Cara, sei violenta

Da giorni in Francia, ma non solo, si parla molto male del libro Le génie lesbien di Alice Coffin, giornalista, femminista lesbica eletta consigliera al Comune di Parigi. Diverse frasi del libro, pubblicato da poco per le edizioni Grasset, sono state riprese, commentate e, soprattutto, citate fuori contesto. Tra le altre, questa in particolare: «Non basta che noi (noi donne, ndr) ci aiutiamo a vicenda, dobbiamo, a nostra volta, eliminarli (gli uomini, ndr). Eliminarli dalle nostre menti, dalle nostre immagini, dalle nostre rappresentazioni. Non leggo più libri di uomini, non guardo più i loro film, non ascolto più la loro musica».

Coffin è stata accusata di misandria, di odiare cioè il sesso maschile, è stata definita in molti brutti modi, attaccata sia per la radicalità con cui dice le cose sia per le cose che dice ed è stata criticata anche da altre donne. La giornalista Caroline Fourest ha parlato, ad esempio, di «approccio essenzialista, binario e vendicativo che fa il gioco dei cliché antifemministi».

Di fatto, è quello che è successo anche in Italia su alcuni giornali che con il femminismo hanno un rapporto complicato, diciamo così. «Come le arpie, le rapaci della mitologia greca con la testa di donna, Coffin non cerca di deliziare ma di arruolare le donne nel suo mondo dove l’uomo è colpevole di tutto. (…) È la guerra contro metà dell’umanità». E ancora: «Cosa penseremmo se qualcuno si rifiutasse pubblicamente di leggere i libri scritti dalle donne o di guardare film o ascoltare musica realizzata da compositori gay?» scrive ad esempio Il Foglio.

La domanda (che è alla base delle principali critiche fatte ovunque a Coffin e a chi come lei ha detto cose simili) è colpevolmente interessante. Tocca rispondere, e usare la querelle Coffin per raccontare due trucchi usati di frequente negli argomenti antifemministi.

Ci sono pratiche politiche radicali che nascono da un’esclusione che molti si ostinano a negare
Chi ha letto il libro di Coffin – e non solo alcune sue frasi per fare il proprio gioco antifemminista – ha trovato difficile capire la violenza che ha generato. «Quando provochi ed esageri, lo fai consapevolmente (…) Sembra che abbiamo a che fare con una pazza da due settimane. E no. (…) Quando leggiamo il tuo libro, capiamo che non accusi tutti gli uomini» ha ammesso, scusandosi, il giornalista di France 2 Laurent Ruquier. Le génie lesbien, spiega Le Monde in una equilibrata recensione, fa soprattutto una cosa: si rivolge al mondo della cultura spiegando che lì c’è un grave problema con il sessismo e con il suo riconoscimento. Coffin fa i nomi, racconta il “machismo” nel cinema o nelle case editrici, denuncia chi si giustifica con la nozione di «talento» mentre nomina degli uomini «perché sono uomini», decostruisce la categoria di universalismo «usata dall’uomo bianco per imporre i propri canoni». Ed è da queste premesse che derivano le sue posizioni più criticate e radicali: gli uomini «mi hanno infestato il cervello», dice.

Stiamo parlando, prosegue Le Monde, di una donna lesbica che durante l’infanzia non ha trovato né libri né film in cui identificarsi, che dice di essere stata ingannata dalla cultura e che afferma che «le regole della narrazione sono maschili». Chimamanda Ngozi Adichie, nel 2009, ha a sua volta affrontato l’argomento usando la categoria dell’unica storia: «Dato che avevo letto solo libri in cui i personaggi erano stranieri, mi ero convinta che i libri, per loro natura, dovessero avere personaggi stranieri, e dovessero parlare di cose con cui non potevo identificarmi». Da bambina di conseguenza, pur non essendo mai uscita dalla Nigeria, scriveva storie simili a quelle che leggeva: «Tutti i miei personaggi erano bianchi con gli occhi azzurri. Giocavano nella neve. Mangiavano mele». Chimamanda Ngozi Adichie prosegue spiegando che è impossibile parlare di un’unica storia senza parlare di potere: «Il potere è la possibilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di farla diventare la storia definitiva di quella persona (…) L’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia». L’unica storia, conclude, va quindi rifiutata raccontando o leggendo le altre storie.

