Un anno per rottamare il nonprofit

Ancora l’altro ieri Matteo Renzi, nel corso dell’assemblea dei parlamentari del PD, ha voluto ribadire che per lui la riforma del Terzo settore rappresenta uno dei capisaldi dell’azione innovatrice del suo Governo sebbene almeno da un punto di vista mediatico, ci ha tenuto a sottolineare, abbia certamente meno appeal di altre ben più “altisonanti” riforme. E bisogna dargli atto, poiché è dal primo giorno del suo ingresso da presidente del Consiglio a Palazzo Chigi che lo sostiene, che sta marciando spedito con i fatti in questa direzione. Giovedì della scorsa settimana, infatti, sostanzialmente nei tempi stabiliti, con appena un paio di settimane di ritardo rispetto a quando inizialmente previsto (il 27 giugno) è stato varato dal Consiglio dei ministri il disegno di legge delega per la riforma del settore nonprofit. Un provvedimento che mette a tema questioni cruciali come la stabilizzazione della misura del “cinque per mille”, l’impresa sociale, il servizio civile universale, gli obblighi di trasparenza per la rendicontazione degli enti non lucrativi, il riordino delle agevolazioni fiscali, delle normative di riferimento delle singole tipologie organizzative e molto, molto altro ancora.

Una volta approvata dal Parlamento la legge delega, il Governo si è dato al più dodici mesi (ma ha già annunciato, per bocca del ministro del lavoro Poletti, che conta di farcela in sei) per varare uno o più decreti legislativi che riordinino tutta la materia. Quindi, se tutto dovesse filare liscio, già nel 2015 potremmo avere un settore nonprofit “irriconoscibile”. Nel senso che potrà avere un volto molto più giovane, dinamico, propositivo, trasparente, imprenditoriale e, mi auguro vivamente, “piagnisteo free”.

Se, appunto. Da qui a un anno e passa, infatti, può succedere di tutto. Anche che i migliori propositi finiscano nel pantano e poi da qui fatichino a uscirne. In altri termini, che il parolaio infinito di non pochi dirigenti e dirigentini che già ha superato pericolosi livelli di guardia, i loro distinguo, i loro «si però ma poi siamo sicuri che?», gli immancabili «ma nel mio caso è diverso, non si può procedere così» e litanie del genere finiscano per annacquare il contenuto innovatore dei decreti. La cui scrittura spetta in primis al ministro Poletti ma, soprattutto, al suo sottosegretario con deleghe al Terzo settore Luigi Bobba. Proprio questa funzione di Bobba qualche perplessità me la suscita. La persona è degnissima e perbene, ci mancherebbe altro e diciamolo subito. Ma sono troppi, davvero troppi anni che sta “dentro” al settore nonprofit con ruoli di primo piano, a cominciare da quelli di portavoce del Forum permanente del terzo settore, di presidente delle Acli, di vicepresidente di Banca etica. Insomma, se è vero che il potere costituito non sarà mai (o comunque difficilmente) potere costituente mi riesce difficile immaginare che chi finora di quel mondo è stato protagonista con incarichi di grande responsabilità possa oggi rivoltarlo come un calzino per liberare energie nuove (che sono enormi e non aspettano altro per venir fuori che qualche “primadonna” che, ritenendosi indispensabile, continua a fungere da ingombro venga gentilmente ma fermamente accompagnata alla porta). Sarebbe come chiedere a Giuseppe Guzzetti che da quasi vent’anni presiede la Fondazione Cariplo e l’Acri (l’associazione che raggruppa tutte e 88 le fondazioni bancarie) di riformare il settore della fondazioni bancarie (di cui, peraltro, c’è urgente bisogno). Oppure a Giovanni Bazoli, da oltre trent’anni al vertice di quello che oggi è diventato il gruppo bancario Intesa-Sanpaolo partendo dal Nuovo Banco Ambrosiano, di riformare il capitalismo finanziario di relazione così radicato nel nostro Paese. Semplicemente inverosimile.

