Matteo Renzi e il femminismo che piace a lui

Ieri Matteo Renzi ha lanciato il suo nuovo partito. Tre le parole chiave scelte: innovativo, giovane, femminista. L’annuncio inizia così: «Ho deciso di lasciare il PD e di costruire insieme ad altri una Casa nuova per fare politica in modo diverso». La pratica di un linguaggio inclusivo che superasse il plurale maschile per corrispondere alla propria dichiarazione di intenti e che nominasse anche le “altre” sarebbe stato un buon segnale.

Andando oltre il linguaggio – che comunque ha un significato sostanziale – la spiegazione di che cosa significhi per lui “femminista”, Renzi l’ha data sommariamente nell’intervista a Repubblica. E per ora è solamente su questa che possiamo dire delle cose: 

«Sarà femminista con molte donne di livello alla guida. Teresa Bellanova sarà la capo delegazione nel governo. Una leader politica, oltre che una ministra. Per me le donne non sono figurine e l’ho sempre dimostrato. In ogni provincia a coordinare saranno un uomo e una donna: la diarchia è fondamentale per incoraggiare la presenza femminile».

Non è chiaro che cosa si intenda, innanzitutto, con l’espressione “donne di livello”, ma soprattutto non è chiaro chi lo stabilisca questo livello (le parole “libertà”, “parità” o “uguaglianza” hanno significati ben diversi se a parlarne è Olympe de Gouges o Napoleone). Non si sono mai viste schiere di femministe dietro a Beatrice Lorenzin, ministra della Salute e del Fertility Day del governo Renzi che immagino lui considerasse “di livello”, ad esempio. E che una riforma venga proposta da una donna non è né un argomento né una garanzia.

«L’ho sempre dimostrato». Nel 2014 Renzi scelse un numero di donne pari a quello degli uomini per i ministeri del suo governo, ma scelse anche di non creare un ministero per le pari opportunità (sempre nel 2014, quando erano in discussione l’Italicum e gli emendamenti sulla parità di genere, sembrò comunque mettere in discussione il mantra paritario, e disse una cosa condivisibile: «Non credo che la parità vera si possa ottenere per legge. Il tema della parità tra donne e uomini non si affronta solo con una legge sulle poltrone». Forse ora ci ha ripensato). Il Jobs Act, da Renzi tanto amato e rivendicato, considerava come neutri gli interventi in materia di lavoro e continuava ad essere fondato sull’idea di un sistema familista in cui il welfare restava ancorato alla famiglia (cioè alla donna) a cui lo Stato offriva il suo aiuto. Si ricorderà, infine, l’intervento di Renzi all’Assemblea nazionale del PD del maggio 2017 quando parlò delle tre priorità del suo partito: “lavoro”, “casa” e “mamme”, identificando le donne con la funzione materna (equazione scardinata proprio dal femminismo), ed escludendo immediatamente non solo le donne che madri non lo sono, ma le madri stesse che al di là e al di qua della maternità sono altro, sempre e comunque altro.

Guardando al passato, si poteva insomma fare di meglio. Renzi non ha mai adottato una prospettiva di genere, cosa che si può condividere oppure no, ma non c’è dubbio sul fatto che la sua posizione sia stata finora “oppure no”. Potrà fare di meglio? Vedremo. Ma per ora la misura del suo femminismo sembra continuare ad essere solamente quantitativa. La quantità funziona però come un trucco: donne purché donne e che magari – come spesso purtroppo accade – piacciano agli uomini. Le rivendicazioni paritarie sono di corto respiro e nello spazio pubblico funzionano non di rado come annullamento della differenza femminile. Non sono altro che l’inadeguata risposta maschile al cambiamento innescato dalla rivoluzione femminista, mentre il cosiddetto riequilibrio di genere non funziona sul genere, ma sulla sostanza di ciò che deve essere riequilibrato.

Non mi stupisce, comunque, lo sfruttamento del femminismo come strategia di marketing – e non parlo solo di Renzi, ovviamente – né il fatto che si voglia continuare a colorare le caselle di rosa. Il femminismo praticato e che oggi riempie piazze e strade di mezzo mondo è invece molto radicale. Non è quello delle pari opportunità per cui si è felici che sia una donna e non un uomo a comandare, non è il femminismo formale delle istituzioni che interpretano il movimento delle donne nel senso di una domanda femminile di parità e che mette al centro della sua azione la spartizione del potere. È il femminismo, come ha detto qualcuna, per il 99 per cento: è intersezionale, cioè lavora nei punti in cui le diverse oppressioni si incontrano (sa che la violenza di genere è sistemica, radicata nell’ordine sociale, che ha a che fare con la violenza delle leggi che negano la libertà riproduttiva, con la violenza economica, con quella dei tribunali, con il mercato del lavoro….), non è separatista, fa alleanze, è internazionalista e ha proposte politiche ben precise e radicali. Non procede per leggi, non si accontenta delle eccezioni che non hanno mai cambiato la regola, mette in discussione le relazioni di potere e le gerarchie. Richiede insomma molto più di un titolo o di quanto si sia fatto finora.

Per alcune, me compresa se non si fosse capito, il femminismo che piace a Renzi (ma anche a molti altri, e ai media in generale) è parte del problema. Si concentra sul rompere il soffitto di cristallo “per poi lasciare tutte le altre a raccogliere i pezzi”, è un femminismo per poche, lavora sull’empowerment, è guidato dal principio che sia in qualche modo sufficiente dare potere a donne di talento, anzi “di livello”. Per dirla in breve: è un femminismo che rischia di dare al femminismo una cattiva reputazione, di trasformare la parola “femminista” in un feticcio, e che non ha avuto in alcun modo un potere trasformativo. Un partito che oggi si voglia realmente definire “femminista” non dovrebbe semplicemente voler “cambiare”: ma cambiare l’immaginario del cambiamento.

Giulia Siviero

Per ogni donna che lavora ci vorrebbe una moglie. Sono femminista e lavoro al Post. Su Twitter sono @glsiviero.