda, il che è intollerabile. Non c’è nessun cuore spezzato di fronte alla constatazione che qualcun altro può essere più affascinante: c’è la stizza di padre-padrone che si aspetta di essere obbedito al volo e di non dover ripetere gli ordini due volte. Del resto è proprio questo insistere sul fatto che “non puoi farlo” a farti sospettare sin dall’inizio che Lei lo rifarà.

 

94.  I’ve Got a Feeling (Lennon-McCartney, 1969, Let It Be).

“Everybody had a hard year”. Che inizio straordinario per una grande canzone, pensateci. In quanti casi funzionerebbe. “Abbiamo tutti avuto un anno difficile”. Non sentite come ci accomuna e ci assolve, come ci fa sentire meno soli? I giornalisti potrebbero farci titoli per un secolo, tanto di anni difficili ne avremo sempre. Potrebbe tranquillamente essere il primo verso di canzone più citato al mondo, al posto di, boh, Imagine? Peccato che nessuno l’abbia scritta, una canzone che comincia così. Cioè Lennon l’aveva scritta, ma poi stava per buttarla via, e alla fine l’ha appiccicata in coda a una canzone di McCartney. Poi uno dice perché vi siete sciolti, oh yeah.

C’è la musica dei Beatles e c’è la leggenda dei Beatles, e ho la sensazione che entrambe siano talmente interessanti che si reggerebbero da sole, ovvero: tante canzoni dei Beatles sarebbero meravigliose anche se non conoscessimo nulla di chi le ha scritte e suonate; e allo stesso tempo certi libri sui Beatles  sono appassionanti anche se la loro musica non la conosci o ti lascia indifferente. Musica e leggenda a volte si intersecano ma senza disturbarsi – almeno fino a Let It Be. L’ultimo disco dei Beatles è il momento in cui la leggenda prende il sopravvento sulla musica, schiacciando col suo peso canzoni come I’ve Got a Feeling, come I Me Mine, o Two of Us, che chissà, forse sarebbero anche belle canzoni, ma persino dopo centinaia di ascolti il critico coscienzioso si può domandare se le ha mai davvero ascoltate. Che sarebbe di I’ve Got a Feeling se non l’avessero suonata i Beatles sul tetto della Apple, e proprio nel momento più delicato della loro carriera? Esiste I’ve Got a Feeling a prescindere dal contesto, come la Terza di Beethoven senza Napoleone?

Probabilmente no. I’ve Got a Feeling – decisamente non paragonabile a una sinfonia di Beethoven – è un brano interessante ma non abbastanza da far dimenticare il suo ruolo narrativo; se quella dei Beatles fosse una storia inventata, come forse qualche postero comincerà a credere tra qualche anno, I’ve Got a Feeling sarebbe un necessario snodo di trama, di quelli che a una prima visione non sembrano memorabili, ma un esperto di sceneggiature approverebbe l’economia. In tre minuti e mezzo I’ve Got a Feeling ci racconta che (1) i Quattro vogliono tornare al rock’n’roll, ma (2) vogliono anche suonarlo meglio di sempre, meglio dei concorrenti che rispetto al 1962 si sono fatti agguerritissimi, e a questa cosa (3) Paul ci crede anche più di John, e però (4) per essere una rock’n’roll band dovrebbero tornare a essere una band: scrivere i pezzi assieme, suonarli assieme fino a ridiventare una cosa sola. Peccato che (5) non ce la stiano facendo: ormai Paul ha la sua storia, John ne ha un’altra, puoi anche provare a sovrapporle ma non funziona più, e (6) non è colpa di nessuno, accettiamo la cosa e andiamo avanti, oh yeah, ho questa sensazione. Ecco, la grandezza di I’ve Got a Feeling sta tutta qui, in quello che ci racconta, mirabilmente e sinteticamente, più con la musica che con le parole.

Incastrare canzoni era una cosa che Lennon e McCartney facevano da sempre, e non è nemmeno la prima volta che il risultato finale mantiene qualcosa di artefatto: ancor prima di A Day in the LifeWe Can Work It Out era già una canzone a due facce, che esibiva il suo carattere composito. Proprio come nella hit del 1965, Paul e John si allineano istintivamente sulle due metà del bicchiere mezzo pieno. Più che ottimista, stavolta Paul è proprio entusiasta: è innamorato, è felice di esserlo, suona nella rock’n’roll band più grande di sempre e vuole dimostrarlo sgolandosi nel bridge mentre al basso snocciola qualcosa che sembra sempre più un virtuosismo: ovvero il futuro del rock, per quanto lo si poteva vedere in quel freddo gennaio 1969. Cream e Hendrix mostravano la via e Paul qui sembra voler raccogliere la sfida con una tensione agonistica, e che almeno questa volta non riusciamo a ricollegare all’invidia per il collega/rivale John.

