Processo per stupro

«Signori, una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto: passa immediatamente la voglia a chiunque di continuare e l’atto, quindi, mal si coniuga con l’ipotesi della violenza. Anzi: è incompatibile. (Con la fellatio) il possesso è stato esercitato dalla ragazza sui maschi, dalla femmina sui maschi, è lei che prende, è lei la parte attiva. Loro sono passivi, inermi. Abbandonati nelle fauci avide di costei».

Il 26 aprile del 1979 la RAI mandò in onda alle dieci della sera il documentario “Processo per stupro”. Non era mai accaduto prima che un processo contro degli uomini accusati di violenza sessuale venisse mostrato pubblicamente. Dopo molte richieste il documentario fu trasmesso di nuovo e in prima serata nell’ottobre dello stesso anno. E circa tredici milioni di persone videro una ragazza di diciotto anni costretta a dimostrare l’assenza del suo consenso mentre quattro uomini la stupravano, la videro costretta a difendersi dal suo passato e a diventare lei, l’imputata. Sentirono dire che le donne dovevano essere «pronte a raccogliere i frutti che avevano seminato», quelli del femminismo. Sentirono le madri degli imputati protestare, fuori dal tribunale, e difendere l’onore dei loro figli, e buttare addosso alla ragazza la colpa di essere un’adescatrice. E videro quelle stesse madri gioire, alla lettura della sentenza.

L’idea di documentare un processo per stupro nacque dopo un convegno internazionale sulla violenza contro le donne organizzato a Roma dai movimenti femministi nell’aprile del 1978. Durante gli interventi emerse un’ovvietà: davanti alla giustizia, ovunque, in tutto il mondo, la vittima di uno stupro diventava automaticamente l’accusata. Le militanti decisero dunque di mostrare quello che accadeva nelle aule dei tribunali. Il documentario (che ricevette poi molti riconoscimenti e che è conservato anche negli archivi del MOMA di New York) fu filmato al Tribunale di Latina.

Lo stupro che venne raccontato avvenne in una villa vicino a Roma nel 1977. La prima udienza si svolse otto mesi dopo, nel 1978. Lei si chiamava Fiorella (il cognome non fu reso noto): aveva denunciato per «violenza carnale di gruppo» quattro uomini fra cui Rocco Vallone, un conoscente. Era una lavoratrice in nero, aveva spiegato di essere stata invitata da Vallone in una villa per discutere una proposta di lavoro come segretaria e di essere stata sequestrata e violentata per un pomeriggio intero. Gli imputati, che al maresciallo che li arrestò confermarono il fatto, cambiarono presto la loro versione: prima negarono e poi, durante la fase istruttoria, dichiararono che il “rapporto” era stato consensuale e che avevano concordato con la ragazza un compenso di 200.000 lire.

All’inizio del processo, dagli avvocati difensori venne depositata in aula la cifra di 2 milioni di lire, in qualità di risarcimento danni. L’avvocata di Fiorella, Tina Lagostena Bassi, parlò di «mazzetta buttata sul tavolo». Rifiutò, disse che la ragazza pretendeva solo una lira: «Il danno subito da una ragazza violentata è incommensurabile e non si può risarcire con una mazzetta». Fiorella aveva i capelli raccolti, una camicia bianca: le chiesero se la somma proposta non fosse abbastanza e quale fosse il motivo del suo rifiuto: «Per ragioni morali non voglio niente», furono le sue prime parole.

Gli imputati vennero sentiti uno dopo l’altro. Uno di loro ammise di aver proposto a Fiorella, il giorno dopo lo stupro e tramite il cognato, un milione di lire perché lei non lo riconoscesse in aula. Anche Fiorella venne ascoltata: «Come vedete non avete bisogno di sostegno morale, come vedete non siete sola, siamo tutti padri di famiglia», disse il giudice. Le fecero domande sul suo passato dicendo che uno degli stupratori aveva già avuto dei rapporti carnali con lei («Non è vero. Ho detto che a letto con te non ci sono venuta». E ancora, guardandolo negli occhi: «Non è vero. E lo sai che non è vero. Guardami in faccia quando lo dici. Io ti sto rovinando? E tu a me cosa hai fatto?»).

