Che cosa dice la copertina del libro di Renzi

Il 19 luglio al Teatro Franco Parenti di Milano – sala grande da 500 posti, gente in piedi, ma non ressa all’entrata – Matteo Renzi ha presentato il suo nuovo libro Avanti insieme al direttore del Corriere della sera Luciano Fontana. Una copia del libro – che nel weekend comparirà nelle classifiche dei più venduti – era stata piazzata, in posizione frontale, sul tavolino in mezzo tra autore e intervistatore. Prima dell’inizio un anziano partigiano con un tricolore al collo si è avvicinato al palco per complimentarsi con Renzi e consegnargli un testo con le sue memorie. In prima fila, oltre a Inge Feltrinelli e ai dirigenti della casa editrice, sedeva lo psicanalista Massimo Recalcati che qualche giorno prima su Repubblica aveva pubblicato un articolo per spiegare l’odio di molta parte della sinistra nei confronti del segretario del PD. Al centro dell’articolo di Recalcati – che Renzi dal palco ha riconosciuto essere l’unico grazie a cui riesce a spiegarsi l’attenzione feroce che suscita – c’è la tesi secondo cui «Renzi è colpevole di avere messo la sinistra di fronte al suo cadavere». Il pubblico era per lo più formato da persone di una certa età, ma anche trentacinquenni in prevalenza barbuti, appartenenti a quella che un tempo, e forse anche oggi, veniva definita «borghesia» (ma è probabile che all’incontro successivo alla Festa dell’Unità la partecipazione sia stata più popolare). Fuori c’era una camionetta della polizia. Nella piscina del teatro – il Franco Parenti è l’unico teatro al mondo con una piscina – la gente faceva il bagno, prendeva il sole e l’aperitivo.

Renzi è apparso in forma, leggermente abbronzato, abito grigio, camicia bianca senza cravatta, calze blu e mocassini. Nel corso dell’incontro – ma questo capoverso è un riassunto, può essere saltato – Renzi ha riepilogato la propria visione della sinistra, che per lui non consiste nella difesa di «totem» come l’articolo 18 o del diritto indiscriminato di sciopero, per esempio nei trasporti il venerdì (perché anche le persone danneggiate dallo sciopero sono lavoratori); ha rivendicato i risultati del suo governo (in particolare gli «800 mila posti di lavoro in più» e i finanziamenti per la cultura: «L’81 per cento del bonus per i diciottenni è finito in libri. Non è una cosa meravigliosa?») e ammesso alcuni errori, soprattutto di comunicazione (come quando ha detto: «220 milioni sulle periferie non si sono mai visti, ma non sono stato capace di raccontarla»), insistendo con ironia sulla facilità con cui in molti gli hanno voltato le spalle dopo la sconfitta al referendum; ha garantito che Gentiloni arriverà a fine legislatura e commentato le dimissioni del ministro Costa ribadendo la sua stima per lui; ha anche annunciato che la prossima campagna elettorale partirà a settembre con un treno che toccherà tutte le province italiane una per una e ribadito che per lui è giusto e naturale che il segretario del maggior partito diventi Presidente del Consiglio, ricordando di essere l’unico tra quelli italiani a essere stato democraticamente votato. In generale ha dato risposte lunghe e articolate, spesso semplificate come nel suo stile, ma facendo un uso più moderato del solito di slogan e giochi di parole («Il problema di Berlusconi è che deve decidere se diventare popolare europeo o populista europeo»). Ha parlato di Europa, di leggi elettorali («Macron è diventato presidente con il 23 per cento, io con il 41 sono andato a casa, non avete idea quanto rosichi») e imitato – piuttosto bene – Berlusconi ripercorrendo gli incontri e le telefonate di cui si racconta nel libro.

Gli applausi sono scattati più volte, soprattutto quando Renzi ha criticato gli avversari interni (ma lo ha fatto con moderazione e senza fare nomi) e rivendicato i risultati del proprio governo. Nonostante abbia detto cose sensate e le abbia dette bene, nell’aria si percepiva una certa sfiducia: gli applausi si accendevano meno fiammanti e si spegnevano qualche secondo prima di quanto avveniva in passato. Mi sono sembrati applausi leggermente abbacchiati, per quanto convinti. Meno protesi verso la costruzione del futuro e più sulla difesa del passato. Anche Renzi mi è sembrato impercettibilmente più umile, come chi non voglia nascondere di essere stato colpito pur sapendo che la forza più grande di un leader è quella di apparire invincibile. Ho avvertito il contrasto tra la direzione degli annunci e la necessità di continuare a fare i conti tra quello che è capitato, tra futuro e passato, una dimensione da cui Renzi, nel suo ottimismo programmatico e progressista, si è sempre tenuto lontano. L’apparizione del vecchio partigiano all’inizio sembrava simbolica. All’inizio della presentazione Luciano Fontana ha domandato perché Renzi abbia deciso di scrivere un libro. Renzi ha risposto che la prima ragione è stata rispondere a chi lo accusa di comunicare soltanto a slogan, nei 160 caratteri di Twitter, ma poi ha aggiunto che scrivere un libro è sempre «catartico perché ti permette di chiudere un capitolo finito».

Mi sono concentrato sulla copertina, sul tavolino tra Renzi e Fontana. Mi è sempre sembrata strana, non completamente intonata allo stile di Renzi. Intanto per il titolo: Avanti è una parola che rimanda al futuro e contemporaneamente agli inizi del movimento socialista. Il sottotitolo dice: «Perché l’Italia non si ferma». Apparentemente è un altro messaggio proteso al futuro, in realtà il fatto che qualcosa sia in movimento non dice nulla sulla direzione in cui sta andando. Poi c’è la fotografia: è malinconica. Il giallo degli alberi sulla sinistra e del nome dell’autore potrebbero essere quelli del Sol dell’avvenire, ma anche quello dell’autunno. La luce e le ombre sembrano quelle del tramonto e l’asfalto è pieno di crepe. Ma soprattutto, non si capisce in che direzione vada la strada. Chi compra il libro si trova davanti una salita impervia, a balze (se guardate bene cliccando bene per ingrandire l’immagine, a bordo strada sulla destra si vede una signora di mezza età di spalle che cammina, forse fa l’autostop). Ma il nome dell’autore – quindi l’autore – sembra arrivare dal punto di fuga in alto, sembra cioè appena avere terminato una discesa precipitosa e veloce per ritrovarsi nel punto in cui la strada finisce o almeno non si sa se prosegua. In primo piano in basso, peraltro, si vedono bene segni di frenate come di chi si sia trovato nella necessità di rallentare di colpo. Un cartello blu sulla destra dice che siamo al chilometro 4 della Strada provinciale 16. Ne esiste una in ogni provincia italiana. Ho chiesto all’editore dove la foto sia stata scattata. Il posto è Bolgheri in Toscana, quello di Davanti San Guido di Giosuè Carducci, quella in cui il poeta parta con i cipressetti cipressetti miei, che infatti costeggiano anche la strada nella foto, rimpiange la propria infanzia spensierata («Non son piú, cipressetti, un birichino, E sassi in specie non ne tiro piú»), ricorda la defunta nonna Lucia e confronta la giovinezza con il presente pieno di lutti. L’onda di Renzi non si è dispersa sulla riva (non si è spenta l’onda di Berlusconi e neppure di D’Alema), ma la sua comunicazione, in questa fase, sembra avere cambiato verso, non si capisce quanto intenzionalmente. Andandomene, ripensavo a una battuta di Pippo, l’amico di Topolino: «Strano come una discesa vista dal basso assomigli a una salita».

 

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Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.