Justin Bieber e la malaparata

Justin Bieber è l’ultimo. Lo hanno arrestato a Miami alle 4 di notte mentre guidava una Lamborghini gialla. L’accusa: guida in stato di ebbrezza e gare clandestine di automobili. Naturalmente lo hanno portato in commissariato, naturalmente lo hanno fotografato e naturalmente la foto ha fatto il giro del pianeta. Bieber indossa una camiciola rossa da prigione con lo scollo a V, e sorride strafottente. Sembra un bambino. È un’immagine incontrovertibile per rappresentare una giovane popstar sulla cattiva strada che se ne strafotte di un mondo contro cui, prima o poi, andrà a schiantarsi. È un’immagine talmente perfetta da cancellare e inghiottire ogni distinguo e ogni altro dettaglio. Invece, se ti fermi a osservare, ti accorgi che nella foto di profilo Bieber non sorride per niente, anzi, sembra stanco e spaventato e che nel video in cui ascolta il giudice che gli legge i capi di imputazione, si fa continuamente rimbalzare la lingua in bocca per l’imbarazzo. Pochi giorni dopo l’arresto le accuse sono cadute (resiste solo «resistenza non violenta all’arresto»), ma la foto rimane e rimarrà, fa parte del curriculum, sancisce la sua appartenenza a un club che da centocinquant’anni non fa che aumentare. Ma forse rappresenta anche una novità nel nostro modo di concepire e rappresentare la colpa.

Dieci anni fa, quando è uscito Accusare, le immagini di persone in arresto rappresentavano ancora un’attrazione post lombrosiana, una curiosità da feticisti di Sorvegliare e punire di Foucault. Non abitavano ancora stabilmente sulle colonne di destra dei siti di notizie, accanto alle modelle di Victoria Secret’s, ai gattini a nove code e agli autogol da centrocampo. Ma i segnali non mancavano. Tra i primi a raccoglierle c’era The Smoking Gun, un sito specializzato in materiali di scarto che all’epoca era raffinato e originale. Pubblicava verbali di polizia, informative della CIA desecretate, strane notizie di cronaca e, appunto, gallerie di foto segnaletiche. Oggi è una specie di «stranomavero» giudiziario e penitenziario in cui l’esibizione fine a se stessa regna indisturbata. Tra le persone famose o bizzarre fotografate in stato di arresto c’erano musicisti, attori, giocatori di basket, star della tv, serial killer, mafiosi. La maggior parte erano recenti, quindi a colori, ma ce n’era anche qualcuna in bianco e nero.

Ad affascinarmi erano gli occhi, soprattutto. Era il fatto che tutto collassasse in quell’unico sguardo catturato da una macchina in una condizione di costrizione. La foto ritraeva la vittima, che in quanto criminale era stato carnefice, ma fuoricampo stava il carnefice – il poliziotto – che rappresentava la vittima, cioè la società colpita dal crimine. E in mezzo stava la macchina. Erano le fotografie al contempo più umane e meccaniche che avessi mai visto. Scavalcavano generi e anni, cambiavano le pettinature e i vestiti, ma cambiava pure lo sguardo a seconda delle droghe del momento. Cambiavano le inquadrature e le pose, la grammatica dell’immagine si strutturava e arricchiva, senza intaccare il nucleo simbolico profondo della foto segnaletica: l’idea magica, presente nella fotografia fin dagli albori, per cui ritrarre qualcuno significa catturarlo, imprigionarlo per sempre, renderlo inoffensivo. Walter Benjamin racconta in Piccola storia della fotografia che guardare i primi dagherrotipi faceva paura perché si pensava che le persone ritratte, intrappolate nella lastra, potessero ricambiare lo sguardo.

Tutta la storia del Novecento è rimasta impigliata nelle foto segnaletiche. Non c’è evento o personaggio che dalla seconda metà dell’Ottocento a oggi non sia stato fissato da una foto segnaletica. Gli assassini di Lincoln, il brigante Musolino, il ladro della Gioconda, Gaetano Bresci che nel 1900 a Monza ammazzò Umberto I e Gavrilo Princip che nel 1914 uccise l’arciduca d’Austria e sua moglie, ci sono Lenin, Troskij e Stalin (fotografato travestito dalla polizia dello zar in costume tipico da rivoluzionario bolscevico, cappotto e cappellaccio in testa), mafiosi come Lucky Luciano, Al Capone e Vito Genovese. Sfilano Antonio Gramsci, Mussolini, Togliatti e Luigi Longo. Ci sono Fidel Castro e un giovanissimo Lula. E c’è Aldo Moro nell’aberrante segnaletica al contrario che le BR inviarono ai giornali. Ci sono Malcolm X e Martin Luther King, di cui esiste una seconda fotografia che lo ritrae immobile nella sua dignità mentre posa per la segnaletica. Di musicisti se ne incontrano schiere: Jim Morrison, Michael Jackson, Mick Jagger, Jackson Brown, Johnny Cash, Tupac Shakur, Fifty Cent e molti altri. Tra gli attori Al Pacino, Jane Fonda, Mickey Rourke e Nick Nolte, fotografato l’11 settembre 200. C’è anche Bill Gates. D’altra parte, in un Paese come gli Stati Uniti dove vengono arrestate 13 milioni di persone all’anno, 1 milione e 400 mila per guida in stato di ebbrezza, non è difficile finire in posa davanti agli obbiettivi della polizia.