Le chiesero se e in che modo era stata picchiata, se c’era stata fellatio cum eiaculatione in ore e altri dettagli ancora. Chiesero a sua madre come mai la figlia fosse andata ad un appuntamento con un uomo che non le aveva presentato, e chiamarono a testimoniare alcuni amici degli imputati, che dissero che la ragazza, nonostante fosse fidanzata, si intratteneva facilmente con altri uomini al bar («L’ho rimorchiata dentro un negozio. Le ho detto una parola e lei è montata in macchina»). Tina Lagostena Bassi chiese che non si facessero domande sulle attività sessuali precedenti della parte civile: «A questo processo non interessano». Ma la difesa spiegò che il tribunale doveva valutarlo, questo passato, «ai fini dell’attendibilità della testimone: dato che la prova si basa unicamente sulla parola della testimone offesa va verificato se ha detto cose non vere anche in precedenza».

Nell’arringa finale dell’avvocata Lagostena Bassi c’era tutto:

«Noi donne siamo presenti a questo processo: prima di tutto Fiorella, poi le compagne presenti in aula ed io che sono qui prima di tutto come donna e poi come avvocato. Cosa significa la nostra presenza? Noi chiediamo giustizia, non una condanna esemplare, non ci interessa la condanna, noi vogliamo che in quest’aula ci sia resa giustizia. Ed è una cosa diversa. Che cosa intendiamo quando chiediamo giustizia come donne? Che anche nelle aule dei tribunali e attraverso ciò che avviene nelle aule dei tribunali si modifichi quella che è la concezione socioculturale del nostro paese, che si cominci a dare atto che la donna non è un oggetto (…).

Devo purtroppo ancora prendere atto, e mi scusino i colleghi, che (…) la difesa dei violentatori considera le donne come soli oggetti, con il massimo disprezzo. E vi assicuro: questo è l’ennesimo processo che io faccio ed è come al solito la solita difesa che io sento. (…) Io mi auguro di riuscire ad avere la forza di sentirli, non sempre ce l’ho, lo confesso, e mi auguro di non dovermi vergognare come donna e come avvocato per la toga che tutti insieme portiamo. La difesa è sacra ed inviolabile, è vero, ma nessuno di noi avvocati si sognerebbe di impostare una difesa per rapina così come si imposta un processo per violenza carnale. Nessun avvocato, nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrino in una gioielleria e portano vie le gioie, si sognerebbe di cominciare la difesa (…) dicendo che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, che in fondo ha commesso reati di ricettazione, che è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse. Ecco: nessuno si sognerebbe di fare una difesa di questo genere, infangando la parte lesa soltanto.

(…) Se invece che quattro oggetti d’oro “l’oggetto” del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi constante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza: se si fa così è solidarietà maschilista perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale.

(…) Una donna ha diritto di essere quello che vuole e io non sono il difensore della donna Fiorella, io sono l’accusatore di un certo modo di fare i processi per violenza. Ed è una cosa diversa.

(…) Ma chi ha mai detto che occorre la pistola, che occorrono le botte? Nel medioevo sì, vis grata pueallae. (…) Nel 1977-78 i costumi sono diversi: se una donna vuole andare con un ragazzo ci va e non si parla di vis grata puellae. A nome di Fiorella e a nome di tutte le donne, molte sono, questo io vi chiedo: giustizia. Rendete giustizia a Fiorella e attraverso la vostra sentenza voi renderete giustizia a tutte le donne: anche a quelle che vi sono più vicine, anche a quelle che per disgrazia loro sono vicine agli imputati.

(…) Per quanto attiene al risarcimento già vi ho detto: una lira per Fiorella, per questa ragazza così venale che andava con uomini per soldi e sulla quale butterete fango a piene mani. Bene: questa ragazza vuole una lira e vuole che la somma ritenuta di giustizia sia devoluta al centro contro la violenza sulle donne: perché le violenze siano sempre di meno, perché le donne che hanno il coraggio di rivolgersi alla giustizia siano sempre di più».

