Quando finirà

Riprendo la discussione aperta col post della settimana scorsa, provando a ragionare in modo franco sui possibili scenari che abbiamo davanti. Credo che farlo e che farlo in modo schietto sia necessario, proprio a fronte di una situazione così incerta e imprevedibile, anche se le risposte che ci diamo dovessero essere scoraggianti. Anche sapendo che viviamo una situazione senza precedenti e quindi imprevedibile. D’altra parte i sacrifici che stiamo facendo ci costringono già, più o meno inconsciamente, a darci un orizzonte temporale, a pensare a quando finirà; e darsi un orizzonte temporale illusorio può aggravare le già pesanti conseguenze di questa situazione sulla salute mentale di ciascuno di noi.

Una settimana scrivevo che avevamo davanti due opzioni possibili, come società: mantenere una qualche forma di normalità accettando il rischio del contagio e le sue dolorosissime conseguenze, oppure chiudere tutto. Il governo ha deciso per noi e ha scelto la seconda strada. Non voglio discutere la bontà di questa decisione, di cui capisco le ragioni, e credo che nessuno di noi – mitomani esclusi – oggi vorrebbe trovarsi al posto di Giuseppe Conte, che sta gestendo questa situazione senza precedenti con dignità. Sono stato estremamente critico verso la nascita di questo governo, ma oggi tremo al pensiero che queste straordinarie restrizioni delle nostre libertà potessero essere decise gestite da politici autoritari e fanatici dello stato di polizia.

Però, ecco, questa è la mano di carte che ci è capitata. Abbiamo chiuso tutto. Proviamo allora a fare a ragionare uno o due passi avanti rispetto alla nostra situazione attuale.

Non contate i giorni.

Per quanto sia umano e più che comprensibile – stare chiusi in casa ha conseguenze devastanti sulla salute mentale di decine di milioni di persone – non dobbiamo contare i giorni, o le settimane. Il decreto del governo fissa il termine del 3 aprile per le restrizioni dei movimenti perché imposizioni così straordinarie non possono che avere una data di scadenza. Ma è del tutto illusorio pensare che il 3 aprile le nostre vite possano ricominciare normalmente.

Il massimo che possiamo sperare – il massimo che possiamo sperare – da qui al 3 aprile è vedere appiattirsi quelle maledette curve dei contagiati, dei ricoverati e dei deceduti. Sarebbe una notizia fantastica. Ma non risolutiva.

Accettato che questo virus ha la capacità di contagiare dal 40 al 70 per cento della popolazione mondiale, come dicono gli epidemiologi, non bisogna dimenticare che in Italia in questo momento i contagi accertati sono in tutto circa 15.000. Considerato che facciamo il tampone solo a chi presenta sintomi importanti, e che il virus si può contrarre in forma asintomatica, a partire dal tasso di letalità possiamo ricostruire che i contagiati totali in Italia siano fin qui – compresi guariti e deceduti – tra i 50.000 e i 100.000. Molti ma molti di meno dei 20 o 30 milioni di italiani (come minimo) potenzialmente esposti al contagio, e di quelli che potrebbero permetterci di parlare di immunità di gregge. È piuttosto evidente dunque che non solo è impossibile che il 3 aprile il numero di contagiati sia zero – anche perché, appunto, la gran parte delle persone contagiate oggi non sa di esserlo – ma anche che se il 4 aprile tornassimo tutti a fare la vita di prima, a uscire e vederci e chiacchierare e abbracciarci, il virus ricomincerebbe a circolare e torneremmo rapidamente dove siamo oggi.