John, dal canto suo, ha un personaggio da rispettare: il teddy boy che se c’è da suonare duro non si tira indietro. Eppure il suo contributo a un brano hard rock come I’ve Got a Feeling è una filastrocca, “Everybody Had a Hard Year” già registrata in casa l’anno precedente – sì, l'”anno difficile per tutti” è proprio quel mitologico 1968. Nelle prime registrazioni che abbiamo, John la canta su quell’arpeggio ostinato e ipnotico che da Dear Prudence porta a Julia, da cui due possibilità: che si trattasse di un testo scartato proprio per far posto all’inno alla madre-moglie Julia, oppure che John in quel periodo usasse l’arpeggio (appreso in India) come un vero e proprio raga, un tappeto di note impassibili che lo aiutava a mantenere la concentrazione. Sia come sia, è comprensibile che John fosse restio a buttarlo via. Era un’idea interessante, descrivere il passaggio collettivo del tempo e delle mode e delle angosce proprio nel momento in cui gli anni cominciavano a farsi complicati, le barbe crescevano e poi d’un tratto sparivano, le droghe cambiavano all’improvviso. Inserita in coda ad I’ve Got a Feeling, la filastrocca introduce quel solito elemento di pessimismo che aveva già speziato altre canzoni di Paul (We Can WorkGetting Better). Tutto già collaudato, eppure… qualcosa non va. Non c’è più una sintesi finale, ognuno continua a cantare la propria canzone, l’unica cosa su cui si riesce ancora a convergere è “Oh yeah”. Manca qualcosa e forse è proprio il feeling… (oh, quel magico feeling).

 

93 I’ve Just Seen a Face (Lennon-McCartney, Help!, 1965)

Prima delle granny songs ci fu almeno un’auntie song, o perlomeno Paul l’aveva soprannominata “Auntie Gin’s”, perché piaceva tanto a sua zia Gin. Ecco uno di quei dettagli che tutti i testi riportano ma che per molto tempo non sai bene dove sistemare, mentre cerchi di parlare di una breve canzone che sembra celare un segreto. I’ve Just Seen a Face è un brano tipico dei Beatles che non assomiglia a nessun altro brano dei Beatles, già questo non è fantastico?

Voglio dire, hanno scritto duecento pezzi in otto anni quei benedetti ragazzi, ma I’ve Just Seen a Face la riconosci a colpo sicuro. Qualcuno la trova country ma no, è acustica ma non suona così country. E a parte l’introduzione, molto più lunga e complessa del solito (soprattutto rispetto alla brevità del pezzo), è fatta di ingredienti così semplici che sin dal 1963 i Beatles erano consapevoli di non poterli spiattellare su disco senza modificarli un po’: ad esempio la strofa è un giro di Do, una cosa talmente anni ’50 che in inglese la chiamano proprio così, “Fifties progression“. È una soluzione che perseguita Lennon e McCartney sin dai loro inizi, ma che i due giovani compositori sono quasi sempre riusciti a eludere, introducendo deviazioni e altri trucchi. Qui no, la strofa di I’ve Just Seen è un giro di Do rapido e senza vergogna, o forse una spia della vergogna è proprio la fretta dannata, sembra che Paul non veda l’ora di arrivare al brano successivo, e se avete presente il brano successivo sapete che è proprio così.

Se aggiungi che il ritornello prende la progressione del blues, beh, sembriamo davvero arrivati al raschiamento finale del barile: eppure il risultato non suona né anni ’50 né blues, come mai?

La prima risposta del critico in erba di fronte a domande del genere è gridare al miracolo. McCartney è un genio, ecco fatto. Facile e appagante – anche perché di solito scrivi per un pubblico che non vede l’ora di sentirtelo dire. Con oggetti di scena frusti dall’uso si è inventato un meccanismo efficace, che aggiunge a un disco già ricco di trovate due minuti irresistibili. Bravo, grazie.

Poi una sera ti imbatti in un vecchio filmato di McCartney che la suona coi Wings – non sono poi molte le canzoni dei Beatles che riproponeva in quel periodo – e di colpo è tutto più chiaro. I’ve Just Seen a Face è un numero skiffle, tutto qui. Lo skiffle era il rock’n’roll artigianale che suonavano John e Paul e George quando ancora si chiamavano Quarrymen, e strimpellavano tre chitarre per fare più baccano possibile. Ecco perché piaceva alla zia – probabilmente era una di quelle cose che canticchiava già da ragazzo e aveva portato in dote al complessino. Ecco perché già la versione di Help! è unplugged, senza basso, con due o tre chitarre e Ringo forse suona con le spazzole. Non c’è nessun mistero: bastava unire i puntini. Quelli che scambiamo per colpi di genio molto spesso sono soltanto riferimenti che non abbiamo ancora trovato.