Ma anche nelle arringhe degli avvocati difensori c’era tutto:

«Vi esprimo intanto il mio disagio, derivante dalla mia scarsa dimestichezza con le ideologie. Anzi dalla mia antipatia per le ideologie (…). Le ideologie creano non dico delle impostazioni fanatiche, ma delle impostazioni preconcette: si mescola un caso particolare con quello che si crede un caso generale. Ora: figuriamoci questa ideologia femminista. Vi confesso che pensiamo e parliamo sempre delle donne, siamo pazzi delle donne, le abbiamo sempre rispettate (l’avvocato Giorgio Zeppieri ride, ndr). Ci alziamo in tram e offriamo il posto, le consideriamo con discrezione, non facciamo confidenze se qualcuna di loro in un momento di distrazione ci concede i suoi favori. Le stimiamo per questo. Di più: non disprezziamo affatto la prostituzione che in tempi lontani e anche vicini ci può aver visto partecipi di momenti di piacere. Che è questo odio? Repressivo, questo giudizio, contro chi dedica la sua vita a dare piacere agli altri. (…)

Questa ragazza che non versa in floride condizioni economiche ha degli amici amanti: lo so, non c’è amore, non c’è innamoramento, c’è consuetudine al piacere, c’è amicizia dei sensi (…). Questa ragazza ha reagito con la sua generosità romanesca, ha inventato la sua storia, ha portato la sua accusa e poi adesso viene in udienza sull’incrociatore del femminismo, con tutte le bandiere al vento. E chi la ferma più.

L’altra volta, quando facemmo l’altro processo, tutte queste signorine facevano le fighe (inquadrano un uomo che fa il gesto femminista, ndr). E che dice oggi la gentile avvocatessa Lagostena? “La presenza delle donne condizionerà gli avvocati”. Può talvolta condizionare gli avvocati perché a priori noi siamo brutali, anzi come ha detto l’avvocatessa, “commettiamo delle violenze psichiche, delle violenze verbali”: violenze verbali…io parlo in latino per alludere agli organi sessuali. Ma qui si stanno rovesciando i termini, qua ci violentano se non stiamo attenti! (ride, ndr).

Signori, una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto: passa immediatamente la voglia a chiunque di continuare e l’atto quindi mal si coniuga con l’ipotesi della violenza, anzi è incompatibile: tutti e quattro avrebbero incautamente abbandonato nella bocca della loro vittima il membro, parte che, per antonomasia, viene definita delicata. Il coito orale si compie con una prestazione che è tecnicamente qualificata e che esprime una serie di atti voluti perché non c’è attività tecnica se non c’è volontà. Ah sì, mi posso abbandonare, ma io lì non mi abbandono: sono io che posseggo. Il possesso è stato esercitato dalla ragazza sui maschi, dalla femmina sui maschi: è lei che prende, è lei la parte attiva. Loro sono passivi, inermi. Abbandonati nelle fauci avide di costei (…)

Ma la signorina che cosa pratica con il Vallone di cui era è l’amante e l’amica amorosa? Si fa praticare il cunnilingus e il suo amico amoroso che si inginocchia davanti a lei e la bacia teneramente su quella che il divino Gabriele (Gabriele D’Annunzio, ndr) chiama “la seconda e più trepida bocca” da cui sugge il piacere di lei. Quindi, che cosa è il cunnilingus? È più che l’amore, è l’adorazione sessuale. E tende al piacere della femmina. E chi la pratica? Il violentatore? È il violentatore che si inchina, bacia, adora? (…) È l’amante che può fare questi gesti.  (…)

Bene, il Vallone inizia con un cunnilingus: lungo, penetrante, suggestivo e suadente. Quindi il rapporto fra tutti non ha inizio con uno schiaffo: ha inizio con il più penetrante atto d’amore per l’uomo e per la donna, un atto in cui c’è sessualità, adorazione e anche rispetto. Sì, anche rispetto. Tutto ciò è incompatibile con la violenza carnale. La violenza carnale è il contrario della sessualità, la violenza è nient’altro che una voglia insana e demoniaca di calpestare il proprio simile, un altro essere umano, e non c’è umiliare, non c’è quasi mai desiderio, non c’è quasi mai piacere. Poi noi abbiamo fatto il processo del Circeo: e che abbiamo scoperto… eh, lì c’è una violenza sessuale chiarissima. Io sono un difensore, l’ho ammesso allora e lo riammetto adesso: c’era l’impotenza signor giudice! C’era l’impotenza dei violentatori».

