Si pulì si vestì s’avvelenò

Da bambino credevo di essere zingaro, a vent’anni ho scoperto di essere ebreo. Almeno un po’: quel tanto che basta. Della famiglia di mia madre sapevo pochissimo perché erano poveri, parlavano poco ed erano morti. I pochi parenti ancora in vita non avevano alberi genealogici o proprietà a cui agganciare memorie e racconti, oppure si erano dispersi, nel loro silenzio, in varie parti del mondo. Una delle poche antenate che mia madre evocava – ma non ne sapeva molto neppure lei – era una misteriosa bisnonna di cui in famiglia si preferiva tacere e di cui lei conosceva soltanto il nome e la razza: Virginia, zingara. Avremmo saputo che era una mezza bugia dettata dall’ignoranza e dalla paura, ma anche dal presagio che il fascismo e le leggi razziali sarebbero potute tornare.

Mio nonno si chiamava Otello e mia nonna Tosca, come le opere. Si erano conosciuti alla fine degli anni Trenta e nel 1941 era nata mia madre. Da giovane Otello aveva avuto la tubercolosi, ma era guarito. Tosca si ammalò nel 1944 e morì nell’ottobre 1950, dopo molto sanatorio, quando mia madre aveva 9 anni. Si sapeva anche che Otello aveva due fratelli, Adolfo, che viveva a La Spezia, e Norma – un’altra opera – che aveva sposato Don, un soldato scozzese conosciuto durante la guerra, e si era trasferita prima a Edimburgo, poi a Melbourne, in Australia. Si sapeva anche, vagamente, che la famiglia di Otello era originaria di Ferrara, ma che – come si legge in uno dei pochi documenti rimasti – «tutti i membri della suestesa famiglia risultano emigrati a Milano il 12/6/1911». Mia madre ogni tanto accennava a qualche zio, tra cui la zia Amelia che tutti invidiavano perché aveva fatto fortuna sposando «l’autista del Brusadelli» (non il Brusadelli, noto industriale, il suo autista). Era come un pulviscolo di nomi che si materializzava quando spuntava una vecchia foto o quando mio nonno, già malato, vedendo in tv un documentario sui babbuini, esclamò impassibile: «Te la chi la Norma, te la chi la mia sorela» («Eccola qui la Norma, eccola qui mia sorella»). Nient’altro.

12 marzo 1939. Otello, con la carabina del tirassegno, e a destra, Tosca. A sinistra, con gli occhi chiusi, Wanda, sorella di Tosca, e dietro, con il cappello, Chermino Sturari, marito di Wanda.

Milano, 1952. Otello con la carabina e, a destra, Lina, la sua seconda moglie (mia nonna). L’obbiettivo scattava se centravi il bersaglio. Il premio era la fotografia.

Otello morì nel 1978. Quando nel 1991 morì anche Lina, la sua seconda moglie, mia madre decise di scrivere a Norma, la zia che non vedeva da quando era bambina, per avvisarla e recuperare qualche ricordo. Un mese dopo arrivò la prima risposta, a cui ne seguirono altre, una ogni mese. Nelle lettere Norma inseriva documenti e fotografie, ma soprattutto si abbandonava a racconti fluviali, sconnessi e quasi illeggibili – scritti nell’italiano ormai dimenticato di cui può disporre una signora di 84 anni con la quinta elementare che da decenni vive e pensa soltanto in inglese. Norma si lamentava del marito, dava aggiornamenti sui parenti australiani, si lanciava in complicati calcoli in dollari, ma soprattutto raccontava oscuri episodi della vita di persone di cui restava in mia madre soltanto l’eco del nome. Nello spazio di poche righe sgangherate, dal passato apparivano il nonno Primo e la nonna Antenesca, i prozii Adolfo, Ettore e Amelia, e tutto pareva immerso in una Milano nebbiosa popolata di sarte e operai, reduci, ladri, falsari, mutilati, puttane e polizia: un’epoca invasa dal freddo e dalla povertà, e dominata dal fascismo, dalla guerra e dalla TBC.

«Cara Nadia, fu improvviso il tuo scritto. Grazie. Fu molto doloroso. Sei la mia nipote e sempre ti penso – ti ho battezzata – anche se Don non mi lascia telefonare. Sarà difficile tornare. Troppi soldi. Qui tutto è caro».

E poi episodi sparsi, ombre:

«Cammino sino a S. Fedele, mezza vestita, in un luogo freddo gabinetto aperto donne di strada e mio padre» (…) Robertino 18 anni, dottore in agronomia, bello – sopra i 500 studenti – l’unico che Mussolini le diede il diploma di dottore, ma troppo studio, venne malato di tubercolosa, c’era sua madre Dina, Ferrarese, ma zio suo padre non c’era, era all’ospedale di San Vittore dalle botte perché volevano sapere da dove e chi li facesse i soldi falsi – non parlò così morì, la nonna Virginia fu il dolore più grande che provò».

