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  • Mercoledì 19 dicembre 2012

Sugo all’acrilico: il cibo si fa arte

Broccoli che diventano alberi, fette di salmone che ricordano il mare al tramonto, rocce di baguette, grattacieli creati con gli asparagi, strade di prosciutto. Carl Warner si occupa di paesaggi, ma non di quelli che osservano tutti. Fotografo di origine australiana, Warner crea i suoi mondi con attenzione e pazienza, partendo dal cibo come materia prima e ricorrendo all’uso del computer solo per quanto riguarda gli effetti di luce e il montaggio. Guardando distrattamente le sue foto è facile non rendersene conto, ma osservando con più attenzione ecco che le cascate rivelano acque costituite di tagliatelle: un modo per giocare con il cibo e per illudere l’occhio, sulle orme di Escher.

Una fotografia, quella di Warner, che ha avuto il suo successo nell’ambito pubblicitario, ma che non si distanzia poi molto dai ritratti dell’Arcimboldo, a ben pensarci, e che con il tempo potrebbe anche diventare arte.
Come quella della giovane e talentuosa Stephanie Gonot, anche lei affascinata dal cibo al punto da fotografarlo in maniera quasi ossessiva. Nel suo caso, però, i paesaggi scompaiono e ne prendono il posto panini trafitti da spilli, banane bruciacchiate, sigarette spente su dolci zuccherini e coni gelato fatti sciogliere sui seni. Una fotografia pervasa da una furia distruttrice, che spesso prende di mira gli alimenti dei fast food, ma che lo fa senza mai perdere la dimensione giocosa ed erotica, che pervade tutte le immagini di Stephanie.
Ma il cibo non si limita a farsi fotografare. Judith G. Klausner, ad esempio, scolpisce i biscotti Oreo rendendoli camei in miniatura e ricama fette di pane tostato, sulle quali compaiono muffe e tuorli di filo giallo. Con le sue opere, Judith vuole portare all’attenzione della gente il fatto che, attualmente, il cibo è forse meno saporito e meno sano di una volta, ma per cucinare tre pasti al giorno c’è bisogno di una persona che se ne occupi a tempo pieno, e questa persona è sempre stata una donna. “La cucina casalinga, così come il cucito e il ricamo, sta riguadagnando popolarità. Tuttavia, la disponibilità del cibo industriale è ciò che ci permette di fare carriera, creare cose nuove e scegliere. Le mie opere parlano di scelte. Come donna del ventunesimo secolo, posso scegliere di passare la mia giornata a fare il pane, o di comprarlo al supermercato dopo una lunga giornata di lavoro. Posso scegliere di passare le mie serate a ricamare. Posso scegliere di unire tutte queste cose e chiamarle arte.” Ecco quindi perché la sua scelta ricade sul ricamo, così come sugli Oreo, rispettivamente simbolo di un passato idealizzato e di un prodotto industriale onnipresente nelle dispense degli americani.
Il cibo come modo per riflettere, quindi, e per trasmettere un senso: sono molti, infatti, gli artisti che lo portano letteralmente al centro della scena. “Mangiare è sopravvivere, assaporare è evolversi”, questo l’ingrediente principale delle performance di Ayako Suwa, food artist giapponese che dà vita a ristoranti temporanei, aperti da un paio d’ore a tre giorni, dove nessuno se li aspetta: in una galleria d’arte contemporanea, in un sottopassaggio della stazione dei treni, in una stanza vuota di un edificio in costruzione. I guerrilla restaurants di Ayako sono contenitori per le sue performance, vere e proprie cene i cui menù si basano sulle emozioni. Ayako, infatti, crea i piatti a partire da rabbia, gioia e tristezza: sono ben 128 le emozioni che ha rappresentato finora attraverso il cibo. Tra le più famose, “il gusto persistente del pentimento con emergenti sfumature di rabbia”, incarnato da una serie di ciliegie americane con aceto balsamico e alghe. Ayako lavora con ingredienti quotidiani, ma li trasforma in qualcosa di diverso, che non ha più nulla a che fare con il cibo di partenza e che spesso necessita di una buona dose di coraggio per essere assaggiato: un cibo sensuale, sessuale, che ha un forte legame con il corpo e con gli istinti primordiali.

Per Vanessa Beecroft, invece, il cibo comunica un disagio e viene spesso privato della sua gioia e del suo gusto. La carriera dell’artista italiana inizia, infatti, con “Il libro del cibo”, diario su cui annota quotidianamente, per ben otto anni, cosa ingerisce e cosa non avrebbe dovuto ingerire. Un’ossessione che si fa arte e un’arte che riflette sul corpo, in particolare quello delle donne, e sull’uso che ne fa il mondo della moda e dello spettacolo: le modelle di Vanessa, infatti, sono sempre nude e algide, costrette a posare per ore senza potersi muovere, quasi ombre di se stesse. Da ricordare, in questo senso, la performance “vb52” del 2003 avvenuta al Castello di Rivoli, in provincia di Torino, dove la Beecroft ha organizzato un vero e proprio banchetto rinascimentale con le dame dell’aristocrazia torinese al posto delle sue solite modelle. Donne riunite per due giorni attorno a una grande tavola di cristallo per consumare cibi insipidi, portati a tavola con un ordine dato solo dalla differenza cromatica: per iniziare il bianco di uova, cavoli, pane e latte; a seguire l’arancio di mandarini e carote, il verde, e infine il viola di melanzane e prugne.
Che l’arte sia cibo per l’anima l’hanno detto in tanti, ma che il cibo possa diventare il nucleo di un’opera artistica continua a sorprendere, nonostante i predecessori illustri di tutti i grandi artisti contemporanei.

I precetti cromatici di Vanessa Beecroft, ad esempio, non sono poi così bizzarri se si pensa al Manifesto della Cucina Futurista. “Pur riconoscendo che uomini nutriti male o grossolanamente hanno realizzato cose grandi nel passato, noi affermiamo questa verità: si pensa, si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia”, così recitava Marinetti. E così recitano molti altri artisti, ancora oggi: tutti convinti, ognuno a suo modo, che il cibo non sia mai soltanto cibo.

– Lucia Gaiotto –

Immagine presa qui.

Host

Nata nel 1994 a Torino la Scuola Holden è una scuola di Scrittura e Storytelling dove si insegna a produrre oggetti di narrazione per il cinema, il teatro, il fumetto, il web e tutti i campi in cui si può sviluppare la narrazione. Tra i fondatori della scuola Alessandro Baricco, attuale preside.