E ancora:

«Vedete, signor presidente, la collega è stata brava. Però ha fatto dei rilanci (…) in principio mi è sembrato di ascoltare uno di quei tanti comizi: ha detto “noi vogliamo giustizia. La violenza…” … La violenza purtroppo  c’è sempre stata. La violenza la subiscono gli uomini e la subiscono le donne: è di pochi giorni la notizia di un uomo che è stato violentato a Napoli da due donne. Dopo che l’hanno drogato. Dovremmo insorgere? Dovremmo insorgere?? E sapete con che violenza è stato lui violentato (scusate il bisticcio)? Lo hanno portato nella bella pineta di Caserta, lo hanno drogato, lo hanno trovato esanime, con il membro sempre in una certa posizione, con il membro sempre eretto. Eh, erano due allupate!

Hanno voluto questo. Purtroppo il mondo è così: è bello perché è vario.  E quindi non facciamo, non cominciamo col dire… le violenze le subiscono tutti! Non le subiamo noi? Non le subiamo anche da parte delle nostre mogli? E come, non le subiamo? Io oggi per andare fuori ho dovuto portare due testi con me, l’avvocato  Mazzuca e l’avvocato Sarandrea, testimoni che andavo a pranzo con loro, se no non uscivo di casa! Non è una violenza psichica quella? Eppure mia moglie mica mi mena. È vero che siete testimoni? Siete testi?

E allora signor presidente che cosa abbiamo voluto, che cosa avete voluto?  La parità di diritti? Avete cominciato a scimmiottare l’uomo! Voi portavate la veste: perché avete voluto mettere i pantaloni? Avevate cominciato con il dire “avevamo parità di diritto”. Avevate cominciato con il dire “perché io alle nove di sera devo stare a casa, mentre mio marito, il mio fidanzato, mio fratello, mio nonno, il mio bisnonno vanno in giro?”. Vi siete messe voi in questa situazione! Non l’abbiamo chiesto noi questo! E  allora purtroppo ognuno raccoglie i frutti che ha seminato! Se questa ragazza si fosse stata a casa, l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente!

(il giudice dice di attenersi ai fatti)

… e non ha parlato di femminismo, signor Presidente? E allora dobbiamo ammainare pure questo adesso? Il femminismo già comincia a fare strada anche nel campo della difesa. Quindi la violenza la subiamo noi!»

La conclusione dell’avvocata Lagostena Bassi:

«Quello che è successo qua dentro si commenta da solo ed è il motivo per cui migliaia di donne non fanno le denunce, non si rivolgono alla giustizia. Due cose mi hanno indotto a farlo: un senso di correttezza nei confronti di Fiorella e una cosa che non entra nel processo, ne dò atto, lo dico per onestà: ho letto sul giornale di un’ulteriore violenza a una ragazza di 17 anni (…), sordomuta, che è stata molto malmenata perché forse ha fatto quella resistenza che qui si nega. Io mi chiedo: quale sarebbe stata la reazione? Sono quattro uomini. Certo: uno può dare un morsico e può rischiare la vita e l’avrebbe rischiata. E ognuna delle donne ricorda quello che è successo a chi ha cercato di ribellarsi alla violenza. Ed ecco che violenza vi è anche senza una reazione di questo tipo».

Il tribunale condannò Rocco Vallone, Cesare Novelli e Claudio Vagnoni a un anno e otto mesi di reclusione, mentre Roberto Palumbo fu condannato a due anni e quattro mesi. A tutti e quattro gli imputati venne concessa la libertà condizionale e furono subito rilasciati. Il risarcimento dei danni venne calcolato in due milioni di lire. Gli avvocati della difesa si chiamavano Giorgio Zeppieri, Angelo Palmieri e Titta Mazzucca.