Milano, 1941. Norma al centro e Tosca sulla destra, con un’amica.

La rivelazione su Virginia è nella lettera del 17 ottobre 1991, a pagina 5. Sono poche righe.

«Poi io lavoravo negli alberghi poi scappai 8 sett 43 – odiavo i tedeschi sapendo torturavano così partigiani. Seppero i tedeschi che mamma era ebrea – io non fui battezzata – fortuna trovarono tuo padre quelle XX[1] – devi venire con noi – Sei di sangue ebreo. Disse sono tubercoloso, a noi non interessa – ai sangue ebreo – ma mi sposo con questa – era tua madre – Vollero il nome – se è ebrea tutti campi di concentramento; cia altri fratelli? Non so dove sono. Così ogni giorno fuori per nonna ma zia Amelia la portò a Tremezzo – si stancò «Portatemi a Milano». Si chiuse in casa si pulì si vestì s’avvelenò. La vicina telefonò a zia Amelia. 3 giorni parlava una lingua che nessun capì. Morì».

La lettera del 17 ottobre 1991 in cui Norma, quarantasette anni dopo i fatti, racconta a mia madre la verità sulla sua bisnonna Virginia Pirani.

Non ho mai pensato di scrivere la storia di Virginia fino a venerdì 8 novembre 2019, quando una piccola folla si è radunata davanti alla Sinagoga di Milano per portare solidarietà a Liliana Segre e alla comunità ebraica. Non ho mai pensato di raccontarla perché il frammento di identità e dna che mi ha appiccicato addosso una donna sconosciuta – Virginia Pirani, nata a Ferrara il 13 febbraio 1871 e morta a Tremezzo nel 1944 – mi pareva un dettaglio senza importanza, qualcosa da condividere distrattamente a cena, come una curiosità di poco conto, anche se intimamente mi aveva colpito e, direi quasi, ristrutturato. Scoprirsi ebrei – almeno un po’, quel che basta – a ventitré anni, è un piccolo shock che costringe a immaginarsi da capo, confusamente. Non l’ho mai scritta perché non avrei mai pensato che l’antisemitismo che indusse Otello a raccontare a sua figlia che sua nonna era una zingara e non un’ebrea, quasi a mitigarne la colpa e attutire il pericolo futuro, potesse tornare, non so dire in che forma, con che intensità e  gravità.

La reticenza di mio nonno, però, è la stessa che ho rivisto nei miei dirimpettai rom – quindici anni fa l’appartamento di fronte al mio è stato sequestrato alla mafia e dato in gestione a una associazione che si occupa di nomadi – che preferiscono che il figlio non dica ai suoi compagni da dove è arrivata la sua famiglia. Il razzismo resta nell’aria anche quando sembra svanito, perché è elementare e primitivo, una specie di istinto ad addossare la colpa per sentirsi innocenti. Il razzismo inquina chi lo subisce quanto chi lo esercita. Ma la reticenza di Otello assomiglia anche a quella dei molti che non riuscirono a dire ciò che avevano subito nei campi, come Piera Sonnino – la sopravvissuta di Auschwitz di cui nel 2004 avevo curato il diario scritto nel 1950 – che per cinquant’anni aveva scelto di tenere in un cassetto la sua testimonianza sullo sterminio della sua intera famiglia, anche per «non farsi riconoscere», come ripeteva alle figlie.

La memoria è un altro modo di dire conoscenza. Alimentarla è l’unica possibilità che abbiamo di sapere che nel passato di ognuno di noi, dentro le esistenze che ci hanno preceduti e preparati, ci sono vittime e ci sono carnefici, e che è meglio discendere dai primi perché le ingiustizie agite e subite, in qualche modo, continuano a riguardarci. Virginia, a 73 anni, decise di prendere il veleno per non essere portata via. Credo che sia stata la scelta giusta. Le cose cambiano, ma gli uomini restano uguali, tornano uguali, pronti a dimenticare quello che non hanno mai imparato davvero. La storia passata e futura – sbiadite entrambe come le fotografie della famiglia di mia madre – è tutto quello a cui possiamo aggrapparci. Vale per i discendenti delle vittime, ma, ancora di più, per quelli degli assassini.

Lunedì 11 novembre 2019 alle 18:30 in piazza Safra a Milano c’è una manifestazione per Liliana Segre, contro l’antisemitismo e il razzismo. 

Virginia Pirani, nata a Ferrara il 13 febbraio 1871 e morta suicida a Tremezzo nel 1944, nell’unica foto che sia rimasta di lei.

[1] Le XX sono incurvate, come due svastiche.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.