 

92. No Reply (Lennon-McCartney, Beatles for Sale, 1964).

This happened once before. Pochi mesi prima, il terzo favoloso album dei Beatles si era aperto con un accordo esplosivo, avvolgente, e un grido di entusiasmo: lavoriamo come dei cani ma siamo troppo su di giri per dormire. Pochi mesi dopo, il quarto interlocutorio disco dei Beatles comincia in sordina, con Lennon che attacca un pezzo senza introduzione: ed è un brano rancoroso, introspettivo, sviluppato su un ritmo che non assomiglia a niente se non forse a una bossanova. Cosa sta succedendo. C’erano brani senz’altro più energici persino in Beatles For Sale, ma l’idea di iniziare tutto nell’ombra di No Reply è probabilmente la trovata migliore del disco. Per la prima volta i Quattro decidono di mettere a disagio l’ascoltatore.

No Reply è un brano curioso, complesso, forse non del tutto riuscito, ma che meglio di tanti altri illustra la tendenza dei Beatles a non accontentarsi, a spostare il confine delle cose possibili, prendendosi non pochi rischi. È un pezzo che per la prima volta evoca una determinata atmosfera, uno spazio oscuro in cui si dibatte un personaggio vittima della propria gelosia. È una sensazione creata più dalla musica che dalle parole – queste ultime abbastanza artefatte, ispirate a Lennon da altre canzoni più che da un’esperienza vissuta (l’idea di spiare la ragazza dalla finestra proviene da un classico doo-wop, Silhouettes; quanto a quel “I tried to telephone”, lui stesso avrebbe chiarito di non aver mai telefonato a una ragazza in vita sua, le case inglesi non erano ancora equipaggiate di telefoni fissi). E allora perché John sembra così sincero, così plausibile nel ruolo del maschio sconfitto – un ruolo in aperto contrasto con quello che i Beatles avevano impersonato fino a quel momento sui media?

Forse è il modo in cui la canta. Senonché abbiamo a disposizione su Anthology 1 di un paio di out-takes (la prima particolarmente spassosa) che ci confermano un’antica sensazione, ovvero: No Reply non nasce come una canzone cupa.

La progressione armonica della strofa è quasi tutta in maggiore: la melodia è una delle variazioni pentatoniche amate da John, anche quando rischiano di risultare un po’ zuccherose e No Reply nella sua prima versione correva esattamente questo rischio: era ancora una canzone yeh-yeh, anche se abbinata a un testo più drammatico. Bisognava trovare un modo per adeguare la musica alla storia e credo che è a questo livello che bisogna ringraziare Paul McCartney. Non per il bridge un po’ lungo e anticlimatico, che in qualche ultima dichiarazione ha lasciato intendere di aver trovato lui. Negli ultimi anni Paul ha lasciato intendere molto senza offrire pezze d’appoggio: ma il bisticcio di parole con cui comincia il bridge ha qualcosa di inconfondibilmente lennoniano: “se io fossi in te, capirei che io ti avrei amato meglio di chiunque altro”.

A mio trascurabile parere i veri interventi di Paul possono essere stati altri, e determinanti. Il ritmo ad esempio, che Ringo suona con qualche espressiva esitazione: è un’ipotesi ma in tutti gli altri rari casi in cui i Beatles hanno bazzicato la bossanova, Paul era sempre il mandante. La bossanova era una scelta incongrua ma almeno impediva al brano di suonare troppo yeh-yeh: costringeva le chitarre ad abbassare i toni e questo andava nella direzione giusta: ma il vero colpo di genio è quel passaggio di accordi in minore a metà strofa, che nella prima versione non c’era. Il momento in cui John grida “I saw the light” (e “I nearly die”), e la sua disperazione si associa immediatamente a un accordo che sembra inventato in quel momento e invece… pare che sia un semplice la minore.

Uno abituato a identificare sia i Beatles che la bossanova con gli accordi assurdi può persino rimanerci male, ma come? Sembra molto più sofisticato. Probabilmente c’è una lieve dissonanza con quello che nello stesso momento fa Paul, con la seconda voce (e col basso). C’è come una sensazione di minore settima che prosegue subito dopo col mi minore – sono come due rintocchi a morto su una storia d’amore, e poi finalmente un accordo strano, ah ecco almeno uno c’è – un Famaj7. Niente di eccezionale eppure è come se i Beatles energetici di A Hard Day’s Night avessero aggiunto un’intera dimensione alle loro composizioni. No Reply è il primo loro brano che lascia un sapore amaro in bocca, qualcosa con cui è difficile riconciliarsi. Anche il titolo è uno dei più ambigui mai messi in nero su bianco da Lennon: “nessuna replica” indica sia il silenzio-assenso della ragazza fedifraga davanti alle accuse, sia la reazione finale del Protagonista: non ci sarà replica, la storia è finita. Il disco invece è iniziato. Non sarà il solito allegro disco dei Beatles, questo è già abbastanza chiaro.

