I dieci anni amari della Responsabilità d’impresa

Giusto dieci anni fa, il 18 luglio 2001, la Commissione europea presieduta da Romano Prodi pubblicava il libro verde sulla responsabilità sociale di impresa, definita come «l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese in tutte le operazioni commerciali, nei processi decisionali e nei rapporti tra l’azienda e i propri interlocutori».

Era un bel segnale che l’Europa mandava al resto del mondo: innanzitutto di coerenza con la strategia varata quasi un anno prima, al Summit di Lisbona del 23 e 24 marzo 2000, di «diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale». E poi ad apporre la firma sul documento c’era uno che di economia industriale se ne intendeva e aveva riconosciuta credibilità visto che alla necessità di “temperare” il capitalismo aveva dedicato in tempi non sospetti accurate riflessioni.

In Italia il Libro Verde trovò subito una felice accoglienza. Grazie soprattutto all’allora ministro del Welfare Roberto Maroni che prese molto a cuore la cosiddetta Corporate social responsibility (CSR), coinvolse alcune università affinché lo aiutassero “culturalmente” a diffonderla, la inserì tra le priorità del semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea (seconda metà del 2003), fece intendere nemmeno troppo per il sottile a imprenditori e Confindustria che dovevano darsi una bella mossa. E adoperò una carta efficacissima in proposito: definì tutta una serie di parametri di responsabilità sociale, le imprese che ne avessero rispettato almeno un certo numero avrebbero poi potuto progressivamente usufruire di particolari agevolazioni fiscali e non. Poiché, infatti, il libro verde parlava di «integrazione volontaria…» bisognava in qualche modo “stanare” i nostri industriali e far capire loro che comunque non dovevano prendersela troppo con comodo, anche perché non mancavano pareri di peso, come quello dell’europarlamentare laburista Richard Howitt, relatore di un approfondito commento sul Libro Verde, che vedeva col fumo negli occhi la questione della “volontarietà”: «Il diritto internazionale esiste» disse «per promuovere e assicurare la protezione della vita umana e dell’ambiente. Non sono certo le imprese a decidere se rispettarlo o meno».

Inoltre gli scandali Enron e Wordlcom negli Usa e quello Parmalat in Italia da più parti avevano fatto emergere con forza la necessità dell’etica nella condotta di impresa.

Luca di Montezemolo, allora presidente di Confindustria, si mostrò presto reattivo e si diede molto da fare per andare incontro al ministro. Organizzò anche a  Maranello, il 14 luglio 2005, un mega raduno di imprese socialmente responsabili, suggestivamente intitolato “Csr in pole position” e chiese alla commissione cultura di Confindustria, presieduta dall’amministratore delegato di Mondadori Maurizio Costa, di mettere al primo posto dei suoi lavori la responsabilità sociale d’impresa. Negli stessi frangenti, il vicepresidente di Confindustria Andrea Pininfarina (purtroppo prematuramente scomparso in un incidente in moto il 7 agosto del 2007), affermava senza mezzi termini: «Purtroppo credo che molte imprese abbiano atteso di subire qualche danno di immagine per correre ai ripari. Invece sono stato sempre convinto che una buona reputazione sia la naturale conseguenza di un comportamento corretto e responsabile nei confronti dei propri dipendenti, degli azionisti, dei clienti come dell’ambiente nel quale si opera».

A metà 2006 scoccò l’ora del secondo Governo Prodi e le deleghe sulla responsabilità sociale d’impresa andarono al ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero che incaricò di occuparsene il suo sottosegretario Cecilia Donaggio, detta Franca.

Con tale premier, le premesse almeno sulla carta c’erano tutte perché la Csr si radicasse ancora di più nel tessuto economico. Ma non andò affatto così. Non solo perché il Governo, come noto, durò appena due anni scarsi durante i quali Prodi fu totalmente assorbito dai tentativi di tenere in piedi i cocci della sua risicatissima maggioranza, ma anche perché la Donaggio, bravissima persona, di Csr  e delle molteplici accezioni in cui si sarebbe potuta concretamente declinare tuttavia non ne sapeva abbastanza.

Nel frattempo il settore nonprofit cominciava il suo triste declino, soprattutto in termini di autorevolezza di molti suoi rappresentanti, nel formulare e rivendicare istanze di welfare ed equità sociale, facendo così progressivamente mancare alle imprese la sua azione di pungolo, critica, sprone.

Si arriva così dritti dritti al governo attuale e ai giorni nostri in cui la Csr semplicemente sparisce dall’Agenda dell’esecutivo ma anche dell’opposizione (o quel che l’è…).

Confindustria, dal suo canto, diventa sempre più lamentosa, meno propositiva e quasi mai autocritica (ho apprezzato, al riguardo, la chiarezza di Massimo Donandon, presidente della Mayer Braun Deutschland, con cui all’indomani dell’ultima assemblea annuale di Confindustria ha tenuto a precisare: «Non possiamo continuare solo a gettare la croce addosso alla politica. Dobbiamo concentrarci su noi stessi, sull’innovazione, spingere sull’internazionalizzazione. Sono questi gli elementi che ci permetteranno di crescere»). Mentre l’unico trend che non conosce affievolimento è quello dei convegni e delle tavole rotonde dedicati alla responsabilità sociale, in cui di frequente manager e imprenditori fanno a gara a dichiarare che le loro aziende la Csr ce l’hanno nel dna (e ci fosse un moderatore uno che, non dico confutasse ma almeno avanzasse qualche timida perplessità circa una così roboante affermazione).

Meno di un mese fa, in una sua corrispondenza da New York, Federico Rampini ha reso conto su Repubblica di un dibattito che oggi attraversa l’America su come uscire dalla crisi, incentrato su 13 idee che possono salvare il capitalismo. Nella sostanza, però, quelle idee sono una sola e ruotano, essenzialmente, attorno alla necessità di promuovere un’economia più sostenibile che, di fatto, ha nella Corporate social responsibility uno dei suoi punti cardine. Oltreoceano ne parlano in tanti. Da noi, praticamente nessuno.

Quando tre anni fa Prodi ha deciso di voler mettere nero su bianco i ricordi dei suoi cinque anni trascorsi a Bruxelles, uno dei pochi provvedimenti che non ha menzionato è stato proprio il libro verde sulla responsabilità sociale d’impresa.

Forse ne aveva già previsto l’amaro epilogo.

 

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com