(Un estratto da Accusare, con le foto segnaletiche di arrestati famosi)

Ma tutte le facce famose galleggiano su una miriade di sembianze anonime: gemelli orfani, uxoricidi alcolizzati, un ladro italiano «inventore della sega circolare» fotografato due volte a distanza di decenni, la seconda invecchiato e più elegante, un «sodomita» ripreso di spalle perché fosse riconoscibile, tatuati fotografati nudi. La testa del brigante Gioacchino Di Fiore posata su un secchio. Un boia tedesco incappucciato. Una bambina russa dell’Ottocento condannata per avere avvelenato sua madre i cui piedi scalzi non toccano terra. I prigionieri di Auschwitz dove era stato messo a punto un macchinario per rendere automatica e industriale l’operazione di schedatura. Migliaia di facce senza nome, con un numero cucito sulla divisa a righe.

In apparenza le foto si accatastano in modo casuale. In realtà rivelano l’evoluzione, non solo del gusto e delle mode, ma anche delle modalità con cui colpa e punizione sono state messe in scena e rappresentate nella modernità. Raccontano il modo in cui sono vissute da chi è fotografato. Ma l’idea che la macchina fotografica possa essere impiegata per catturare l’immagine dei colpevoli nasce insieme alla fotografia: le prima foto segnaletiche – datate 1848, quindi soltanto nove anni dopo l’invenzione di Daguerre – ritraggono un ladro e una prostituta nel commissariato di Moor street a Birmingham. Entrambi hanno gli occhi tristissimi. Appaiono confusi. Intimoriti dalla macchina.

Nel corso del Novecento, però, questa timidezza si stempera per lasciare posto a una specie di orgoglio malinconico, sempre più sicuro di sé e della propria condizione. La foto segnaletica diventa un rito di passaggio, e come tale pretende di essere affrontata. Tra i primi a mettersi in posa, e a mostrarsi sicuri, sfrontati, ci sono i mafiosi italo-americani che sfidano l’obbiettivo con gli occhi, fieri di avere ottenuto una parte in commedia. Cantanti e attori – di solito arrestati per fatti connessi all’uso di stupefacenti – hanno in genere espressioni più confuse e meno aggressive, ma ridono spesso come se capissero che anche quell’istante concorrerà alla loro immagine e alla loro leggenda futura.

Non c’è una regola ed è un materiale troppo eterogeneo per avere certezze. Forse, però, c’è un elemento che rimane costante: alla base di ogni segnaletica riposa una specie di sospetto inconscio, resiste l’idea che fotografare e catturare misteriosamente e magicamente coincidano. Per oltre un secolo la fotografia segnaletica rimane, perciò, una sanzione – la prima sanzione – il primo atto di chi cattura nei confronti di chi è catturato. Ma nei primi anni del nostro secolo la funzione segnaletica cambia di segno. Non appare più come l’azione di un’autorità su chi ha commesso un reato. Da strumento di prigionia si traforma in liberazione.
Inizia una corsa a mostrarsi “cattivi”. Consapevolmente, orgogliosamente e a volte perfino gioiosamente. Lo sguardo di sfida dei precursori – i mafiosi italiani in America – è svanito. Al suo posto appare una specie di ghigno incurante. Oppure ci si esibisce sulla scena del delitto. I colpevoli irrompono sulla scena. Entrano nell’inquadratura. Sono auto-segnaletiche le foto di Abu Ghraib, in cui i carnefici sorridono accanto alle vittime ridotte a cose. Sono auto-segnaletiche dei carnefici incappucciati sullo sfondo, i video dei rapiti in Iraq. Ma l’esigenza di segnalare se stessi non è più connessa alla qualità morale dell’azione commessa. Non occorre che sia efferata. Non occorre neppure che sia cattiva. Basta che sia genericamente trasgressiva e in qualche misura eclatante.

L’entrare in scena è diventato un bisogno primario di massa, che il digitale e la rete possono soddisfare. In fondo sono auto-segnaletiche anche i selfies con cui miliardi di persone – famose e no – segnalano se stessi quotidianamente al mondo. Come ha scritto Justin Bieber su Twitter: «YOU ARE ALL WORTHY NO MATTER WHAT ANYONE SAYS» («Voi siete tutti degni, non importa quello che dicono gli altri»). L’importante è che ti guardino. Nella foto segnaletica di profilo, Bieber è un ragazzo stanco. In quella di fronte sorride. È difficile dire come si sentisse al momento dell’arresto. Ma la sua è la prima foto segnaletica indistinguibile da un normale primo piano. Non è più neppure una foto segnaletica. Non sanziona la colpa, sancisce la fama. È perfettamente sovrapponibile alla foto-tessera di qualsiasi altro ragazzino sorridente. Nessuno è più in grado di dedurre dall’espressione chi dei due è in prigione e perché. Come è stato notato, tra Justin Bieber in arresto e Miley Cyrus libera ogni differenza è svanita.

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Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.