 

91. From Me to You (Lennon-McCartney, singolo, 1963).

Da da da, da da dumb dumb da. A volte bisognerebbe avere il coraggio di dare anche a Neil Sedaka ciò che è di Neil Sedaka – quando gli chiesero, ehi Neil, ma i Beatles? Lui si limitò a rispondere: “The Beatles? No good”. Piuttosto laconico ma anche diplomatico, da parte di un tizio la cui carriera è stata devastata da quella di quei Quattro come da uno schiacciasassi.

Molto spesso, quando parliamo dei Beatles gli storici della musica e del costume sono tentati dall’affermare che siano stati i primi a fare questo, i primi a fare quello. Il che non è mai vero al cento per cento e in molti casi è il risultato di un effetto ottico: se quello che fecero i Beatles ci sembra rivoluzionario rispetto al pop precedente è soprattutto perché non vediamo i passaggi intermedi: e se non li vediamo è perché in molti casi i Beatles se li sono mangiati. È capitato pure a me, quando ho sottolineato la questione del gender-swap: i Beatles fecero faville negli USA proponendo una versione mascolina, inedita, del teenpop americano femminile. Il che non è sbagliato: quel che non è vero è che questa idea sia venuta solo ai Beatles, o ai Beatles per primi. Nello stesso periodo c’erano fiori di autori e interpreti che stavano tentando una via maschile al teenpop: Sedaka, Paul Anka, mettiamoci pure i Beach Boys.

Magari questo coincideva con un’ideale di mascolinità molto addomesticato, il classico ragazzo acqua e sapone e felpa del college, o giacca e cravatta, questa sì completamente spazzata via dalle irruenti chiome esistenzialiste dei Quattro teppistelli. Ma se i Beatles invasero l’America, facendo letteralmente fuggire Sedaka e soci dalle top10, fu perché malgrado tutta la loro attitudine da teddy boy proponevano esattamente gli stessi garruli ritornelli, per esempio a chi si chiede meravigliato come mai il passo successivo all’esplosione di Please Please Me fosse una cosa molto più tranquilla e confidenziale come From Me to You, vale la pena di notare che nelle classifiche inglesi, in quel ’63, languiva dolcemente Neil Sedaka con Breaking Up It’s Hard to Do, meglio conosciuta con l’immortale verso “Come on come on down doo bee doo down down”.  Davvero stupisce che i Beatles rispondessero con quel “Da da da, da da dumb dumb da”? Ma come, cioè i Beatles, questi geniali innovatori, stavano semplicemente mettendosi sulla scia del singolo pop che stava andando più forte in quel momento? Precisamente. Senza scrupoli – quelli che un anno prima li avevano trattenuti dall’incidere How Do You Do It: ecco, non ne avevano più. Era bastato cominciare ad annusare un po’ di soldi seri.

From Me To You fu già salutata da alcuni critici come una delusione, il segno che la meteora era già entrata nella fase discendente, e ancora oggi risulta essere il Lato A più basso in classifica dopo The Ballad of John and Yoko, nonché il primo brano in assoluto del Disco Rosso che ascoltiamo risalendo. Il Disco Rosso è la storica antologia The Beatles 1962-1966, la più grande collezione di hit da classifica messe assieme da un gruppo solo su un LP doppio. Ci sono tutti i singoli di quei cinque anni commercialmente incredibili, e a quanto pare il brano più debole è From Me To You. Che comunque è un brano interessante, con quel riff cantato e fin troppo cantabile sottolineato dall’armonica (cromatica), che irride comunque le convenzioni melodiche: se i “Da” sono semplici note, i “Damb” slittano per un intero tono; c’è quel bridge che parte in Sol minore creando una profondità confidenziale a un brano fino a quel momento semplicissimo, e finisce con un tocco imprevedibile, quel “whooo” acuto cantato a due voci. Dopo lo choc di Please Please Me, qui c’è l’altro lato del mestiere: la stoffa con cui si riesce a produrre qualcosa di interessante anche con poco tempo a disposizione e non molte idee originali. I Beatles sono i Beatles perché tra un colpo di genio e l’altro riuscivano anche a mandare a segno cose come From Me to You. Whooooo…

 

90.  Yellow Submarine (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).

And our friends are all on board… La prendo un po’ lunga: all’inizio di Amadeus c’è questa gag straordinaria del vecchio Salieri che suona i suoi più grandi successi a un giovane confessore che deve ammettere di non averli mai ascoltati. Finché Salieri con un sorriso amaro, intona un motivetto che la mia generazione associa inevitabilmente al coro “Sai chi è / quel giocatore che / gioca a calcio meglio di Pelè…”, e quella il confessore la riconosce al volo, come noi del resto. La canticchia pure. A quel punto siamo tutti contenti finalmente di essere inciampati in qualcosa che conosciamo. Ma abbiamo anche già intuito che quel qualcosa non l’ha scritto Salieri: l’ha scritto Mozart. E così il film riesce a persuadere noi ignoranti che Mozart è davvero un genio, perché? Perché ha scritto il Requiem? il Don Giovanni? No: perché lo cantano anche allo stadio.