Dopo il documentario venne filmata una conversazione tra alcune militanti femministe e le autrici del documento. L’avvocata Maria Magnani Noya parlò della vergogna di essere avvocato: «Non tutti gli avvocati sono così, anche se c’è uno strano fenomeno tra i miei colleghi uomini: quando fanno altre cause sono magari bravi avvocati, persone distinte e precise. Quando vengono a difendere degli stupratori vengono a sostenere delle cose veramente al di fuori del mondo: accusano le donne di fare il comizio come se il loro non fosse un comizio. E poi ci parlano del mondo che è bello perché è vario forse perché ci sono gli stupratori che non so se rientri nella bellezza o nella varietà. Poi ci dicono che la ragazza se stava in casa non le capitava assolutamente nulla (…) E poi altri discorsi “sull’incrociatore del femminismo” e sulle “fauci avide”: essenzialmente non riescono a capire che la violenza può essere anche portata avanti da un tipo di paura che intimorisce la vittima e che la lascia paralizzata. Il fatto di negare la violenza carnale quando non ci sono le botte o di pensare che con un morso si possa interrompere la violenza stessa vuol dire che non ci si rende conto di un fatto che mi sembra chiaro: che quando una donna si trova di fronte a quattro persone che stanno per violentarla cade in una situazione di paralisi psichica, fisica, di distacco da quanto sta avvenendo. Non l’hanno ancora capito. Da tutte le parti si fa questo discorso: ma perché non ha reagito?».

Parlarono poi del modello secondo cui l’uomo considera la donna come oggetto. E delle madri degli imputati. Franca Ongaro Basaglia raccontò dell’impatto violentissimo che aveva avuto su di lei il fatto di «sentire una madre che per poter difendere il proprio figlio» affermava «quello che l’ideologia dominante, minata dalle lotte delle donne, aveva sempre ritenuto: lei in fondo ci stava, si divertiva». E poi: «Ci deve essere un atteggiamento che confermi l’ambiguità della ragazza per poter poi imputare alle maggiori libertà che le donne stanno ottenendo, l’inevitabilità della violenza».

Quelle pericolose odiatrici di uomini commentarono l’importanza della solidarietà della altre donne, ma anche «di un certo tipo di solidarietà di uomini: mi rifiuto di pensare che tutti gli uomini siano o violentatori o come quei non troppo intelligenti avvocati». Parlarono della necessità  della mobilitazione femminista, della «rivincita che alcuni uomini vogliono avere sulla donna per il fatto che non sta più in casa, che è diventata un soggetto, che non è più remissiva e oggetto disponibile». E parlarono «dell’identificazione totale» che alle donne era «stata imposta con la natura: qualunque cosa faccia, lo fa per natura. Passiva per natura, seduttrice per natura. (…) L’importante è tenere conto che noi stiamo lottando per rompere una definizione secolare di cosa è la natura della donna». E parlarono di «come, in tutti questi anni, nel nostro paese è stata vissuta la sessualità e l’educazione alla sessualità. Che indubbiamente è un grosso punto carente: perché è stata vissuta come qualcosa di non buono, da rimuovere, qualcosa di cui è meglio non parlare o di cui parlare in latino.

Le autrici del documentario spiegarono infine che quando avevano scelto di registrare e di mandare in onda un programma come quello avevano fatto affidamento sulla «maturità civile del pubblico televisivo». Ringraziarono Fiorella per il suo coraggio, per il modo in cui ha affrontò il processo e perché consentì loro «di usare» la sua immagine e la sua storia: «Lei vuole che la sua storia acquisti senso e noi con lei vorremmo che storie di questo genere contribuissero a trasformare la morale corrente. Perché nessuna donna è più disposta a essere oggetto».


Post scriptum:
ho ripensato a questo documentario perché ho letto i commenti all’articolo di un amico qui sul Post e che hanno a che fare con il trucco delle “male tears”, “lacrime maschili” (quando per ribat­tere ad un qual­siasi argo­mento legato alle donne, si prende il posto della vittima). Ho ripensato alla “caccia alle streghe”, agli “uomini che mi spiegano le cose”, alla delegittimazione delle donne che negli ultimi mesi hanno preso parola pubblica contro le molestie, alle argomentazioni che in quell’occasione sono state usate, alle due studentesse americane e ai due carabinieri di Firenze. Ho ripensato alla Convenzione di Istanbul che è stata ratificata dall’Italia ma di cui in Italia manca il sostanziale recepimento e in cui si dice che gli antecedenti sessuali e la condotta della vittima non contano (e che invece ancora contano), al fatto che si può ancora scrivere che il maschio che picchia una donna «è anzitutto un maleducato sentimentale» o al fatto che si possa essere assolti dal reato di stalking pagando una mazzetta, avrebbe detto Lagostena Bassi.

Giulia Siviero

Per ogni donna che lavora ci vorrebbe una moglie. Sono femminista e lavoro al Post. Su Twitter sono @glsiviero.