Sia chiaro, nessuno pensi che queste restrizioni siano per questo inutili. Anzi. Restare a casa per abbassare quelle maledette curve vuol dire salvare centinaia di vite al giorno: e dovremo continuare a impegnarci per tenerle basse. Nel frattempo ci stiamo attrezzando e ci attrezzeremo per curare sempre più persone, ma per quanto sia possibile potenziare la potenza e disponibilità del nostro sistema sanitario, il numero di medici e i posti in terapia intensiva, evidentemente ogni sistema conosce un punto di rottura: un numero oltre il quale non è più possibile fornire cure adeguate ai pazienti. E quel numero non è, boh, un milione, ma è molto più basso. Quindi la necessità di tenere basse quelle maledette curve non svanirà: lo scopo è ammalarci lentamente, in modo da non sovraccaricare gli ospedali e magari sviluppare a un certo punto una qualche forma di immunità di gregge. La parola chiave nell’ultima frase è lentamente.

È probabile che il governo decida a un certo punto di allentare alcune delle attuali misure di restrizione, il 3 o il 10 o il 30 aprile o di maggio, perché anche tenere le persone chiuse in casa ha un prezzo che cominceremo a misurare in depressioni, attacchi di panico, liti, omicidi e suicidi. Ed esiste ragione di confidare che i sacrifici di questi giorni ci abbiano resi un po’ più responsabili di prima. Ma è molto, molto, molto improbabile che un prossimo eventuale allentamento delle restrizioni somigli anche solo lontanamente alla nostra vita di prima.

Anche perché il virus non conosce confini e nel resto del mondo succedono le cose che sono successe da noi, solo con tempi, modalità e reazioni diverse. Non vuol dire necessariamente che tutti i paesi finiranno per adottare i lockdown sul modello italiano, né che ci sia un unico modo giusto per rispondere a questa pandemia o tantomeno che sia il nostro: vuol dire che anche nell’ipotesi completamente implausibile in cui a un certo punto il numero dei nostri contagiati dovesse diventare zero, saremmo comunque esposti. Anche nell’ipotesi altrettanto implausibile di bloccare tutti i collegamenti aerei da ogni paese del mondo, le merci devono continuare a viaggiare. Molte arrivano dall’estero; tutte vengono portate da persone.

Ci sono due orizzonti temporali nei quali possiamo sperare. Il primo è che davvero il caldo indebolisca il virus: non sappiamo se sarà così, non è scontato, ma potrebbe essere. In ogni caso, però, sarebbe una tregua temporanea: il virus tornerebbe a farsi sentire in autunno e in inverno, come già prevedono alcuni epidemiologi. Il secondo, naturalmente, è la produzione di un vaccino. Sappiamo per certo che lo troveremo e sappiamo per certo che ci metteremo meno tempo che per qualsiasi altro vaccino, ma sappiamo per certo che ci vorranno ancora mesi di studi e di test. Quando ce lo avremo, poi, sarà necessario produrlo e distribuirlo a miliardi di persone. Non sarà una cosa immediata.

Lo dico a me per primo: la spiazzante velocità con cui sono cambiate le nostre vite compromette la nostra capacità di accettare che l’uscita da questa crisi non sarà rapida quanto è stato il suo ingresso. Uno scenario che soltanto un mese fa avremmo considerato lunare – le code ai supermercati, la polizia per le strade a controllare chi esce di casa, le scuole chiuse, le rivolte e i morti nelle carceri, i treni che non partono, l’impossibilità di vedere i propri cari – oggi è la nostra vita quotidiana. Non possiamo escludere nemmeno ulteriori deragliamenti delle nostre vite, peraltro: basta uno sciopero degli autotrasportatori, come i tanti che ci sono stati negli ultimi anni. E sappiamo che, quando ripartiremo, ci metteremo un bel po’ per tornare dove eravamo. Insomma, tutto questo finirà, ma non il 3 aprile.

Anche a me ogni tanto sembra un brutto sogno.

Francesco Costa

Vicedirettore del Post, conduttore del podcast "Morning". Autore dal 2015 del progetto "Da Costa a Costa", una newsletter e un podcast sulla politica americana, ha pubblicato con Mondadori i libri "Questa è l’America" (2020), "Una storia americana" (2021) e "California" (2022).