Yellow Submarine è la canzone da stadio dei Beatles. È l’unica che da bambino avrei saputo cantare anche se non ne avevo mai ascoltato la versione dei Beatles, anzi quando alla fine la incontrai rimasi un po’ deluso, mi immaginavo un technicolor disneyano e invece è un numero artigianale, alla buona, una cosa tra amici. Davvero, Yellow Submarine è un coro di amici, ma anche di colleghi di lavoro: come quando si portano i pasticcini in ufficio per un compleanno e si stacca tutto dieci minuti prima. Perché poi i Beatles di Revolver sono ancora dei professionisti con un occhio all’orologio, e tutto questo popò di festa con megafoni e gavettoni e belle ragazze e anfetamine gialle è confinato in due splendidi minuti e mezzo. Nei dischi successivi i Beatles si prenderanno molto più tempo per lanciarsi coriandoli e altre sostanze, ma nessuna festa riuscirà mai meglio di questa.

È incredibile che Yellow Submarine non sia nemmeno tra le prime 89 canzoni in classifica, sotto ad I’ll Follow the Sun, i critici hanno le pastiglie gialle nelle orecchie. Tra un paio di secoli magari i Beatles li conoscerà soltanto qualche vecchio all’ospizio. Ai giovani operatori assistenziali canticchierà A Day in the Life senza attirare nessuna attenzione, canticchierà Strawberry Fields Forever ottenendo soltanto sguardi perplessi. Finché non intonerà “In the town where I was born”, e allora sì, allora sorrideranno anche loro: questa la conosciamo, l’ha scritta lei? Complimenti.

(Il Sottomarino Giallo si muove nelle profondità di un progetto più volte abbozzato e mai veramente intrapreso: un disco sull’infanzia a Liverpool. “There are places I remember”, cantava John l’anno precedente; “In the town where I was born” riecheggia Ringo, e anche se nessuno è consciamente autorizzato a identificare il “man who sailed to sea”, non c’è modo di scacciare dal fondale il pensiero del padre di John, il marinaio che voleva portarlo da bambino in Australia e a quel punto i Beatles non sarebbero mai nati. Yellow Submarine è anche il tentativo di trasformare un passato difficile, tragico, impestato di ricordi della guerra, in un paradiso infantile: come se un bambino avesse trovato una vecchia foto di uno degli ordigni più orribili mai concepiti dall’uomo, un cilindro pressurizzato dove qualche decina di uomini vivono gomito a gomito in attesa di uccidere o essere uccisi, e decidesse di colorarlo col pennarello più sgargiante che ha, quello giallo).

89. I’ll Follow the Sun (Lennon-McCartney, The Beatles For Sale, 1964).

The Beatles – Beatles for Sale

Io non c’entro niente, non guardate me. I’ll Follow the Sun è una vecchissima canzone di McCartney – una delle prime a essere composta dal ragazzino, e si sente; è riciclata dai Quattro nel momento più disperato della loro fulminea carriera, ovvero quando nel 1964 stanno per partire per l’ennesimo tour senza un LP da vendere, e decidono coerentemente di registrare le prime cose che gli vengono in mente: qualche cover di cui fino a quel momento si erano vergognati, qualche pezzo buono ma che finirà eclissato da tanta mediocrità, qualche pezzo strano che alla fine dà a tutta l’operazione quel senso di incompiutezza che lo distingue, e siccome comunque non si arrivava alla mezz’ora incisero anche I’ll Follow the Sun, con quella tipica strumentazione acustica che per un pezzo lento è la scelta più facile: vogliamo anche dire la più paracula? Ok, l’abbiamo detto.

I’ll Follow the Sun ha il sapore acerbo, indefinito ma inconfondibile del pezzo scritto da un principiante che aveva in mente una melodia ma non sapeva ancora metterci gli accordi giusti, e mentre li cercava si è dimenticato anche un po’ della melodia. Sono brani sghembi che è facile trovare nelle opere prime di molti artisti, mentre i Beatles avevano inciso già quattro album prima di cominciare a svuotare i cassetti. È probabilmente l’unico brano dei Beatles con quella progressione di accordi, ma è abbastanza per trovarcela davanti al numero 89, davanti a Yellow Submarine? Non chiedete a me, non porto pena, in questo caso fu USA Today quattro anni fa a mettere in fila 188 canzoni dei Beatles e a dichiarare, senza spiegazione, che I’ll Follow the Sun si era classificata 27esima. Secondo me se l’erano dimenticata e all’ultimo momento l’hanno infilata nel primo buco che hanno trovato.

