Milano, le élite e il PD della ZTL

E poi in tanti dicono che le élite si allontanano dal popolo, che il PD è un partito elitario e che di questo passo non tornerà mai al governo. Hanno ragione a dirlo. È così.
Ha voglia il buon Baricco ad aprire qualche settimana fa, su Repubblica dell’11 gennaio, un salutare dibattito sullo scollamento tra popolo ed élite, a mettere il dito nella piaga, a spiegare con parole inappuntabili che «le élites sono da tempo preda di un torpore profondo», che sono «ipnotizzate da se stesse e hanno perso completamente contatto con la vita che fa la gente», che vivono in una sorta di stato di «ipnosi da cui declinano un pensiero unico, allestendo raffinati teoremi il cui risultato è sempre lo stesso, totemico: There is no alternative».

Niente. Come quelli che quando parli si voltano dall’altra parte facendo finta che non siano i destinatari delle tue parole, così fa il PD: gira la testa o, peggio, la mette sotto la sabbia. Il PD elitario? Figuriamoci, se la raccontano. E invece, forse senza nemmeno accorgersene (il che è ancora più grave) sono intrisi di elitismo dappertutto.
Partiamo proprio da quella frase, There is no alternative, che Baricco posiziona in alto, all’inizio del suo intervento, e che riprenderà più volte.
Lo slogan fu coniato da Margaret Thatcher negli anni Ottanta per alludere al fatto che non ci fossero alternative al sistema capitalistico neoliberista. Poi però è diventato un modo di dire piuttosto diffuso per stigmatizzare il “pensiero unico” applicato a molteplici circostanze, siano esse grandi questioni (per esempio Baricco lo richiama innanzitutto a proposito del modello di unità europea imposto dalle élite) che questioni di minor rilevanza.

Su una questione sostanzialmente di secondaria importanza a Milano negli ultimi tempi sta andando in scena uno spettacolo deprimente che dimostra quanto certi amministratori abbiano, come dice Baricco, «perso completamente contatto con la vita che fa la gente»: l’aumento del biglietto di tram, bus e metropolitana da 1,50 a 2 euro che il sindaco Sala fortissimamente vuole.
È vero che dovendo affrontare il problema del taglio dei finanziamenti governativi e gestire una rete di trasporti pubblici tra le più efficienti ma anche più onerose d’Italia, bisogna che da qualche parte egli trovi i soldi. Ma va anche sottolineato che per via di tutta una serie di limiti che il Comune ha imposto al traffico automobilistico in città (area C, area B e altre restrizioni simili), ciò ha prodotto e produrrà sempre più un forte incremento dell’uso dei mezzi pubblici con conseguente maggiori introiti per ATM (l’azienda di trasporti pubblici milanese). Insomma è evidente che un aumento del singolo biglietto di ben il 34 per cento vada ad incidere parecchio e soprattutto sulle tasche dei meno abbienti.

Poiché l’aumento non può aver seguito senza il via libera della regione Lombardia, il cui governatore leghista Attilio Fontana, fiutando l’impopolarità e iniquità della misura (e non ci vuole un dottorato in scienze politiche per capirlo, caro PD) sarebbe disponibile ad aumentare il costo del biglietto al massimo a 1,70 euro ecco che i due amministratori pubblici hanno cominciato a darsele di santa ragione: Sala accusa Fontana di essere eterodiretto da Salvini (che a sua volta interviene contro Sala); Fontana accusa Sala sostenendo che non può accettare che certe riforme vadano a vantaggio di alcuni cittadini e a scapito di altri. Morale: Il sindaco e il suo assessore alla mobilità Granelli si sono impuntati e stanno cercando il modo di aggirare il veto della regione pur di partire ad aprile con l’aumento a 2 euro del biglietto, con inevitabili strascichi polemici che andranno avanti chissà ancora per quanto. Come a dire: There is no alternative.

