L’economia dell’aderenza

Una sonora scoppola, non c’è che dire, di quelle lasciano il segno per un bel po’. Una “sberla” accademica, s’intende. Ma non per questo meno dolorosa. Anzi.

A riceverla è stato Alberto Alesina, uno dei nostri economisti più famosi all’estero, che insegna nella prestigiosa università americana di Harvard e che spesso unisce la sua firma a quella di Francesco Giavazzi nella stesura di lunghi editoriali per il Corriere della Sera, di solito per bacchettare a destra e a manca. A sferrarla nientemeno che Paul Krugman, premio Nobel per l’economia nel 2008, uno dei più acuti, autorevoli, “irriverenti” economisti in circolazione.
Krugman, in un articolo pubblicato il 25 aprile sul New York Times e ripreso sabato scorso da Repubblica con il titolo L’austerity è finita ko ha affermato senza troppi giri di parole che Alesina (ma non solo lui) ha preso un grosso abbaglio nel sostenere che l’austerity produce crescita e occupazione. Ha scritto Krugman:

«La posizione pro austerity è ormai implosa; non solo le sue previsioni si sono dimostrate del tutto fallaci, ma gli studi accademici invocati a suo sostegno si sono rivelati infarciti di errori e omissioni, nonché basati su statistiche di dubbia attendibilità. I due principali studi che forniscono all’austerity la sua presunta giustificazione, quelli di Alberto Alesina e Silvia Ardagna sull’”austerity espansiva”, e di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sulla fatidica “soglia” del novanta per cento del rapporto debito/Pil sono stati ferocemente criticati già all’indomani della loro pubblicazione. Gli studi, inoltre, non hanno retto a un attento scrutinio. Intanto gli eventi nel mondo reale hanno rapidamente svuotato di significato le previsioni del fronte pro-austerity».

Eppure, prosegue nel ragionamento Krugman, sebbene già da tempo fossero emersi seri dubbi circa l’attendibilità delle teorie pro austerity, c’è da chiedersi come sia possibile che esse abbiano fatto tanta presa sulle élite che poi prendono le decisioni che incidono sulla carne viva dei cittadini (e infatti l’articolo era in originale efficacemente titolato The 1 Percent’s Solution)?
Il tema è annoso e non riguarda certo solo le teorie pro austerity, peraltro brillantemente e definitivamente “smascherate” (quelle di Reinhart e Rogoff) non da chissà quale blasonato senior economist bensì da un ventottenne, Thomas Herndon, dottorando alla University of Massachusseetts di Amherst. Detta in estrema sintesi la questione si potrebbe riassumere così: come è possibile che tanti economisti, pur sbagliando frequentemente le loro teorie, trovano altrettanti numerosi “decisori” che continuano a pendere incondizionatamente dalle loro labbra?

Quanto successo durante la recente crisi finanziaria rappresenta un’altra circostanza emblematica di come l’ortodossia economica abbia preso un granchio, al punto che un altro economista di vaglia come il Nobel Joseph Stiglitz ha, a più riprese, tuonato contro «il sapere convenzionale che non solo non ha previsto la crisi e diceva che una crisi del genere non sarebbe potuta accadere, ma non è stato in grado di anticipare l’evoluzione della crisi nemmeno dopo che la bolla era scoppiata, dal momento che asseriva che gli effetti sarebbero stati limitati. Il difetto di fondo dell’approccio dominante è legato alla sua origine, un modello basato su assunti grossolanamente semplificatori».

Insomma, una storia vecchia quella degli economisti che su assunti perlomeno discutibili impostano i loro modelli e, per questo, diventano non di rado anche oggetto di freddure (tanto per ricordarne una: come fa un economista su un’isola deserta ad aprire una scatoletta di tonno? Suppone di avere un apriscatole). Ciò perché in molti continuano a pensare all’economia come a una scienza quando invece scienza non lo è affatto. Lo esemplificava bene Keyens quando affermava che «l’economia non è come la mela newtoniana, mentre cade cambia direzione». O, più di recente, Andrew Lo del Mit, nel sostenere che «la fisica ha tre leggi con cui spiega il 99 per cento dei fenomeni, gli economisti hanno 99 leggi con cui spiegano il tre per cento dei fenomeni».

È possibile colmare un simile gap? Come rendere gli studi economici più “aderenti” alla realtà? Uso questo aggettivo non a caso. Domenica leggevo sul domenicale del Sole 24Ore la bella presentazione di Salvatore Settis al volume di Adriano Olivetti Il cammino delle Comunità in cui, a un certo punto, viene ripreso il concetto di “inaderenza” espresso dallo scrittore Corrado Alvaro nel suo libro L’Italia rinunzia?, ossia «il baratro fra i rituali della politica e i bisogni e le potenzialità del Paese e del suo popolo».

Ecco, se anche un’ampia fetta della comunità degli economisti abbandonasse certi rituali di autoreferenzialità (la famosa torre d’avorio) e si occupasse di più dei bisogni e delle potenzialità dei Paesi e dei loro popoli sicuramente la loro inaderenza diminuirebbe.
Detto per inciso: il discorso di ieri di Enrico Letta alla Camera mi è parso piuttosto “aderente”, sia dal punto di vista politico che economico.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com