 

88. I’m a Loser (Lennon-McCartney, The Beatles For Sale, 1964).

I’m a Loser contiene uno dei versi più necessari della letteratura mondiale, ovvero: is it for me or for her that I’m crying? Non dico che dovremmo recitarlo tutti ogni volta che stiamo per metterci a piangere – ma quando abbiamo finito sì, vale sempre la pena di porsi il problema: per chi abbiamo pianto davvero? Come abbia fatto la Saggezza nel tardo 1964 a impossessarsi di una rockstar impasticcata che cominciava a stufarsi del carrozzone non si sa, non è chiaro – nel Libro dei Proverbi c’è una strofa gustosissima in cui la Saggezza pur di arrivare agli uomini si reca agli incroci delle strade, un luogo dove si esercitava uno specifico mestiere, che per gli autori biblici era quasi un’ossessione, ecco, invece la nostra ossessione sono le rockstar e quindi semplicemente la Saggezza non fa altro che svendersi, nei secoli dei secoli.

I’m a Loser contiene un altro verso fondamentale per la carriera compositiva di John Lennon, ovvero I’m not who I appear to be, il primo tentativo di scrollarsi di dosso quel personaggio pubblico che in quel periodo gli stava stretto (non solo metaforicamente: in quei mesi aveva preso parecchi chili, va’ a sapere per quale pillola o quale crisi di astinenza da). Il pretesto narrativo è ancora quello di una insoddisfazione amorosa, ma Lennon sta cominciando a credere in quel che canta: persino la scipita rima “crown/clown” già opzionata dai Platters in The Great Pretender che si era ripromesso di non usare mai adesso ha un senso, adesso può essere cantata senza sembrare una sciocchezza: di lì a Help! il passo è breve.

I’m a Loser segue No Reply e precede Baby’s in Black in quella che i beatleologi chiamano la trilogia lennoniana, i primi tre pessimistici pezzi di Beatles for Sale. Se appare meno innovativa di No Reply è per un effetto ottico: l’armonica che irrompe nell’inciso non è un ritorno alle origini ma l’annuncio di un nuovo continente appena scoperto. È una diatonica, stavolta: quando uscì I’m a Loser era il primo brano ad avere un distinguibile sapore folk se non proprio dylaniano, benché già completamente stilizzato; come se Lennon fosse riuscito a distillare quegli aspetti che rendevano in un qualche misterioso motivo Bob Dylan il personaggio più cool della sua generazione anche se non era chiaro ancora a nessuno (a Dylan meno di tutti) in cosa consistesse tutta quella coolness. Qui, come quattro anni dopo in Long Long Long, il proposito è di estrarre da Dylan la quintessenza poetica o anche soltanto l’anima pop, tagliando tutto quel grasso folk, tutta quella cultura del Midwest che ai Beatles e ai loro acquirenti non interesserebbe. Paul suona la tipica linea del walking bass, proprio come un turnista di New York o Nashville che cerchi di stare dietro con professionalità a un folksinger dagli accordi imprevedibili. È un annuncio di cose a venire: Beatles for Sale esce a dicembre, Dylan registrerà la sua prima canzone elettrica in gennaio, Subterranean Homesick Blues. Gli accordi di John non sono così imprevedibili, ma I’m a Loser è un esperimento senza il quale non avremmo avuto nemmeno You’ve Got to Hide o Norwegian Wood. D’altro canto se fosse davvero un capolavoro non starei citando tutte queste canzoni – sul serio quanti altri titoli ho scritto in tremila battute? I’m a Loser non è nemmeno la prima canzone che mi suggerisce Google se scrivo il titolo, il che per una canzone dei Beatles è una vera umiliazione (so why don’t you kill me).

 

87. You Won’t See Me (Lennon-McCartney, Rubber Soul).

Una delle cose che mi fa impazzire di internet è che puoi rivalutare qualsiasi cosa. Davvero, se getti via il primo strato di hater – come il primo strato di neve sporca quando ne cadeva un mezzo metro, ma che ne sapete voi millenial – ci trovi un universo di gente che ama qualsiasi cosa tu stia googlando. Prendi, che ne so, uno dei pezzi dei Beatles che ti piace di meno, prendi You Won’t See Me. Vai su Beatles Bible e trovi gente che ne va matta, la gemma nascosta di Rubber Soul. Piaceva tanto anche a Bob Marley, forse per via di una cover giamaicana che a quanto pare ebbe un ruolo seminale nel definire quello ska rallentato che sarebbe diventato il reggae, ok, molto interessante, ma stiamo davvero parlando di You Won’t See Me?