Quanta miopia ed elitismo in questo arroccamento. Verrebbe da consigliare loro la lettura del libro di Paolo Gentiloni La sfida impopulista. Sala l’ha pure presentato a novembre nell’ambito di BookCity ma temo non sia arrivato fino in fondo, almeno fino a pag. 259, dove viene citato Fareed Zakaria che afferma che «mentre il peccato più grave della destra è il razzismo, quello della sinistra è l’elitismo». E dove, alla pagina successiva, l’ex premier conviene pienamente con lo scrittore Amos Oz quando scrive che «la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario al compromesso non è integrità e nemmeno idealismo o nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo».

Negli stessi giorni in cui aveva luogo questa ben poco edificante querelle il capoluogo lombardo diventava anche argomento politico centrale di due pezzi da novanta del PD: Carlo Calenda e Nicola Zingaretti. Entrambi si profondevano in lodi sperticate per il “modello Milano”.
Calenda con frasi tipo: «Se non ci fosse stato Beppe Sala il mio manifesto per l’Europa non sarebbe mai decollato».
Zingaretti, con una lunga lettera pubblicata sabato 26 gennaio sulle pagine milanesi di Repubblica dal titolo “Il nuovo PD e il modello Milano”, nella quale, dopo aver lodato la capacità del centrosinistra di Milano di «saper includere e allargare il perimetro della politica alla società civile» (credo che ormai sia rimasto solo il Pd a credere nelle virtù taumaturgiche di ciò che rappresenta questa ormai logora espressione) a un certo punto scrive che bisogna «aprire il partito democratico alle forze migliori della società».
Beccato. Eccolo lì tutto l’elitismo del PD. Ci puoi girare intorno, puoi parlare d’altro, ma arriva sempre il momento in cui getti la maschera e riveli quel che sei. In questo caso, un partito elitario.

Chi sarebbero i “migliori” a cui fa riferimento Zingaretti? Chi merita secondo lui di entrare a far parte del partito democratico? Già la circostanza di evocare un’idea di “meritocrazia” non dimostra forse come il Pd non sappia più connettersi con il suo popolo?

Chiariamolo subito: una cosa è la meritocrazia intesa nell’accezione di voler permettere a chi ha talenti ma non mezzi economici di salire l’ascensore sociale, di non vedersi scavalcato da chi gode di raccomandazioni ma non ha titoli per andare avanti. Su questo non si discute, ben venga tutta la meritocrazia del mondo, a partire dalla scuola, in linea con quanto sostiene il comma secondo dell’articolo 34 della Costituzione: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».
Molto diversa, al contrario, è l’accezione di meritocrazia come circuito chiuso che si autosostiene e finisce con il creare discriminazioni.
Ne ha fatto cenno, nel dibattito seguito all’intervento di Baricco, Giancarlo Bosetti il 17 gennaio, sempre su Repubblica, ricordando come la classe dirigente liberale abbia raccontato a sé stessa la favoletta «di una sana meritocrazia grazie alla quale si è guadagnata i suoi privilegi», ma lo ha spiegato magistralmente un paio di mesi fa l’economista Luigino Bruni in un suo intervento sull’inserto “Buone notizie” del Corriere della Sera:

«La meritocrazia sta diventando la nuova religione del nostro tempo, i cui dogmi sono la colpevolizzazione del povero e la lode per la disuguaglianza…Eppure fino a tempi non recenti non abbiamo mai pensato di costruire una società interamente né prevalentemente meritocratica. Esercito, sport, scienza, scuola, erano ambiti tendenzialmente meritocratici, ma altre decisive sfere della vita erano rette da logiche diverse e qualche volta opposte. Nelle chiese, nella famiglia, nella cura, nella società civile, il criterio base non era il merito ma il bisogno, grande parola oggi dimenticata…La novità del nostro capitalismo è l’estensione della meritocrazia a ogni ambito della vita civile, la cui prima e più rilevante conseguenza è la legittimazione etica della disuguaglianza, che da male da combattere sta diventando un valore da difendere e promuovere. I passaggi sono tre: 1) si inizia con il considerare il talento un merito; 2) si continua riducendo i molti meriti delle persone solo a quelli più semplici e utili (chi vede oggi i meriti della compassione, della mitezza, dell’umiltà?); 3) infine si remunerano diversamente i talenti-meriti amplificando le distanze tra le persone, dimenticando radicalmente il ruolo decisivo che il caso e la Provvidenza esercitano sui nostri talenti…I meriti e i talenti non sono merito nostro, se non in minima parte, una parte troppo infima per farne il muro maestro di una civiltà. Ecco perché un importante effetto collaterale di una cultura che interpreta i talenti come merito e non come dono è una drammatica carestia di gratitudine. Non capiamo allora l’aumento delle disuguaglianze nel nostro tempo se non prendiamo molto sul serio l’avanzare indisturbato della teologia meritocratica. Come non capiamo la crescente colpevolizzazione dei poveri, sempre più visti come demeritevoli e non come sventurati. Se infatti il talento è merito, l’equivalenza demerito-colpa è immediata. E se i poveri sono colpevoli io non sento nessun dovere di aiuto».

Questo è il vero punto: se metto come fa Zingaretti sempre l’accento sulle parti “migliori” della società, su questa meritocrazia che di fatto crea discriminazioni, finisco con il dimenticare quella che invece dovrebbe essere la ragione sociale di una forza politica di sinistra: mettere al centro i bisogni di chi non “merita”, di chi non è “migliore”. Altrimenti il PD diventa, come ha detto con rara efficacia da Fazio a Che tempo che fa domenica scorsa Enrico Letta, il partito della ZTL (zona a traffico limitato, tanto per rimanere in tema di trasporti), ossia un partito che si preoccupa dei centri urbani e si dimentica delle periferie (anche e soprattutto esistenziali).

D’altronde il “Modello Milano” cos’altro è se non un modello di buona amministrazione, corroborato dal successo di Expo 2015, incentrato su parametri di riferimento di natura prevalentemente economica?
Per dirla con un famoso incipit di un’inchiesta di Giorgio Bocca sul boom economico degli anni Sessanta, quello che lui allora scriveva di Vigevano vale oggi più che mai per Milano: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste». E l’amministrazione comunale si adopera, naturalmente in un quadro di regole e indirizzi di interesse generale, affinché questa prospettiva dominante trovi realizzazione.

Conosco la facile obiezione: ma come, Milano è anche la capitale del nonprofit e del volontariato e il Comune fa tanto per essere al loro fianco? Vero. Ma altrettanto facile è la replica: vorrei ben vedere. Se non fosse così, se non ci fossero tante organizzazioni del terzo settore, con i grandi numeri che le caratterizzano, a tentare di arginare le troppe tensioni, disuguaglianze, ingiustizie sociali che l’avidità diffusa qui causa la città imploderebbe.

Aveva ragione qualche tempo fa il politologo Piero Ignazi a chiedersi: «Quanto la sinistra ha interiorizzato le logiche del mercato e del denaro come unica unità di misura? Quanto la sua classe dirigente, soprattutto a livello locale, è stata “travolta” da queste logiche? Tanto». E ancora Ignazi, sempre il 17 gennaio su Repubblica, scriveva: «I meriti dei governi Pd sono tutti ascrivibili a una logica razionale e gestionale. Quello che hanno fatto sempre le élite: indicare e al limite imporre una via stretta ma virtuosa all’opinione pubblica… Il partito democratico si muove in un mare di ragionevolezza e concretezza; il che è certamente ammirevole. Ma insufficiente. Manca un’idea, o quanto meno una visione che appassioni. Senza suscitare emozioni il PD rimane in un angolo».
Questo articolo aveva un titolo semplicemente perfetto: Il cuore spento del Pd. Spetta al nuovo segretario il dovere di riaccenderlo al più presto, rifuggendo da quell’inutile bla bla bla sulla società civile e le forze “migliori”. Stavolta davvero there is no alternative.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com