La parola all’Italia

A ben vedere, è molto chiaro a questo punto che la partita sta andando molto al di là della questione della leadership del governo. Si discute di Renzi o non Renzi, ma in realtà la posta in gioco è se l’Italia debba essere quella che ha in mente Renzi – e il Partito democratico sin dalla sua fondazione – oppure no.

Se il nostro Paese debba diventare compiutamente una democrazia dell’alternanza, maggioritario e stabile, oppure se si debba tornare indietro al proporzionalismo, alla democrazia bloccata (con il fattore K, quello che impediva al principale partito dell’opposizione di andare al governo, sostituito dal fattore 5S) e all’instabilità dei governi intesa come condizione permanente.

Il PD, a sua volta, dovrà decidere se continuare a essere se stesso o diventare una specie di Democrazia Cristiana 2.0, con tanto di correnti strutturate come piccoli partiti e relativi caminetti. Nella prima repubblica, il popolo votava e i partiti decidevano formule e incarichi nel chiuso di una stanza. Nella DC, i capi corrente decidevano allo stesso modo chi di loro avrebbe guidato il governo e chi il partito: nel chiuso di una stanza.

Il referendum ha sicuramente bocciato l’ipotesi di completare la trasformazione dell’Italia in una democrazia moderna per via costituzionale e “il consociativismo che è in noi” ha vinto in modo netto la sua battaglia per la sopravvivenza. Questo non vuol dire però che chi non si rassegna al ritorno della palude proporzionalista – come Renzi, come chi ha creduto nel progetto del PD come partito a “vocazione maggioritaria” e come i milioni di italiani che hanno votato sì – debba per questo gettare la spugna.

Ho appoggiato Matteo Renzi in tempi non sospetti (e quando la mia scelta appariva tutto tranne che vantaggiosa) anche per stima e amicizia personale, ma di certo non solo o prevalentemente per quello. Ciò che mi convinceva della proposta di Matteo era proprio quel progetto di innovazione e di transizione a una democrazia moderna che è lungi dall’essere compiuto e che il “no” al referendum ha messo pesantemente a rischio, ma non ha definitivamente sepolto.

Sono nato negli anni ’60: la prima repubblica me la ricordo e non ne ho alcuna nostalgia. Faccio politica e intendo evitare al Paese di tornare indietro, a un assetto istituzionale che abbiamo buttato alle ortiche senza rimpianti soltanto pochi anni fa. Se c’è un momento per essere più “renziani” di prima, dunque, è proprio questo. Se c’è un momento per agire e far politica, dunque, è proprio questo. Perché il “no” referendario deve ancora dimostrare di essere prevalente sul piano politico e io credo decisamente che non lo sia.

È per questo che credo che si debba votare al più presto. Perché il percorso referendario è stato come una meta a rugby. Dopo averla segnata, la meta va trasformata.

Il “no” ha saputo cassare una proposta, ma deve essere capace di farne vincere un’altra. Dimostrare che alla sua indubbia forza distruttrice equivalga una forza di costruzione maggiore di quella che oggi Renzi esprime e incarna. Perché di sicuro oggi sappiamo cosa il popolo italiano maggioritariamente non vuole, ma il problema che abbiamo ineludibilmente sul tavolo è di sapere cosa oggi il popolo italiano voglia per il proprio futuro. La domanda secca, il sì o no sul quesito referendario, deve adesso trasformarsi in programmi di governo, alleanze, in una visione per il Paese.

A leggere i giornali, tutti gli avversari di Renzi – e la maggioranza degli osservatori dà loro ragione – si sentono oggi maggioranza politica. Il tema è che se sono maggioranza politica, tocca a loro fare il governo: non è certamente pensabile che la maggioranza sia all’opposizione e la minoranza abbia la responsabilità di governare.

Se non sono in grado invece di fare un governo, perché il referendum ha cambiato la maggioranza nel Paese ma non nel palazzo, ebbene non c’è altra soluzione che chiedere agli italiani di confermarlo. La maggioranza che oggi pretende di essere tale ha il diritto (e anche il dovere) di chiedere e ottenere un mandato formale dall’elettorato. Se ce la fa, naturalmente: perché io penso che sarebbero ancora Renzi e il PD a essere investiti della responsabilità di governare il Paese.

Per questo, nei prossimi giorni, in tutte le sedi, dirò che la mia posizione è per le elezioni al più presto tecnicamente e materialmente possibile.

Se un nuovo esecutivo dovrà esserci, abbia il mandato unico di assicurare l’approvazione di una nuova legge elettorale (se politicamente sarà fattibile trovare i numeri per farla, e ne dubito fortemente) oppure l’applicabilità tecnica delle leggi elettorali attuali, come eventualmente riviste dalla Corte Costituzionale, e poi lasci subito la parola al Paese.

Perché l’Italia ha parlato a metà. E ora che ha potuto dare un segnale, bisogna consentirle di parlare per davvero.

Ivan Scalfarotto

Deputato di Italia Viva e sottosegretario agli Esteri. È stato sottosegretario alle riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento e successivamente al commercio internazionale. Ha fondato Parks, associazione tra imprese per il Diversity Management.