Tu invece non hai mai capito che senso avesse, a parte quello ovvio di ennesimo ultimatum di Paul McCartney a Jane Asher: perché te ne vai in tournée quando io sono a Londra? Perché resti a Londra quando io sono in tournée? Perché non ti rassegni al tuo ruolo di lady Beatle come Maureen che fa la parrucchiera o Cynthia che fa, beh, fa la moglie di John? Perché non ti fermi semplicemente ad ammirarmi, come qualsiasi altra ragazza della tua età sarebbe felice di fare? Quando dico che Paul è disarmante mi riferisco a canzoni del genere. John quand’è geloso senz’altro fa più paura, ma è un sentimento che si lascia facilmente interpretare come senso d’inadeguatezza. Paul invece ti lascia senza fiato, tanto genuinamente è sorpreso che una persona non lo consideri il centro dell’universo.

Nel bridge di You Won’t See Me c’è un bisticcio che ricorda quello di No Reply: “I wouldn’t mind if I knew what I was missing”. Se ci riflettete non ha nessun senso, almeno in una delle tre frasi Paul avrebbe dovuto mettere un “you” ma non gli viene spontaneo quanto ripetere costantemente io, io, io: e del resto Jane non sta più ascoltando. In comune le due canzoni hanno anche il telefono, strumento non già di comunicazione ma di tortura per il Maschio che non riesce a controllare la linea. (“When I call you up, your line’s engaged. I have had enough, so act your age”). You Won’t  e No Reply disattendono uno dei luoghi comuni dei beatleologi – l’assioma per cui Lennon parla sempre di sé mentre Paul preferisce inventarsi personaggi e ambientazioni. Stavolta è proprio l’opposto: Lennon in No Reply costruisce un bozzetto smaccatamente fittizio – la ragazza alla finestra che si nega al telefono – mentre Paul in You Won’t See Me sembra aver perso tutti i filtri narrativi. Sta parlando di sé stesso, di una relazione che non riesce a condurre nella direzione che vorrebbe: sta esprimendo la sua frustrazione, un senso di inesorabile estraniamento affettivo che si esprime anche nel contrappunto, quella scala cromatica discendente talvolta sottolineata dai coretti – persino gli ammiratori di You Won’t See Me ammettono che quegli “ooh la la” in falsetto non sono la soluzione ottimale, anche perché nella versione europea di

Paul McCartney e la moglie Linda (1971).

Rubber Soul precedono gli “ooh la la la” di Nowhere Man. La scala cromatica riappare poi ribaltata, ascendente, al termine della strofa, dopo che Paul ha cantato il titolo: “you-won’t-see-me”

Uno dei contributi inconsapevoli dei Beatles all’emancipazione di genere è il modo in cui certi verbi che definiscono il corteggiamento nelle loro canzoni diventino unisex: il caso più famoso è belong, “appartenere”, usato per indicare una condizione passiva finché Lennon, ispirato dal suo amore per i giochi di parole, in It Won’t Be Long, lo trasforma nel suo opposto, cantando “non ci vorrà molto prima che ti apparterrò”, in luogo di “conquisterò”. Anche in You Won’t See Me assistiamo a un capovolgimento semantico, un lapsus dettato dal narcisismo di McCartney, che per tutta la canzone si dichiara sinceramente frustrato perché la ragazza non potrà vederlo. “Diventerò matto se tu non mi vedrai”. Qualsiasi altro autore avrebbe scritto “se non ti vedrò”, ma in questo specifico caso ha ragione Paul: il problema è proprio che la Asher non aveva tutto questo tempo per ammirarlo. Uno non può impedirsi di pensare che no, con un’attrice di teatro non avrebbe mai potuto funzionare, mentre per contro, una fotografa…

 

86.  Revolution 1 (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968).

“Bigger than Jesus” is for boys. Bigger than Mao, though…

“Ma quando parli di distruzione sai che puoi includermi fuori”. Lennon dice proprio “you can’t count me out, in” (che forse si dovrebbe tradurre “escludermi dentro”) lasciandoci la libertà di scegliere se si tratti di un’esitazione o di un lennonismo. Nessuno sa come si comporterebbe davvero in una rivoluzione, a volte basta un nonnulla per trovarsi sulla lama sbagliata della ghigliottina. Nemmeno Robespierre, nemmeno Lenin sapevano come sarebbe andata a finire: tantomeno chi la rivoluzione se la trova già in casa e sta soltanto cercando di cavalcarla, spinto da un genuino interesse per il nuovo ma anche da un sordo terrore di perdersi qualcosa (Fear of missing out, la chiamano oggi). Per esempio Lennon era tra i tanti nuovi “rich men” che cominciavano davvero ad aspettarsi le Guardie Rosse alle porte, eppure con Revolution 1 di porte ne spalanca in tutt’altra direzione: potremmo dire che il glam rock nasce proprio con questa canzone. Non era esattamente la Rivoluzione prevista dal Libretto Rosso. Forse è una rivoluzione nel senso astronomico, quel moto che prevede che dopo una lunga rotazione ellittica un pianeta torni esattamente al posto dov’era partito, un posto dove ci sono ancora juke box che cantano shoo bee do bop, bop, shoo be doo bop…

