Capitalismo e nonprofit relazionale

«Basta capitalismo di relazione, ora ci vuole trasparenza» ha detto l’altro ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi nel suo intervento alla Borsa di Milano.
Che cosa sia il capitalismo di relazione è più o meno noto: è quell’intreccio di rapporti, spesso opachi, tra imprenditori, finanzieri, banchieri, affaristi, manager, editori, giornalisti, pezzi delle istituzioni e della politica che, per decenni, hanno governato le sorti dell’economia italiana. Essenzialmente con un unico fine: massimizzare il proprio tornaconto, non di rado a scapito degli altri portatori di interesse (gli stakeholders: soci, lavoratori, ambiente, ecc.), del merito, dell’etica.
Luogo simbolo in cui si è celebrato il capitalismo di relazione sono stati i cosiddetti salotti buoni della finanza, primo fra tutti Mediobanca, con il suo sommo “sacerdote” Enrico Cuccia, sotto la cui ala protettrice per decenni hanno potuto dormire sonni tranquilli, indipendentemente dall’andamento dei conti economici delle loro aziende e dalla rilevanza numerica delle partecipazioni azionarie in esse detenute, i nomi più “blasonati” del capitalismo italiano, da Agnelli in giù. Non a caso Cuccia sosteneva che «le azioni si pesano e non si contano». Esattamente il contrario di quello che avviene nelle Borse valori dove le azioni si contano. Da qui un fiorire continuo di patti di sindacato, partecipazioni incrociate, catene societarie e di tutta una serie di strumenti giuridico-finanziari messi in piedi al solo scopo di proteggere il “sistema” congelandolo.

Oggi l’epoca dei salotti buoni sta finendo. E comunque l’apertura dei mercati, le loro nuove regolamentazioni internazionali, gli interventi più incisivi delle autorità di garanzia ne hanno notevolmente ridimensionato il potere. La stessa Mediobanca da anni ormai ha cambiato registro, si è sfilata dai patti di sindacato delle imprese cui partecipava, ha venduto partecipazioni non strategiche e svolge l’attività di una “normale” banca d’affari. Indicativo, in proposito, il titolo dell’editoriale con cui il vicedirettore del Sole 24 Ore Alessandro Plateroti ne commentò la svolta un paio di anni fa (22 giugno 2013): “Il tramonto del capitalismo relazionale”. Tuttavia ci sono ancora tanti salotti e salottini che non si rassegnano a uscire di scena per cui ha fatto bene Renzi a mandare un messaggio forte e chiaro contro il capitalismo relazionale nel luogo meglio deputato a coglierne l’importanza visto che, appunto, in Borsa le azioni si contano e non si pesano.

Ben diverso è il significato che assume il concetto di “relazionale” nel settore nonprofit. Qui ne qualifica la stessa natura identitaria. Infatti, gran parte dei beni che producono le organizzazioni nonprofit, pur con modalità, qualità e quantità differenti a seconda della specifica tipologia organizzativa, sono beni relazionali. Beni cioè che acquisiscono un valore solo se si produce una relazione tra chi li offre e chi li riceve. Si pensi all’assistenza agli anziani, ai portatori di handicap, ai malati, ai migranti. Beni che, per stare alla definizione del sociologo Pierpaolo Donati che ne ha coniato l’espressione una trentina di anni fa «possono essere prodotti e fruiti soltanto assieme da coloro i quali ne sono gli stessi produttori e fruitori tramite le relazioni che connettono i soggetti coinvolti».

Ma i beni relazionali vanno ben oltre i servizi alla persona e la loro connotazione strettamente socio-assistenziale. Sono beni per cui il tratto essenziale, insieme alla reciprocità, è dato dalle motivazioni e dalle intenzioni delle persone che simultaneamente producono e consumano questi beni. Lo spiega bene l’economista Luigino Bruni con un esempio:

«Se il consulente o l’assicuratore mi chiede dei miei bambini e della mia famiglia perché sa che creare questo clima familiare rende il contratto più semplice (e per lui più conveniente), e questa motivazione mi si palesa, quel dialogo pre-commerciale non genera alcun bene relazionale (anzi, probabilmente un male relazionale). Il bene relazionale, infatti, è un bene di grande valore, che resta tale finché non cerchiamo di assegnarli un prezzo, di trasformarlo in merce e metterlo in vendita. Muore se perde il principio attivo della gratuità»

Si evince quindi facilmente perché le organizzazioni nonprofit, per il movente ideale e non lucrativo che è alla base della loro costituzione, sono i luoghi meglio deputati a produrre beni relazionali. Nei salotti buoni del capitalismo non si producono beni relazionali perché il fine è di natura economica e/o di potere. Nelle organizzazioni nonprofit invece si, perché il fine è non lucrativo e l’aspetto economico (e/o di potere) è solo strumentale al suo raggiungimento (naturalmente la questione è più articolata e complessa di questa dicotomia ma l’idea di fondo non cambia).

Mentre la relazionalità dei salotti buoni crea divisione (il mio vantaggio va a scapito degli altri che rimangono fuori), quella delle organizzazioni nonprofit crea coesione. Una coesione sociale che poi, in ultima istanza, è la pre-condizione essenziale affinché possa esservi anche lo sviluppo economico cosiddetto capitalistico in senso stretto. Come dimostra l’esistenza dei distretti industriali, non a caso del tutto ignorati e misconosciuti da Cuccia, la cui “formula vincente” risiede proprio nella capacità di saper competere e cooperare nel contempo.

Per tale ragione, quando Renzi lo scorso anno varò la riforma del Terzo settore, ci tenne a sottolineare che in realtà per lui era il primo (rispetto a Stato e mercato): perché è il settore più adatto, per via della sua vocazione a produrre beni relazionali, a creare coesione sociale. Ma è proprio questa riforma, peraltro già a buon punto, che sta facendo emergere da più parti, alcuni aspetti del nonprofit piuttosto discutibili sebbene largamente prevedibili. Poiché la riforma mira nel complesso a promuovere maggiore trasparenza nel Terzo settore e ricambio ai vertici delle organizzazioni perché solo così il nonprofit potrà liberare appieno le sue potenzialità socio-economiche ed occupazionali, non pochi dirigenti sono preoccupati di perdere il potere che detengono, talvolta anche da decenni (direttamente o indirettamente, non essendo rari i casi di figli o affini che si succedono nei posti apicali).

E allora si affannano, partecipano a convegni uno dopo l’altro per rassicurarsi a vicenda, eccedono in retorica, cercano l’appoggio per le loro trascurabili tesi di questo o quell’accademico che, a sua volta, dopo aver calcato a lungo la scena avverte che nessuno si fila più le sue altisonanti e vuote parole. Insomma si organizzano come in una sorta di salotto buono per superare (sperano) “a nuttata”. Per cui si assiste al paradosso che mentre il capitalismo relazionale si ridimensiona, i suoi vizi contagiano il nonprofit che diventa sempre più autoreferenziale. Se tanti dirigenti (delle più diverse tipologie organizzative) fossero stati più concentrati su cosa stava accadendo intorno a loro e meno sul mantenimento della propria poltrona, probabilmente tanta opacità e finanche malaffare non avrebbe fatto ingresso nel Terzo settore.

Come un tempo si diceva che il capitalismo si regge su una serie di costi sociali non pagati oggi si potrebbe affermare che il nonprofit italiano si regge su una serie di costi reputazionali non pagati. Per questo, tra le altre cose, rimane ancora culturalmente fragilissimo.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com