Bobba ha il merito di aver sottoscritto il 18 aprile del 1998 a Padova, nella veste di portavoce del Forum permanente del Terzo settore un “Patto di solidarietà” con l’allora presidente del Consiglio Prodi che avrebbe dovuto rappresentare la rampa di lancio del settore nonprofit anche in Italia. Se uno si va a rileggere quel documento trova in abbondanza le stesse disamine che vengono fatte ancora oggi dai cosiddetti “addetti ai lavori” per favorire la crescita del nonprofit. Se nulla o quasi è stato poi realizzato il problema diventa allora, evidentemente, non tanto la carenza di analisi puntuali quanto la circostanza che sono mancate le persone e la volontà politica che avrebbero dovuto implementarle concretamente. A cominciare dallo stesso Prodi che sa un sacco di cose su un sacco di argomenti ma il nonprofit, spiace dirlo soprattutto a me che per certi versi lo considero un “maestro” (ma, come diceva Don Milani, «chi non perde il suo maestro per strada perde la strada»), non è mai stata una sua vera priorità. Non tanto e non solo perché i suoi governi non verranno certo ricordati per l’impulso determinante dato allo sviluppo del Terzo settore, quanto soprattutto perché il nonprofit non rientra nelle categorie culturali più pregnanti del pensiero economico di Prodi.

Significativo in proposito il lungo articolo che ha scritto il 22 giugno sul Messaggero, intitolato Crisi, otto proposte per la rinascita dell’industria . È ormai acclarato da ampia letteratura economica il ruolo che possono svolgere le organizzazioni nonprofit nel creare le cosiddette infrastrutture immateriali (una su tutte, il capitale sociale) essenziali per favorire lo sviluppo economico. Soprattutto quello dei distretti industriali, di cui pure Prodi molto ha studiato e molto conosce. Ebbene in quel lungo editoriale non c’è un solo accenno al ruolo di produttore di capitale sociale del nonprofit. Prevale una visione dicotomica in cui c’è spazio solo per Stato e mercato. L’unica tipologia organizzativa non lucrativa citata è la fondazione, qui richiamata sulla falsariga dell’azienda tedesca Bosch retta da una fondazione, come utile strumento per superare gli ostacoli di governance che possono sorgere nelle imprese familiari quando tra fratelli e/o eredi emergono discordanze su come gestire l’azienda e su chi debba farlo. Ma anche qui si tratta di cose già ampiamente dette e risapute. Ricordo, per esempio, alcuni articoli apparsi a fine degli anni Ottanta sull’Espresso in cui il famoso fiscalista Victor Uckmar, incaricato da Raul Gardini di studiare una soluzione per dare un assetto proprietario stabile al gruppo Ferruzzi, dichiarava che stava pensando allo scopo proprio a una fondazione.

Renzi commentando questo intervento di Prodi ha detto che si tratta di un ottima cassetta degli attrezzi di cui tener conto nell’azione di governo. Già, proprio così, una cassetta degli attrezzi. Punto. Ma se si vuole davvero cambiare c’è bisogno di molto di più, innanzitutto di ruspe che scavino fondamenta per nuove infrastrutture, anche immateriali come il capitale sociale, indispensabili per creare opportunità di lavoro. Per questo la riforma del terzo settore è così importante, per questo un nuovo terzo settore troverà modo di edificarsi solo se verrà rottamato in larga parte quello che c’è oggi.
Se la “rottamazione”, come testualmente scrive Renzi (pag. 7) nel suo Oltre la rottamazione è stata l’idea «di riportare la politica in sintonia con il Paese», idem deve valere per il settore nonprofit che ha un vitale bisogno di essere riportato in sintonia con il Paese. Sintonia già di milioni di volontari e centinaia di migliaia di lavoratori nel sociale. Ma non, al contrario, di quelli (e ce ne sono, eccome se ce ne sono) che pensano solo al proprio piccolo o grande potere di cui ancora dispongono e si industriano, passano di evento pubblico in evento pubblico a sostenere improbabili tesi, provano a far breccia su pietismo e buoni sentimenti pur di non mollarlo nemmeno di un centimetro.

Visto che ho citato Prodi mi torna alla mente una definizione che diede di lui il compianto Edmondo Berselli: «Gronda bonomia da tutti gli artigli». Parafrasandola si potrebbe dire di costoro che grondano ipocrisia da tutti gli appigli.
Mi auguro che Bobba sappia smontarglieli uno ad uno, a partire dal non presenziare ai tanti inutili convegni ai quali immancabilmente essi fanno bella presenza pretendendo si dia ascolto al loro inconsistente e noiosissimo bla bla bla.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com