Tra tante canzoni dei Beatles nate come parodie, Revolution 1 è forse l’unica a essere diventata la parodia di sé stessa. Non era l’intento iniziale di Lennon, che con Revolution inaugura le session ufficiali del Disco Bianco: com’era già successo con i due dischi precedenti, la prima fase della lavorazione è quella in cui si indulge di più negli esperimenti, e Revolution è in assoluto il brano che sposta più lontano i limiti dell’indulgenza: Lennon a un certo punto sembra concepirlo come una lunga suite, in cui la struttura pop iniziale cede progressivamente a una lunga improvvisazione estemporanea su cui eventualmente montare qualche ulteriore esperimento di musica concreta prodotto insieme a Yoko Ono. Una suite del genere non sarebbe stato un oggetto così bizzarro in un disco del 1968: due anni prima i Rolling Stone avevano infranto il muro dei dieci minuti con Goin Home; i Mothers di Zappa avevano già inciso The Return of the Son of Monster Magnet, una lunga suite rumoristica molto apprezzata dallo stesso Paul McCartney; nel 1967 i Doors avevano sconvolto l’America con The End. I Beatles avrebbero potuto raccogliere la sfida della controcultura? Dipendeva soprattutto da Lennon, e Lennon era indeciso se contarsi dentro o fuori.

Al netto della diffidenza dei colleghi, la suite di Revolution, avrebbe definitivamente portato i Beatles all’avanguardia, ma richiedeva il sacrificio di un brano che aveva potenzialità commerciali. E se c’era qualcosa che a Lennon dispiaceva buttar via, ancor meno che i soldi, era una buona canzone. Da cui una prima decisione di tagliare Revolution in due parti, la 1 e la 9: quel tipo di segregazione che poi avrebbe continuato a praticare anche una volta sciolti i Beatles, per cui malgrado il tanto sbandierato sodalizio artistico, il suo materiale e quello di Yoko sarebbero stati quasi sempre venduti in confezioni separate. Estremismo artistico, pragmatismo commerciale.

Anche nella sua versione breve, Revolution 1 non era il singolo che Lennon avrebbe voluto dare ai Beatles nel pur rivoluzionario 1968: da cui la scelta di distorcerlo, accelerarlo, com’era successo con Please Please Me Help!, ma soprattutto prenderlo sul serio, sconfessando l’atteggiamento disincantato e ironico che dominava la versione lenta; eliminando anche l’ambiguità di quel gioco di parole, per un più franco “count me out”. Così trasformata, Revolution divenne il lato B di Hey Jude e ottenne a quanto pare il risultato di confortare molti studenti in rivolta sull’appoggio ‘esterno’ di John Lennon: un fratello maggiore che dimostrava attenzione per le loro rivendicazioni ma resisteva alla tentazione di spararsi pose rivoluzionarie (Mick Jagger con Street Fighting Man non aveva resistito). E comunque non capisci che andrà tutto bene… Sì, ma bene come? Nessuno ancora lo sa, ma fidati fratello, andrà bene. È John Lennon, come fai a non fidarti.

Verso la fine dell’anno però uscì il doppio LP con la versione originale, che ora per contrasto sembrava ancora più rallentata e parodica. Non era previsto, ma stavolta Lennon era riuscito a prendersi in giro da solo. Anche chi conosce la storia deve farsi un minimo di violenza per ricordare che il Lennon rilassato e ieratico di Revolution 1 è anteriore a quello grintoso del singolo. Questo credo succeda proprio perché nella versione dell’album Lennon gioca con la sua canzone come fanno molto spesso gli interpreti successivi, quando provano ad aggiungere stilemi diversi ma non originali. Così anche stavolta nel Nuovo che non ti aspetti ci sono tante tracce di un Vecchio che credevi rimosso: quel ripescaggio di vecchi stilemi del rock’n’roll di cui faranno tesoro Marc Bolan e David Bowie, gli shoo-bee-doo-bop che attendono inesorabili la fine della psicadelia e il ritorno del caro vecchio juke box; quei fiati che invece di suonare una fanfara rivoluzionaria sembrano volerti ripiombare in una balera odorosa di brillantina. Non suonano nemmeno Elvis ma la sua versione ancora più bianca e reazionaria, proprio il Pat Boone di Love Letters in the Sand: La, Reb Mi Reb Mi La. E chi è il Divo che coi maoisti alle porte decide di selezionare Pat Boone sul suo juke box e sedersi in posa contemplativa, magari con un basso in mano che per un’intera strofa suona una nota sola? Questa rockstar indecisa davanti al suo destino tragico di Messia della nuova Apocalisse? No, non è Ziggy Stardust, ma nemmeno ci manca molto. E quindi non capisci che andrà tutto bene… Sì, ma bene come? Nessuno ancora lo sa, ma ora è impossibile fidarsi.

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.