Un momento di Bretton Woods

Il 15 novembre 1975, esattamente quarantacinque anni fa, nasceva la globalizzazione dell’economia. Naturalmente si tratta di una data simbolica, i processi e le interconnessioni su scala mondiale che porteranno alla sua concettualizzazione come la intendiamo oggi erano in atto già da decenni.

Ma è un fatto che gli storici (Harold James, in primis) convengano sulla circostanza che sia quella la data in cui tutto ebbe inizio. A Rambouillet, in un castello a una cinquantina di chilometri da Parigi, dove i capi di Stato dei sei Paesi allora più industrializzati del mondo (Gerald Ford per gli Usa, Takeo Miki per il Giappone, Aldo Moro per l’Italia, Valery Giscard d’Estaing per la Francia, Helmut Schmidt per la Germania, Harold Wilson per il Regno Unito), su invito congiunto del cancelliere tedesco e del presidente francese, decisero di incontrarsi per provare a cercare insieme una via d’uscita alla crisi energetica causata dallo shock petrolifero di quegli anni. Una crisi che rischiava di far precipitare irrimediabilmente lo stato di salute dell’economia mondiale visto che anche gli strumenti messi in campo trent’anni prima, durante la conferenza di Bretton Woods, per favorire lo sviluppo economico mondiale e attutirne le fasi declinanti (sistema di cambi fissi, nascita del Fondo monetario internazionale, della Banca Mondiale, del Gatt che poi nel 1995 diventerà la Wto) mostravano ormai la corda.

Alla fine i sei “Grandi” non decisero granché ma si limitarono a stilare un documento finale molto generico nel quale si ripromettevano che avrebbero compiuto «sforzi in vista del ripristino di una maggiore stabilità nelle condizioni economiche e finanziarie fondamentali dell’economia mondiale e adottato misure atte a contrastare turbative alle condizioni di mercato o fluttuazioni imprevedibili dei cambi».

Insomma, parole piuttosto evanescenti che tuttavia non offuscarono il successo planetario dell’evento al punto che i capi di Stato decisero di tornare a vedersi periodicamente per fare il punto sulle dinamiche in corso dell’economia globale e agevolarne la crescita. Poi l’invito fu allargato al Canada e divenne G7 e poi via via negli anni il numero di Paesi aumenterà fino a diventare venti, il G20 dei giorni nostri.

Oggi questo meccanismo si è inceppato.
Già da tempo questi incontri sono diventati poco più che una noiosa e dispendiosa routine, è raro vengano prese in tali consessi decisioni di ampia portata e significativo impatto, gli interessi (egoismi?) dei singoli Paesi prevalgono sempre più sull’interesse comune e non di rado i vertici si concludono con un nulla di fatto.
Adesso poi che c’è il coronavirus la pandemia, come dice l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ha hackerato il software della globalizzazione.

Ma mentre tutto o quasi è fermo i problemi sono più che mai globalizzati: disuguaglianza, cambiamenti climatici, disoccupazione, debiti pubblici e privati multipli del prodotto interno lordo mondiale, banche a rischio crack perché strapiene di crediti inesigibili, con tutto ciò che ne consegue anche in termini di svalutazione delle garanzie, a cominciare dai beni immobiliari.

Per tali ragioni, per provare a ripensare l’economia a livello planetario, la direttrice del Fondo monetario internazionale Kristalina Georgieva ha invocato nelle settimane scorse una sorta di “momento Bretton Woods” (e il richiamo alla cittadina americana lo si può ben comprendere visto che guida una delle istituzioni nate in occasione di quella conferenza). Un momento di riflessione corale, cioè, per mettere a punto nuovi modelli di sviluppo economico più inclusivi e, se possibile, uno schema di risoluzione/ristrutturazione (e, perché no, di azzeramento) dei debiti pubblici eccessivi.
C’è bisogno, in altri termini, come auspicava peraltro qualche giorno fa su anche un altro nostro ex ministro dell’Economia, Domenico Siniscalco, di definire una nuova agenda economica mondiale.

L’espressione “momento Bretton Woods” è senza dubbio suggestiva. Così come lo sarebbe, d’altro canto, anche “momento Rambouillet”. Ma in attesa che simili momenti prima o poi arrivino c’è, lungo questa stessa falsariga, un altro “momento” però molto più imminente. Lo si potrebbe chiamare “momento Francesco”. È l’evento internazionale “The economy of Francesco” che dal 19 al 21 novembre radunerà online (si sarebbe dovuto tenere “in presenza” ad Assisi visto che si ispira al Santo della città umbra e alla sua idea di economia) più di duecento giovani economisti di tutto il mondo che dialogheranno di sviluppo sostenibile, inclusione sociale, patti generazionali con imprenditori, manager, premi Nobel (Muhammad Yunus, Michael Spence), economisti affermati (Jeffrey Sachs, Mariana Mazzuccato, Luigino Bruni), intellettuali (Carlin Petrini, Mauro Magatti).
Scopo dichiarato dell’evento: dare un’anima all’economia globale.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com