Non sembra lontano da quello che, con forza differente, dice Alice Coffin. O da quello che ho fatto io stessa e molte intorno a me: da un certo punto in poi, dopo aver letto le storie di lei e le storie su di lei ho scelto di leggere la storia scritta da lei (e sì, per usare una misura quantitativa la maggior parte dei libri che leggo nel tempo che mi resta sono di donne), e ho anche ricollocato tutta una serie di canzoni e di film che avevo sentito e visto. Ma Coffin ha fatto un passo in più: l’ha dichiarato esplicitamente esponendosi. Una volta diventatə consapevoli della pervasività dell’unica storia che ha a che fare con le questioni di genere, è vero che è necessario liberarsi: imparare a fare a meno dello sguardo degli uomini su di sé e imparare a lasciare quel che, anche non volendo, si è interiorizzato. Non si tratta solo di prendere atto di un sistema, ci si deve in qualche modo rimettere al mondo. E per farlo ci sono passaggi necessari, dolorosi e radicali da fare.

«Cosa penseremmo se qualcuno si rifiutasse pubblicamente di leggere i libri scritti dalle donne?», chiede Il Foglio. La domanda è negazionista, perché finge di non vedere l’esclusione che già agisce nel contesto in cui tuttə siamo. E non c’è alcun bisogno di rivendicarla pubblicamente perché funziona in modo automatico, quasi “naturale”. Potrebbero in modo credibile i maschi bianchi di tutto il mondo sostenere una discussione sulla loro oppressione sistemica e storica in quanto maschi bianchi? No. La domanda iniziale finge dunque di non vedere che rimangono attivi, nel mondo in cui ci muoviamo, meccanismi di dominazione e oppressione.

Invocare, poi, la discriminazione al contrario e mettere sullo stesso piano due cose che non lo sono è un trucco, usato a lungo anche contro la pratica politica del separatismo: quando le donne si sono alzate e sono andate di là a fare il femminismo, non avevano l’esclusione degli uomini come obiettivo, ma avevano ben presente l’esclusione che già esiste(va) e che ha reso necessario il passaggio di parlarne in separata sede (dell’efficacia e del separatismo come strumento, ho raccontato qui).

L’esclusione invisibile è violenza, e la risposta non può che essere radicale 
Rendere evidente con un atto politico l’esclusione originaria e invisibile o il privilegio che qualcuno ha sempre avuto, risulta disturbante. Ma non è forse quell’esclusione invisibile ad essere innanzitutto violenta e radicale (nel senso di radicata)? Perché, dunque, la pretesa che la reazione o la pratica politica che la vuole scardinare non siano altrettanto radicali (nel senso di voler cambiare tutto)?

Qualche settimana fa ero fuori a cena con delle persone, tra cui un conoscente che fa il professore di storia del cinema. Raccontava che ogni anno, non ricordo dove, da alcune docenti viene organizzato un convegno di cinema per sole donne. Lui, nonostante pensasse che la cosa fosse “ridicola” e “buffa” e che lo facesse ridere, ci mandava comunque la sua dottoranda (solidarietà, sorella). Mi preparo, respiro, comincio dalle cose facili, parlo del #tuttimaschi e di Erosive che c’era stato da pochi giorni in città. Ma lui replica negando che esistano convegni per soli maschi (rivendicati pubblicamente, scriverebbe qualcuno), continuando ad usare il trucco della discriminazione al contrario e ovviamente iniziando a giudicare il modo in cui sto dicendo le cose (ad alta voce e in modo aggressivo).

Caro, sì. In effetti ero e sono piuttosto arrabbiata. Ma. Se il punto della discussione diventa l’aggressività con cui si dicono le cose, mentre la violenza che sorregge il negazionismo si può permettere di restare nell’ombra, se non si capisce la radicalità e la necessità di alcuni atti politici (quelli dalle quote in giù, per capirci, che sono invece il lato incipriato e accettabile del femminismo), se viene detto che la scelta politica di non leggere qualcuno è sullo stesso piano della scelta di non leggere, includere nei manuali o nei convegni le donne, si è una cosa molto precisa: dei maschilisti che vogliono continuare a stare comodi nel loro privilegio che deriva dal fatto, davvero banale, di essere nati maschi. E dato che non si può ammettere di avere quel privilegio senza poi doverlo mettere in discussione, si fa molto prima a dire che il problema non esiste.

Poi, però, arrivano le arpie.

Giulia Siviero

Per ogni donna che lavora ci vorrebbe una moglie. Sono femminista e lavoro al Post. Su Twitter sono @glsiviero.